Il (dis)orientamento della Corte costituzionale sulla proposta conciliativa del giudice

02 Marzo 2021

Nell'ambito di un giudizio promosso da un lavoratore per ottenere differenze retributive, la Corte d'appello solleva questione di costituzionalità dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., autonomamente e in combinato disposto con l'art. 420, comma 1, c.p.c.
Massima

Sono inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con l. 848/1955, nonché agli artt. 21 e 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, dalla Corte di appello di Napoli, sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Sono infondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 420, comma 1, c.p.c., sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6, 13 e 14 CEDU, nonché agli artt. 21 e 47 CDFUE, dalla Corte di appello di Napoli, sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Il caso

Nell'ambito di un giudizio promosso da un lavoratore per ottenere differenze retributive, anche a fronte della disponibilità espressa in sede di memoria difensiva dalla parte resistente, il giudice formulava una proposta conciliativa che prevedeva la corresponsione al ricorrente dell'importo di Euro 2.500,00 e la compensazione delle spese, proposta che veniva accettata all'udienza successiva esclusivamente dalla convenuta che si rendeva disponibile ad un immediato pagamento tramite assegno bancario.

Il Tribunale, all'esito delle prove orali richieste dalle parti, accoglieva la domanda del ricorrente per la somma di Euro 900,00, respingendo per il resto il ricorso, e condannava lo stesso ai sensi dell'art. 91, secondo alinea, c.p.c. alla rifusione delle spese, quantificate in Euro 1.500,00 oltre accessori in ragione del rifiuto dell'offerta conciliativa.

La sentenza di primo grado era appellata dal lavoratore anche per il mancato riconoscimento delle spese, sebbene egli fosse risultato vittorioso.

La Corte d'appello sollevava quindi questione di costituzionalità dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., autonomamente e in combinato disposto con l'art. 420, comma 1, c.p.c., ritenendo la stessa pregiudiziale alla sua decisione sulla corretta statuizione del Tribunale in ordine alle spese di lite.

La questione

Come sottolinea opportunamente la Corte costituzionale nella sentenza in commento, le censure del giudice rimettente avevano investito entrambe le predette disposizioni, nella misura in cui le stesse attribuiscono al giudice il potere di porre le spese processuali a carico del lavoratore ricorrente, che abbia rifiutato senza giustificato motivo una proposta conciliativa, poi rivelatasi equivalente o addirittura più favorevole rispetto all'esito del giudizio.

Secondo il giudice a quo tali previsioni sarebbero state in contrasto con l'esigenza, storicamente avvertita dal legislatore, di tutelare il lavoratore, quale parte strutturalmente debole del processo, finendo così con lo snaturare le finalità dell'istituto della conciliazione nel processo del lavoro, quale strumento volto ad assicurare al lavoratore una pronta tutela, evitando allo stesso i costi e i tempi di un giudizio.

La diseguaglianza economica delle parti, in uno con la disciplina normativa oggetto dei dubbi di legittimità costituzionale, avrebbe finito, secondo quanto prospettato dal Collegio rimettente, per indurre il lavoratore ad accettare una proposta conciliativa incongrua al solo fine di evitare il rischio di essere condannato alle spese. In altri termini, la scelta di conciliare la controversia non sarebbe stata «libera», poiché sanzionata attraverso uno sproporzionato rischio di aggravamento di spese nei confronti di chi, seppur parzialmente, abbia comunque ottenuto il riconoscimento del diritto rivendicato, senza che possa ipotizzarsi, a carico dello stesso, una condotta di abuso del processo, peraltro già adeguatamente sanzionata da altre disposizioni normative.

Questo ostacolo al diritto di accesso al giudice avrebbe violato non solo gli artt. 3 e 24 Cost., ma anche altre norme costituzionali che, come gli artt. 4 e 35, attribuiscono peculiare rilevanza e tutela al lavoro, ed anche l'art. 117, comma 1, Cost. con riferimento a diverse disposizioni della CEDU.

