La deroga modulare alla continuità dei rapporti di lavoro, tra testo vigente e Codice della crisi d'impresa

03 Marzo 2021

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con due sentenze sorelle, la n. 10414 e la n. 1015 del 6 febbraio 2020, affronta il tema delle tutele previste dall'art. 2112 C.C. nel trasferimento di aziende in crisi, in presenza di un accordo derogatorio ai sensi dell'art. 47, comma 4-bis, della L. 428/1990.
Premessa

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione con due sentenze sorelle, la n. 10414 e la n. 1015 del 6 febbraio 2020, affronta il tema delle tutele previste dall'art. 2112 c.c. nel trasferimento di aziende in crisi, in presenza di un accordo derogatorio ai sensi dell'art. 47, comma 4-bis, della L. 428/1990. Ad interessare è soprattutto l'incertezza nell'interpretazione della previsione di Legge, che pare concedere l'applicazione dell'art. 2112 c.c. nei limiti di quanto definito dalle parti nell'accordo collettivo di secondo livello, senza però precisare la portata della previsione stante la mancata declinazione dei limiti derogabili.

Nel dettaglio viene fissato in funzione nomofilattica il seguente principio di diritto: “In caso di trasferimento che riguardi aziende delle quali sia stato accertato lo stato di crisi aziendale, ai sensi della L. 12 agosto 1977, n. 675, articolo 2, comma 5, lettera c), ovvero per le quali sia stata disposta l'amministrazione straordinaria, in caso di continuazione o di mancata cessazione dell'attività, ai sensi del D.Lgs. 8 luglio 1999, n. 270, l'accordo sindacale di cui alla L. 29 dicembre 1990, n. 428, art. 47, comma 4-bis, inserito dal D.L. n. 135 del 2009, conv. in L. n. 166 del 2009, può prevedere deroghe all'art. 2112 c.c. concernenti le condizioni di lavoro, fermo restando il trasferimento dei rapporti di lavoro al cessionario”.

Il principio sospeso trova ancoraggio

Un destino beffardo ha voluto interrogare la S.Corte in merito all'interpretazione di un testo oramai obsoleto. E' già noto da tempo, infatti, il nuovo comma 4-bis dell'art. 47 L. 428/90, come riformato dall'ambizioso art. 368 Codice della Crisi d'Impresa, che, nella nuova stesura (il capo IV del CCI rubricato Disposizioni in materia di diritto del lavoro contiene un unico articolo, l'art. 368, dedicato al raccordo tra normative lavoristiche e concorsuali, con preciso focus dedicato proprio alla circolazione dell'azienda in crisi), pare sfumare i dubbi applicativi deducibili dalla norma in esaurimento, pur ancora oggi viva e vegeta, puntellando una linea interpretativa che affonda nella voluntas legis originaria.

Tale stesura contamina l'azione della Suprema Corte qui commentata, che nell'estendere il sindacato di legittimità, effettua un'analisi semantica della deroga all'applicazione dell'art. 2112 c.c. operabile tramite l'art. 47, comma 4-bis L. 428/1990, comparandola con la ferrea ed indubbia previsione del comma 5 (in realtà permangono alcuni dubbi sulla nettezza di questa deroga da parte dall'Istituto previdenziale limitatamente alla fase di contenzioso, in controtendenza rispetto alla recente prassi prodotta dal medesimo istituto), ed inserendosi proprio nel solco tracciato dalla riforma del D.Lgs. 14/2019 rivendicandone la coerenza: “il legislatore del Codice della crisi [..] ha così più esplicitamente inteso recepire […] l'unica lettura del comma 4-bis che questa Corte ritiene già percorribile in via ermeneutica anche per il passato, quale unica interpretazione conforme al diritto dell'Unione”.

Il risultato finale è il conferimento al nuovo testo, ancora sospeso, di un effetto di interpretazione autentica con efficacia retroattiva.

