Il quadro probatorio ai fini IVA nelle operazioni soggettivamente inesistenti

02 Marzo 2021

Il diritto a detrazione IVA, in capo al cessionario, può essere disconosciuto solo seguendo le direttrici tracciate negli anni dalla Corte di Giustizia che impongono la previa dimostrazione, in capo all'Ufficio, della fittizietà del cedente unitamente alla mala fede del cessionario.
Premessa

Uno dei temi più spinosi in tema di fatturazione IVA è quello della distribuzione dell'onere probatorio, tra parte pubblica e contribuente, in tema di fatturazione per operazioni soggettivamente inesistenti nell'ambito delle frodi IVA relative ad acquisti intracomunitari di autoveicoli per il tramite di società cartiere. Di tale tematica è tornata ad occuparsi la Corte di Cassazione con l'ordinanza n. 2413 del 3 febbraio 2021.

La Corte, cogliendo un probabile vizio logico-argomentativo dei giudici di secondo grado, ha accolto le doglienze dell'Ufficio pur ribadendo che il diritto a detrazione IVA, in capo al cessionario, può essere disconosciuto solo seguendo le direttrici tracciate negli anni dalla Corte di Giustizia che impongono la previa dimostrazione, in capo all'Ufficio, della fittizietà del cedente unitamente alla mala fede del cessionario.

Attuale simmetria della Cassazione alle “indicazioni” fornite dalla Corte di Giustizia

Nel caso oggetto di commento, l'Ufficio contestava alla contribuente il diritto alla detrazione dell'IVA sostenendo che gli acquisti intracomunitari di autoveicoli fossero avvenuti per il tramite di società cartiere (missing trader) che non avevano versato l'IVA, erano prive di strutture aziendali e la cui operatività era stata limitata ad archi temporali circoscritti.

La Cassazione, richiamando propri interventi allineati alla posizione della Corte UE (Cass. 9851/2018, n. 17290/2017 e n. 24490/2015), ha effettuato una ricognizione della distribuzione dell'onere probatorio tra le parti, ribadendo che qualora l'Ufficio contesti che “la fatturazione attenga ad operazioni soggettivamente inesistenti, … ha l'onere di provare l'oggettiva fittizietà del fornitore e la consapevolezza del destinatario che l'operazione si inseriva in una evasione dell'imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l'ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente”.

Assolto dall'Ufficio l'onere istruttorio, “grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un'operazione volta ad evadere l'imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi”.

Ed ancora, secondo la Corte, occorre calibrare l'analisi in relazione ad ogni singolo caso, valutando che se “non è possibile esigere che il cessionario, al fine di assicurarsi che non sussistano irregolarità o evasioni nella catena delle cessioni, verifichi che l'emittente della fattura correlata ai beni e ai servizi ne disponesse e fosse in grado di fornirli e che abbia soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell'Iva, o che disponga dei relativi documenti”, è però lecito attendersi da costui un obbligo di verifica qualora egli si trovi di fronte ad “indizi che gli consentano di sospettare l'esistenza di irregolarità o di evasione, secondo i criteri dell'ordinaria diligenza ed alla luce della qualificata posizione professionale ricoperta, tenuto conto delle circostanze esistenti al momento della conclusione dell'affare ed afferenti alla sua sfera di azione”.

Così, continua la Corte, in via esemplificativa potranno rilevare, ai fini del disconoscimento della detrazione IVA: l'acquisto dei beni ad un prezzo inferiore di mercato, la limitatezza del ricarico, la presenza di una varietà e pluralità di soggetti promiscuamente indicati nella documentazione di trasporto e nella fatturazione, la scelta di operare secondo canali paralleli di mercato, la tempistica dei pagamenti, la qualità dell'intermediario, il numero, la qualità e la durata delle transazioni, a fronte di rapporti contigui con i titolari della cartiera.

L'intervento della Cassazione qui in commento può rappresentare un ulteriore avvicinamento della Corte interna alle “indicazioni” fornite negli anni dalla CGUE a partire dal leading case Optigen C-354/03 (ex multis C‑409/04, C‑146/05, C‑271/06, C‑438/09, C‑80/11, C‑285/11, C‑271/12, C‑33/13, C‑277/14, 624/15, 374/16, C‑189/18, C-430/19) in relazione alla problematica individuazione di un giusto equilibrio tra repressione dell'aberrante fenomeno frodatorio e la tutela del principio di neutralità, per mezzo della detrazione, in capo al soggetto passivo.

Nel campo delle frodi IVA, le operazioni soggettivamente inesistenti (in cui l'operazione di cessione/prestazione è realizzata ma vi è divergenza tra il cedente/fornitore effettivo e quello che “appare” in fattura) rappresentano la declinazione più elementare.