Le soluzioni giuridiche

La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni di legittimità costituzionale che investivano l'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c. sulla scorta di tre rilievi.

Innanzitutto, nel caso in esame, la proposta conciliativa non era stata formulata dal resistente ma dal giudice cosicchè non veniva in rilievo la norma, di carattere eccezionale, contenuta nella disposizione censurata che, secondo il Giudice delle leggi, troverebbe applicazione solo in caso di proposta proveniente dalla parte.

In secondo luogo poichè tale disposizione si risolve in una «sanzione» per la parte che agisce in giudizio, è di dubbia compatibilità - ciò di cui non ha tenuto conto la Corte rimettente - con un processo, come quello del lavoro, che si caratterizza per una serie di norme di favore per il lavoratore, per lo più parte ricorrente, volte a tenere in considerazione la sua strutturale debolezza, anche sotto il profilo economico.

Infine, osserva sempre la Corte costituzionale, nel processo del lavoro è previsto, per entrambe le parti, il rifiuto senza giustificato motivo della proposta conciliativa proveniente dal giudice (art. 420 c.p.c.); rifiuto che trova un'autonoma e completa regolamentazione, nella previsione, come già sopra evidenziato, della possibilità per il Giudice di valutarlo ai fini della regolamentazione delle spese processuale.

Per converso le questioni di legittimità costituzionale che investivano l'art. 420, comma 1, c.p.c. sono state dichiarate infondate.

A tale conclusione la Corte è pervenuta sulla scorta della considerazione che tale norma, a differenza dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., consente al Giudice, ove la proposta conciliativa o transattiva, non sia stata accettata, di tenere conto senza nessun automatismo, in modo simmetrico per ciascuna delle parti in causa, ai fini della sola regolamentazione delle spese, del rifiuto di tale proposta senza giustificato motivo.

Ne deriva che il potere del Giudice del lavoro di tenere conto del rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva dallo stesso formulata all'udienza di discussione ai fini della statuizione sulle spese di lite non si traduce altro che nella possibilità di compensarle legittimamente, in tutto o in parte, anche ove non ricorrano i presupposti di cui all'art. 92, comma 2, c.p.c.

Osservazioni

I giudizi di inammissibilità e infondatezza delle questioni di costituzionalità sollevate a cui perviene la sentenza della Corte costituzionale sono senz'altro condivisibili ma non può dirsi altrettanto per i passaggi che ricostruiscono l'ambito di applicazione dei due istituti presi in esame nel caso di specie.

Innanzitutto, secondo i giudici di legittimità, il meccanismo di regolamentazione delle spese previsto dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., si riferirebbe all'ipotesi del rifiuto della proposta conciliativa proveniente dalla parte e non anche alla proposta di conciliazione formulata dal giudice, in conformità a quanto affermato da una pronuncia della Cassazione a Sezioni Unite (Cass. civ., sez. un., 12 settembre 2017, n. 21109).

Infatti secondo tale indirizzo la possibilità della proposta conciliativa o transattiva del giudice è prevista da un'altra norma, l'art. 185-bisc.p.c. e, sebbene tale disposizione non contempli alcuna conseguenza specifica per il rifiuto ingiustificato di essa, se ne può tener conto al fine del regolamento delle spese processuali, in linea con quanto disposto dall'art. 420, comma 1, c.p.c.

L'art. 185-bis c.p.c. costituirebbe quindi il pendant dell'art. 420, comma primo c.p.c. e a questo occorrerebbe aver riguardo per colmarne le lacune.

Nei medesimi termini si è espressa la relazione parlamentare alla legge di conversione (l. 98/2013) del d.l. 69/2013 (c.d. decreto del fare), il cui art. 77, comma 1, lett. a) che ha inserito nel codice di rito l'art. 185-bis c.p.c.