Il nuovo comma 4-bis introdotto dall'art 368 D. Lgs. 14/2019 offre un piacevole assist, utile alla Suprema Corte per sancire un principio che era nell'aria, ma che, mancando prima l'interrogazione diretta un po' per caso, un po' per carenza di audacia da parte degli operatori, non si era affacciato con frequenza nelle aule dei tribunali, nonostante dal 2009 lo strumento di diritto positivo fosse pienamente disponibile.

Penetrando nel cuore della vexata quaestio, vale la pena ricordare che il diritto fallimentare annovera tra i target primari la continuità occupazionale, storicamente vera punta di diamante della dialettica politica e vero nodo operativo delle soluzioni tecniche da calare sulle crisi d'impresa. Le pronunce qui esaminate sigillano i diritti dei lavoratori coinvolti da un trasferimento d'azienda in crisi corredato dall'accordo sindacale (stante il fatto che, ad oggi, quella di Alitalia risulta una crisi non ancora composta, con ampie zone di spigolosa incertezza da limare, la volontà di arrivare al terzo grado di giudizio per vedersi riconoscere la libera gestione della questione occupazionale da parte degli operatori coinvolti, potrebbe rappresentare un tentativo di forzare una soluzione mediata ad una vicenda altrimenti irrisolvibile), in pieno recepimento della deroga ex art. 47, comma 4-bis, attraverso il richiamo testuale: “l'accordo sindacale ivi previsto non può prevedere limitazioni al diritto dei lavoratori di passare all'impresa cessionaria, ma semplicemente modifiche alle condizioni di lavoro al fine del mantenimento dei livelli occupazionali”.

Deve considerarsi che il testo del comma 4-bis (pre-riforma e tutt'ora vigente) impone “il mantenimento anche parziale dell'occupazione”. La Suprema Corte enfatizza la genericità di questo precetto, probabilmente voluta, riconducendola ad un, necessario, percorso ermeneutico logico-sistematico che non può allontanarsi dalla pronuncia di condanna della CGUE fecondatrice del testo in vigore, riservando all'accordo ex comma 4-bis la mera gestione delle condizioni di lavoro, con i limiti perimetrali che decifreremo infra.

Seguendo la narrazione della questione oggetto di due sentenze pronunciate in eterozigosi, alcuni lavoratori avevano impugnato i licenziamenti irrogati da CAI Spa a seguito di un passaggio d'azienda ad Alitalia-SAI Spa, dal quale erano stati esclusi in forza di un accordo di secondo livello, stipulato con l'obiettivo di interrompere il rapporto di lavoro connesso all'operazione societaria. Cedente e cessionario avevano condiviso con le parti sociali una prassi diffusa nelle operazioni de quibus, lasciando alla bad company la quota di popolazione aziendale non occupabile da parte del soggetto cessionario, per procedere poi al licenziamento del personale in eccesso. L'operazione in questo caso ha generato precise doglianze innescanti il contenzioso, che solo parzialmente interessa il tema degli accordi in deroga, ma, incidentalmente, ne offre lo spunto di trattazione.

CAI, a corollario della questione centrale inerente l'interpretazione dell'art 47, comma 4-bis L. 428/1990, contesta la decadenza dall'impugnazione da parte dei lavoratori. Rileva però come l'operazione vada vista nel suo complesso e non limitatamente all'esecuzione del recesso. Il termine di decadenza della domanda del lavoratore, infatti, nel caso si limitasse alle conseguenze del licenziamento illegittimo, si attesta ai 60 giorni previsti dall'art. 6 L. 604/66, mentre nel caso di licenziamento nullo o annullabile (Cass. n. 6969/2013; Cass. n. 4611/2019 “l'art. 2112 stabilisce soltanto che il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento, non facendone in generale divieto, tanto meno a pena di nullità”) per violazione degli obblighi inerenti il trasferimento d'azienda, azione tesa quindi ad accertare il passaggio al cessionario, non soggiace a termini di decadenza, secondo gli insegnamenti della Cassazione consolidata (recentemente Cass. n. 28750/2019), pertanto l'impugnazione che innesca il giudizio viene considerata pienamente ricevibile.