La posizione della CGUE, affinatasi negli anni a partire da C-354/03, può sinteticamente esprimersi con le seguenti parole: il diritto dei soggetti passivi di detrarre l'IVA dovuta per i beni acquistati e per i servizi ricevuti ai fini delle loro operazioni soggette ad imposta è un principio fondamentale del sistema comune dell'IVA; il diritto a detrazione, in linea di principio non soggetto a limitazioni, garantisce, in tal modo, la perfetta neutralità dell'imposizione fiscale per tutte le attività economiche, indipendentemente dalle finalità o dai risultati delle medesime, purché siffatte attività siano soggette all'IVA. Ed ancora, la lotta contro frodi, evasione fiscale ed eventuali abusi, costituisce obiettivo della Direttiva IVA per cui i soggetti passivi non possono avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell'Unione, pertanto le autorità e i giudici nazionali possono negare il beneficio del diritto a detrazione ove sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che lo stesso diritto è invocato fraudolentemente o abusivamente, nella misura in cui il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che, con il proprio acquisto, partecipava ad un'operazione che si iscriveva in una frode all'IVA di un soggetto a monte o a valle nella catena di tali cessioni o prestazioni.

Emblematico del pensiero della Corte UE il passaggio in cui (C-277/14 punto 49) esclude il dinego della detrazione per il soggetto passivo che “non sapeva e non avrebbe potuto sapere” della frode del dante causa, per concludere, al contrario e coerentemente, per la negazione del diritto in capo a colui che “sapeva o avrebbe dovuto sapere” (punto 50).

Mentre la posizione della CGUE è stata costante nel tempo, dal lato interno, invece, in materia si è assistito negli anni ad un continuo fluttuare della Cassazione, tra decisioni che si discostavano completamente dalle indicazioni della Corte UE, disconoscendo automaticamente il diritto a detrazione o sulla scorta della mancata coincidenza tra cedente effettivo e soggetto fatturante o sulla base di una presunta mancata inerenza o sull'assenza di dotazione di personale (v. da ultimo Cass. Civ. 13135/2020 e 19647/2020), ed altre che recepivano le sue coordinate, in relazione ad un tributo, quale l'IVA, che impone ai giudici interni di applicare i criteri ed i principi convalidati dalla Corte europea.

Si è poi assistito, da parte della Cassazione, ad un'erronea sovrapposizione concettuale tra fatture soggettivamente ed oggettivamente inesistenti (si esclude il dato normativo penale), uniformate sul concetto di “falsa fatturazione”, laddove, come acutamente evidenziato in dottrina (A. Giovanardi, Le Frodi IVA, Collana - Diritto Tributario Italiano ed Europeo - 2013 - p. 167), la nozione di frode IVA non collima con quella di fatturazione soggettivamente inesistente, perché se è vero che dove c'è un'operazione fittizia dal punto di vista soggettivo (finalizzata all'evasione IVA da parte della cartiera) c'è anche una frode, è anche vero che non vale il contrario, giacché la cartiera potrebbe autonomamente interporsi allo scopo di appropriarsi dell'imposta senza dover spartire il bottino con altri.

Sull'inutilità della distinzione tra operazioni soggettivamente ed oggettivamente inesistenti si era altresì espressa, in maniera puntuale, attenta dottrina (N. Raggi, Fine delle operazioni inesistenti nell'iva?, - Dir. e prat. trib. - 2011, pag. 282 e ss.) auspicando, da parte della Cassazione, il riconoscimento dell'accertamento della consapevole partecipazione del contribuente alla frode quale snodo unico e centrale ai fini della decisione e l'abbandono del metro dell'inesistenza soggettiva, che finisce con l'addossare al contribuente un onere probatorio diabolico, mortificando (illegittimamente) la piena e corretta applicazione del diritto comunitario.

La medesima dottrina (N. Raggi) ha correttamente considerato il criterio dell'inesistenza quale sovrastruttura concettuale, ignota all'ordinamento comunitario (ed alla giurisprudenza su di esso formatasi), inutile e ridondante, allorché intesa nel significato di inesistenza oggettiva, sviante rispetto all'obbligo (che ciascuno Stato membro ha) di sconfiggere le frodi con strumenti «proporzionati», rispettosi del principio di certezza del diritto e del legittimo affidamento del contribuente e, quindi, compatibili con il diritto comunitario.