Vi si legge infatti testualmente che: «la lettera a) del comma 1 introduce, dopo l'art. 185 c.p.c., l'art. 185-bis c.p.c., in base al quale il giudice, nel processo di cognizione, non solo può promuovere la conciliazione delle parti attraverso il loro interrogatorio libero (come già previsto), ma deve anche formulare una propria proposta transattiva o conciliativa. Il rifiuto delle parti, senza giustificato motivo, potrà essere valutato dal giudice ai fini del giudizio (previsione già contenuta nell'art. 420 c.p.c. in tema di rito del lavoro)».

Orbene, è indubbio che, con l'introduzione dell'art. 185-bis c.p.c., il legislatore ha inteso riconoscere espressamente anche al giudice ordinario il potere di formulare una proposta conciliativa o transattiva, in analogia a quanto aveva già fatto con la modifica dell'art. 420, prima comma, c.p.c. operata con l'art. 31, comma 4, l. 183/2010, che aveva previsto l'obbligo per il giudice del lavoro di formulare una proposta transattiva (l'obbligatorietà della iniziativa è desumibile dall'uso del tempo indicativo presente.

L'attribuzione alle due norme della medesima finalità non autorizza però anche, ad avviso di chi scrive, ad applicare analogicamente quella dettata per il processo del lavoro al processo ordinario quando ve n'è una che si addice specificamente a quest'ultimo, come, per l'appunto l'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c.

A fronte della succitata tortuosa ricostruzione è più agevole ritenere che l'art. 185-bis c.p.c. abbia solo esteso espressamente (a ben vedere a tale soluzione poteva già pervenirsi in precedenza in via interpretativa) l'ambito soggettivo di applicazione dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c. nonché, a differenza dell'art. 420 c.p.c. consentire la formulazione della proposta conciliativa fino al termine della fase istruttoria.

Del resto è grazie a tale premessa ricostruttiva che finora la giurisprudenza di merito ha applicato senza incertezze il meccanismo dell'art. 91 c.p.c. al rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa del giudice (cfr. Trib. Milano, 26 giugno 2013; Trib. Nocera Inferiore 27 agosto 2013; Trib. Fermo 21 novembre 2013; Trib. Verona 28 febbraio 2014, Trib. Ferrara, 19 ottobre 2016; Trib. Catania, 1 marzo 2019; Trib. Roma 20 gennaio 2020).

Una simile interpretazione consente anche di limitare gli effetti dell'applicazione dell'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., poiché contiene l'entità della condanna della parte vittoriosa che abbia rifiutato senza giustificato motivo la proposta del giudice ad una parte delle spese (quelle maturate dopo il rifiuto della proposta), a differenza della ben più ampia portata, di cui subito vedremo, dell'art. 420, comma 1, c.p.c. e risulta così coerente all'esigenza segnalata anche dalla Corte nella sentenza in commento di non superare principio di soccombenza in difetto di una espressa previsione normativa.

La Corte costituzionale invece, dopo aver richiamato tale limite, giunge, in modo alquanto contradditorio, ad interpretare estensivamente la deroga al principio di soccombenza di cui è espressione l'art. 185-bis c.p.c., con riguardo al quantum della condanna.

E' evidente infatti che, non venendo in rilievo il limite quantitativo fissato dall'art. 91, comma 1, secondo periodo, c.p.c., il giudice potrà condannare la parte che ha rifiutato la sua proposta conciliativa a tutte le spese del giudizio e non solo a quelle maturate successivamente al rifiuto di essa.

In tale prospettiva peraltro l'operatività dell'istituto risulta ampliata a fasi del giudizio ordinario e a giudizi, come quello sommario o quello cautelare, nei quali il meccanismo dell'art. 91 c.p.c. non può esplicarsi appieno.

Infatti quanto più la durata, complessiva o residua, del giudizio è contenuta tanto minore è l'effetto persuasivo connesso alla prospettiva del rifiuto della proposta conciliativa.

Continuando nell'esame delle criticità della decisione deve anche osservarsi come la Corte proponga, al contempo una interpretazione restrittiva dell'art. 420, comma 1, c.p.c, contrastante con il suo tenore letterale, secondo la quale «il rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa o transattiva formulata dall'autorità giudiziaria assume rilievo nella decisione quanto alla statuizione sulle spese processuali e non già alla valutazione del merito della controversia».