Riprendendo il tema cardine della contesa, la possibilità di limitare il passaggio dei dipendenti nelle operazioni di salvataggio viene riservata dalla giurisprudenza di legittimità ai meri casi previsti dall'art. 47, comma 5, L. 428/1990, dove la finalità liquidatoria riveste un ruolo determinante, mentre nelle diverse situazioni di crisi componibile, dove il controllo dell'autorità pubblica è marginale (il tema CAI, e la crisi Alitalia in genere, in realtà vedono un'autorità pubblica che vigila in modo addirittura eccessivo e pedante, ma trattasi di autorità che si palesa in veste politica senza vincoli giudiziari o di amministrazione del patrimonio) si concentra sulle fasi prodromiche, ma non nello sviluppo sostanziale dell'operazione, non risulta possibile scalfire i dettami imposti dall'art. 2112, c.c., senza il coinvolgimento del singolo lavoratore interessato.

Come da dottrina premonitrice, la Suprema Corte propone quindi una lettura del comma 4-bis comunitariamente orientata, distante dal dettato letterale no limits: “l'art. 2112 c.c. trova applicazione nei termini e con le limitazioni previste dall'accordo medesimo”, ma protetta dal nuovo Codice della crisi d'impresa, che, pur ancora lontano dal produrre i propri effetti, riscrive il testo del comma proprio recependo questa logica ermeneutica. Il testo di riforma, ben noto alla Corte al momento della sentenza, ha sicuramente contribuito ad alleggerire il peso di una decisione scomoda, che ricordiamo essere la prima e sola sul punto.

Nel profondo del caso trattato dalla Suprema Corte si scorge un confronto sindacale aspro, con sigle che stentano a trovare una sintesi delle proprie posizioni e che, anche a causa di detta frattura, alimentano il contenzioso che sfocia nella sentenza (in realtà una coppia di sentenze) d'interesse.

Pur non volendo eccedere in digressioni, non si può tacere sul fatto che il contenzioso viene a galla proprio a seguito di un disallineamento di matrice sindacale.

L'azienda infatti dimostra decisa fermezza nel mantenimento della posizione fino al giudizio di legittimità, pur in presenza di un accordo sottoscritto solo da alcune sigle. Su questo aspetto è recente l'approdo in Cassazione del tema degli accordi separati, tanto da ottenerne un principio ampiamente condivisibile, ed in linea con le note basi del diritto sindacale moderno, ove gli accordi separati, in passato sparuti, nella seconda fase del diritto sindacale transitorio pullulano e vanno necessariamente gestiti (sul tema e sulla relazione causa-effetto cfr. P. ICHINO in L'intelligenza del Lavoro 36. Dalla qualità alla quantità: il problema della misurazione della rappresentatività. 37. La Crepa interna dell'art. 39 Cost.).

La sentenza di legittimità n. 26509/2020 afferma che i contratti aziendali risultano esigibili verso tutti i lavoratori dell'impresa, ad eccezione di quelli che siano iscritti ad organizzazioni sindacali non firmatarie palesatesi in aperto dissenso. Gli effetti della pronuncia devono necessariamente accostarsi all'attuale tendenza politico amministrativa di individuare quali sigle leader unicamente quelle aderenti alla triplice, riconducendo alla contrattazione pirata tutte le intese esterne a quest'area (sul punto emblematica la vicenda riders ove il Ministero prima convoca, al fine di negoziare un accordo collettivo, le sigle dallo stesso designate senza compiere alcuna valutazione oggettiva di rappresentanza, poi con nota del 17/09/2020 disconosce espressamente il CCNL firmato da Assodelivery e UGL; L'INL, in aderenza, emette la circolare 7/2020 ove precisa, anch'esso senza riportare alcun dato oggettivo di comparazione, la necessaria applicazione del CCNL logistica come unica opzione possibile. Per una sintesi puntuale sul tema dei contratti leader si veda F.Natalini, Cronaca di una circolare annunciata, in La Circolare di Lavoro e Previdenza 33/2020; si permetta di citare anche questo autore Dal sindacato unico agli unici tre in Strumenti di Lavoro 8-9/2019). Ne deriva un affidamento difforme al singolo lavoratore dissenziente a seconda che questi aderisca ad un sindacato interno o esterno alla triplice, rafforzando oltremodo il conferimento del potere di definizione del contratto applicabile alla parte datoriale (interessante la narrazione di come si è arrivati ad un contratto collettivo aziendale esigibile pur sottoscritto SIDA nel 1969, nonché del ruolo storico del sindacato esterno alla triplice in azienda: Nogler, Statuto dei lavoratori e ideologia del “nuovo sindacato”, in Costituzionalismo.it, 1/2020 par. 5). A disconoscere tale pratica amministrativa che ignora l'art. 39 Cost., nonché gli obblighi di comparazione ove richiesti, si affaccia timidamente la giurisprudenza di merito (Trib. Catania n. 4747 del 16 dicembre 2020: “ai fini dell'applicazione dell'art. 1, comma 1, d.l. 9 ottobre 1989, n. 338, spetta all'Inps dimostrare la maggiore rappresentatività su base nazionale delle organizzazioni sindacali stipulanti il contratto collettivo”), ma la strada prevedibilmente è ancora lunga ed impervia.