Di inesistenza si può parlare, per non sconfinare in tautologie, solo in relazione ad un'operazione mai avvenuta, di cui il cessionario non potrebbe mai sottacerne l'assenza di conoscibilità, e non già in relazione ad operazioni realmente realizzate in cui vi è semplice divergenza tra cedente effettivo e soggetto fatturante, a prescindere dalla successiva e necessaria individuazione della buona fede del cessionario ai fini dell'eventuale disconoscimento della detrazione.

Più correttamente, come osservato in dottrina (A. Mondini - Rass. trib. - 2008 in Falso nelle frodi IVA), si dovrebbe parlare di buona fede in senso soggettivo di colui che non risulti né partecipe né informato del disegno fraudolento altrui e di buona fede oggettiva qualora l'ignoranza circa l'esistenza di una frode sia incolpevole e non imputabile a negligenza (uso di precauzioni esigibili da un operatore commerciale accorto).

Dimostrazione dell'assenza di buona fede del cessionario e utilizzo di elementi oggettivi

Su questi concetti, brevemente riferiti, si inseriscono le costanti argomentazioni della Corte UE sulla dimostrazione dell'assenza di buona fede del cessionario e sull'utilizzo di quegli elementi oggettivi che il giudicante deve vagliare al fine del disconoscimento del diritto alla detrazione dell'IVA.

Così nella sentenza C-439/04 (punto 45), la CGUE ha precisato che “il diritto di dedurre l'IVA pagata a monte da parte di un soggetto passivo che effettua simili operazioni non può neanche essere compromesso dalla circostanza che, nella catena di cessioni in cui si inscrivono le dette operazioni, un'altra operazione, precedente o successiva a quella da esso realizzata, sia inficiata da frode all'IVA senza che tale soggetto passivo lo sappia o possa saperlo” (v. anche C-354/03 e C-395/02), con ciò escludendo qualsiasi refluenza dello stato del cedente nei confronti del cessionario.

Ragion per cui la Corte UE ha dedotto che “gli operatori che adottano tutte le misure che si possono loro ragionevolmente richiedere al fine di assicurarsi che le loro operazioni non facciano parte di una frode, che si tratti di frode all'IVA o di altre frodi, devono poter fare affidamento sulla liceità di tali operazioni senza rischiare di perdere il proprio diritto alla deduzione dell'IVA pagata a monte” (v. anche C-384/04).

In ossequio al principio di neutralità, la CGUE sottolinea poi di non poter distinguere tra operazioni lecite ed illecite (C-158/98 punti 14 e 21 e C-439/04 punto 50), così che “la qualificazione di un comportamento come riprovevole non comporta una deroga all'imposizione”, tranne in situazioni specifiche nelle quali, a causa delle caratteristiche particolari di talune merci o di talune prestazioni, è esclusa qualsiasi concorrenza tra un settore economico lecito ed un settore illecito.

Il percorso tracciato dalla Corte UE è quindi nel senso di consentire al giudice di valutare una serie di indizi evidenziati dai verificatori che devono necessariamente essere accompagnati dalla dimostrazione della conoscenza (“sapeva o non poteva non sapere”), da parte del cessionario della frode del suo dante causa.

A riprova di ciò, la medesima CGUE (C-277/14), ad esempio, in un caso di acquisto di carburante da società comunitaria che non era registrata ai fini dell'IVA, non presentava dichiarazioni fiscali, non pagava le imposte, non aveva l'autorizzazione alla vendita di combustibile liquido e l'immobile indicato come sede sociale era in stato fatiscente, ha concluso che, dal momento che il criterio dell'esistenza del fornitore dei beni o del suo diritto a emettere fatture non figura tra le condizioni del diritto alla detrazione, richiedendosi solo la sua qualità di soggetto passivo (definita in modo ampio dalla CGUE in C‑324/11 punto 30), non può disconoscersi il suo diritto a detrazione.

Qualora il cessionario sia un soggetto passivo ed utilizzi i beni/servizi acquistati per la propria impresa (costi inerenti) e non sia dimostrata la mala fede come declinata dalla CGUE, si può concludere per la regolarità della posizione del cliente anche in assenza di strutture produttive idonee del cedente, dal momento che l'attività può “essere svolta in altri luoghi diversi dalla sede sociale” o il cedente “può limitarsi a dare ordine al primo venditore di trasportare i beni in questione direttamente al secondo acquirente, senza che disponga egli stesso necessariamente dei mezzi di stoccaggio e di trasporto indispensabili per effettuare la cessione dei beni in questione”.