In realtà la norma succitata stabilisce che il rifiuto della proposta conciliativa del giudice, al pari della già precedentemente prevista mancata comparizione personale della parte all'udienza di discussione, «costituiscono comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio», attribuendo quindi a tale evenienza valenza di argomento di prova ai sensi dell'art. 116, comma 2, c.p.c.

Previsione analoga è quella dell'art. 8, comma 4-bis, del d. lgs. 28/2010, che ricollega alla mancata partecipazione senza giustificato motivo al procedimento di mediazione la possibilità del giudice del successivo giudizio di desumere argomenti di prova da tale comportamento.

La conseguenza del rifiuto della proposta conciliativa del giudice del lavoro risulta quindi essere - se non altro nelle intenzioni del legislatore – ben più incisiva di quella prevista dal riformato art. 91 c.p.c.: lì la mancata accettazione rileva solo sul piano delle spese, qui invece, alla mancata (ed immotivata) adesione alla proposta del giudice è collegata una valenza probatoria quantomeno indiziaria.

L'interpretazione della Corte costituzionale avrebbe potuto essere condivisa se il legislatore avesse formulato diversamente la norma, ricollegando al rifiuto della proposta conseguenze negative solo in punto di regolamentazione delle spese.

Un precedente del genere è rinvenibile nell'art. 16, comma 2, terzo periodo, del d. lgs. 5/2003 sul rito societario, ora abrogato, che prevedeva che: «Ove il tentativo non abbia esito positivo, il tribunale puo' tenerne conto ai fini della distribuzione delle spese di lite, anche ponendole, in tutto o in parte, a carico della parte formalmente vittoriosa che non e' comparsa o che ha rifiutato ragionevoli proposte conciliative».

La limitazione, nei termini proposti dal giudice delle leggi, delle conseguenze del rifiuto della proposta conciliativa del giudice del lavoro non trova riscontro nemmeno nei precedenti della Corte costituzionale (sentt. n. 190/1985 e 77/2007), che vengono richiamati nella pronuncia in commento giacchè risultano palesemente non pertinenti al caso qui in esame.

Con essi infatti era stata dichiarata l'illegittimità costituzionale di due norme della legge istitutiva dei T.A.R.: la prima (art. 21, ult. comma), limitando l'intervento d'urgenza del giudice amministrativo alla sospensione dell'esecutività dell'atto impugnato, non consentiva al giudice stesso di adottare nelle controversie patrimoniali in materia di pubblico impiego, sottoposte alla sua giurisdizione esclusiva, i provvedimenti d'urgenza; la seconda (art. 30) non prevedeva che gli effetti, sostanziali e processuali, prodotti dalla domanda proposta a giudice privo di giurisdizione si conservassero, a seguito di declinatoria di giurisdizione, nel processo proseguito davanti al giudice munito di giurisdizione.

Si noi poi che il riconoscimento al giudice della mera facoltà di fondare la decisione sul rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa consente comunque di salvaguardare la costituzionalità della norma anche se letta nei termini sopra esposti.

In conclusione è opportuno anche chiedersi se i limiti costituzionali alla operatività dell'istituto della proposta conciliativa del giudice indicati dalla Corte costituzionale possano valere anche per altri giudizi, ordinari, in cui vi sia una disparità economica tra le parti, come quello in cui una di esse sia stata ammessa al patrocinio a spese dello Stato.

Orbene, ad avviso di chi scrive la risposta a tale interrogativo pare dover essere negativa poiché il rifiuto ingiustificato della proposta conciliativa da parte della parte non abbiente poi vittoriosa finirebbe per far gravare l'onere delle spese sullo Stato, senza contare che che, diversamente da quanto opina la Corte costituzionale, rimane ferma la possibilità per il giudice, a fronte di una simile evenienza scelta, di disporre la compensazione delle spese poiché l'ultima parte dell'art. 91, comma 1, c.p.c. fa salvo il disposto del secondo comma dell'art. 92 c.p.c.

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