La chiosa quindi non può che richiamare alla prudenza: tendenza agli accordi unanimi, oppure massima cura nel pesare il riconoscimento della parte dissenziente in caso di accordi separati. Si assuma che accostare questa lettura agli accordi in deroga per le aziende in crisi, significa sradicare gli stessi dalla categoria dei contratti “autorizzativi”, che paiono invece assumersi dal tenore letterale del testo, ricomprendendoli nel più ampio genus dei contratti “gestionali” con chiara inesigibilità erga omnes (è di questo avviso Marcello Basilico, posizione condivisa dallo scrivente: “La loro qualificazione in termine di accordi gestionali rappresenta dunque una forzatura”; “Essi non possono dirsi pertanto sottratti ai limiti dell'efficacia erga omnes che sono propri del nostro ordinamento”. Cfr. La tutela dei lavoratori nella crisi dell'impresa, La garanzia dei diritti dei lavoratori nella crisi d'impresa tra diritto interno e unionale: individuazione dei punti di frizione, SSM, 19 febbraio 2018).

La scissione a specchio al cospetto della legittimità

La differenza di portata tra i commi 4-bis e 5 dell'art.47 L. 428/1990, successiva alla scissione generata dalla condotta CGUE, ha sempre alimentato profili di dubbio (“le incertezze derivano dal fatto che i commi 4bis e 5 non identificano le deroghe concretamente ammesse ed esigono, d'altronde, una lettura tra loro combinata”, così Marcello Basilico op.cit.). Il rapporto tra i due commi, infatti, salvo nella tipizzazione delle aziende protagoniste, pareva prima facie simbiotico, incorporando, però, sinistri elementi di distanza.

Pur celando l'obiettivo di ottenere il medesimo risultato tramite due diversi commi (questa visione acquisisce autorevolezza tramite P.Tosi “dal dato testuale risulta inequivocabilmente che il comma 4bis contiene la medesima disciplina rovesciata del residuo comma 5; dunque un mero artificio legislativo, consapevole o meno, che si risolve nella stesura di una sorta di cortina fumogena tra disciplina nazionale e fonte comunitaria. Il dubbio che l'artificio sia consapevole sorge se si pensa alla resistenza che il legislatore ha sempre opposto, dal 1978 in poi, al superamento della nostra disciplina speciale circa la derogabilità dell'art. 2112 nei casi di trasferimento di aziende insolventi o comunque in crisi”, così in Circolazione dell'impresa in crisi e interpretazione comunitariamente orientata dell'art. 47, comma 4bis, L. 428/1990, in LavoroDirittiEuropa, 2/2018), il legislatore italiano ha dovuto necessariamente elaborare due testi difformi che concentrassero la loro diversità sulla necessità o meno del controllo dell'azienda in crisi da parte di un'autorità giudiziaria (le sentenze sorelle della Cassazione confermano l'insufficienza del Decreto di autorizzazione della Cigs per crisi aziendale, ai fini della vigilanza richiesta dalla CGUE per concedere l'accordo derogatorio forte. La vigilanza ministeriale non può associarsi negli effetti alla vigilanza dell'autorità giudiziaria), senza però chiarire in modo certo la reale portata delle generiche disposizioni difformi.