È la buona fede (del cessionario o del cedente se l'operazione ha ad es. oggetto operazioni di export come in C-409/04) il vero ago della bilancia, in grado di depotenziare l'intangibilità del diritto a detrazione nella misura in cui non consente al contribuente in mala fede (v. E. Marello in Oggettività dell'operazione IVA) di giovarsi degli effetti tipici della fattispecie, laddove questi voglia avvalersi fraudolentemente o abusivamente delle norme del diritto dell'Unione (C-255/02 punti 68 e 69 e C-146/05 punto 38).

Il ruolo dell'art. 60-bis d.P.R. n. 633/1972 e la solidarietà dipendente del cessionario. Criticità dal lato probatorio

A latere del disconoscimento della detrazione IVA si pone la questione della responsabilità solidale del cessionario per il pagamento dell'imposta non corrisposta dal cedente.

Con l'art. 60-bis del decreto IVA il legislatore, legittimato dall'art. 205 della Direttiva IVA, ha introdotto dall'1.1.2005 un meccanismo di responsabilità solidale del cessionario nel pagamento dell'IVA per (provare ad) arginare i fenomeni frodatori nell'ambito della cessione di alcuni beni (di elevato valore unitario ma di comune commercio) individuati con il D.M. 22.12.2005, qualora il prezzo di cessione dei medesimi sia inferiore al loro valore normale.

La solidarietà del cessionario, limitata alla sola imposta e non anche alla sanzione irrogabile al cedente a meno di accertato concorso ex articolo 9 D.Lgs. n. 472/1997 del primo nella frode del secondo, sorge solo al ricorrere delle condizioni indicate al comma 2 della norma citata: l'omesso versamento IVA del cedente e la cessione dei beni a prezzi inferiori al valore normale.

Tale norma pone seri problemi applicativi nella misura in cui trasla automaticamente sul cessionario la responsabilità del pagamento dell'IVA al venir meno del poco comprensibile “mancato versamento” dell'imposta, che può essere legittimamente sterilizzata dal cedente con quella detraibile (G. Porcaro in Obbligazione del cessionario nell'IVA, Riv. dir. trib. - 2008, osserva che “sembra che il legislatore abbia ragionato come se l'IVA fosse un'imposta d'atto da versare per ogni operazione, ma così non è”).

Riguardo la cessione al di sotto del valore normale, questo è difficile da decodificare in relazione in particolare a quei beni individuati nel D.M. soggetti a rapida obsolescenza (si pensi ad es. alle autovetture o ai prodotti di telefonia), oltre al fatto che la norma può applicarsi (cessione “sotto costo” e mancato versamento IVA) anche fuori dai casi di frode (mancato versamento da parte di azienda in crisi di liquidità), così da evidenziare l'estrema gravosità per il cessionario di offrire la controprova.

La norma sembra essere stata modellata ad uso dei verificatori, limitando notevolmente le possibilità di prova contraria da parte del cessionario estraneo ed incolpevolmente ignaro del disegno frodatorio del cedente cartolare, concedendogli solo di offrire una “prova negativa, quindi impossibile” che la vendita “sotto costo” non è connessa al mancato versamento dell'IVA.

Una norma del genere è però in netto contrasto con le conclusioni costanti della CGUE, la quale, se pur ha riconosciuto l'istituto della solidarietà cedente/cessionario, qualora il secondo, all'atto dell'acquisto, “era a conoscenza del fatto o aveva ragionevoli motivi per sospettare che tutta o parte dell'IVA non sarebbe stata versata”, sulla presunzione che “il prezzo ad esso richiesto era inferiore al prezzo minimo che questi poteva ragionevolmente aspettarsi di pagare sul mercato per detti beni”, ha comunque evidenziato che “tali presunzioni non possono essere formulate in maniera tale da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile per il soggetto passivo superarle fornendo la prova contraria” (C-384/04, punto 32).

Ragionando in questi termini, tali presunzioni, come evidenziato dall'Avvocato generale nelle sue conclusioni a C-384/04, “darebbero luogo, de facto, ad un sistema di responsabilità oggettiva, che andrebbe al di là di quanto necessario per garantire i diritti dell'Erario”.

Si torna così all'inizio dell'analisi, ovvero al requisito cardine, richiesto dalla Corte UE, che impone ai verificatori l'onere di dimostrare che il cessionario “sapeva o non poteva non sapere o aveva ragionevoli motivi per sospettare” circa la frode del suo dante causa, al fine di richiedere a questo l'IVA non corrisposta dal cedente.

In conclusione

Per concludere, in breve, si osserva un riavvicinamento della Cassazione verso le indicazioni fornite del tempo dalla Corte UE, pur se le conclusioni non sono sempre del tutto “concilianti” verso la CGUE nei casi di operatori sani che si vedono coinvolti incolpevolmente in frodi IVA, ma ben auguranti di una giustizia più sensibile ed attenta.

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