Alla luce del diritto positivo nazionale, e sganciandoci da una ratio probabilmente nota ma sommersa, si è resa evidente la necessità di chiarire la differenza tra due diversi disposti che, proprio perché non più riuniti in un unico comma, ovviamente non possono produrre effetti perfettamente sovrapponibili (in questo senso chiara la posizione di legittimità in Cass. n.10414/2020).

L'intervento della Cassazione giunge a sterilizzare l'intento gattopardesco del legislatore italiano che, in sede di composizione dell'infrazione derivante dalla Sentenza di condanna emessa dalla Corte Giustizia CE C-561/07 11 giugno 2009, andava a sdoppiare l'ipotesi di deroga tramite l'inserimento proprio del comma 4-bis al fine di estendere alle aziende in crisi non vigilata il favor dalla potenziale disapplicazione degli oneri ex art. 2112 c.c. , garantendo l'alleggerimento dei vincoli di continuità.

La sentenza qui commentata opta, quindi, per una lettura comunitariamente orientata rispettosa del monito CGUE, piuttosto che della tendenza assimilatrice delle due fattispecie derogatorie.

L'interpretazione unionale tende a sottrarre al sindacato il ruolo di garante dei diritti dei lavoratori, vietando la possibilità di discuterli o disporne al fine della dismissione, ritenendo che solo una vigilanza regolatrice a livello di autorità giudiziaria garantisce il miglior risultato occupazionale possibile nella definizione delle ipotesi circolatorie.

Tra le argomentazioni adottate dalla Corte a sostegno delle decisioni de quibus, non convince pienamente l'accostamento tra le diverse dizioni, secondo una logica che pare di mera convenienza. Più precisamente, per marcare la differenza tra commi 4-bis e 5 viene considerato dirimente il difforme richiamo all'art. 2112 tra applicazione limitata (“trova applicazione nei termini e con le limitazioni”) e disapplicazione (“non trova applicazione”), entrambe condizionate dal medesimo, necessario, accordo di secondo livello (P.Tosi, op.cit., non condivide questa lettura de plano: “medesima disciplina rovesciata”). Per confermare la medesima distanza, la Corte ritiene invece insignificante la locuzione gemella presente quale incipit dei due commi: “mantenimento anche parziale dell'occupazione", aggiungendo che il nuovo testo del comma 4-bis opera un esercizio di specificazione con efficacia retroattiva, introducendo il testo “fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro” (NdR: tutti o solo quelli oggetto della salvaguardia?). Il metro di valutazione dell'aspetto letterale utilizzato nei passi analizzati non può ritenersi coerente.

Sicuramente l'effetto di questa pronuncia svaluta fortemente l'utilità dell'art. 4-bis agli occhi degli operatori della crisi che comunque, ad onor del vero, non hanno mai riposto eccessive speranze risolutive nella misura, prova ne è la timida adesione alla deroga del 4-bis nei suoi undici anni di vigenza.

La deroga residua tamquam non esset

Alla luce dell'inesigibile soluzione di continuità, pare d'obbligo dirigere l'attenzione verso la ricerca dei residui di deroga attuabili tramite il comma 4-bis, anche e soprattutto al mero fine di conferire un significato ad un comma recentemente riscritto, che dal quadro giurisprudenziale esce svuotato da ogni potenziale utilità alla causa.

La Cassazione ex professo circoscrive a più riprese tra le ragioni della decisione l'azione producibile dagli accordi de quibus limitandoli a modifiche, anche in peius, all'assetto economico-normativo acquisito dai lavoratori in precedenza rispetto al trasferimento.

L'art. 2112 c.c. comprime la libera gestione datoriale dei diritti dei dipendenti in caso di successione aziendale, non tutti i diritti però vengono tutelati dall'articolo con il medesimo vigore. Tale scelta non deve leggersi in ottica discriminatoria, alcuni diritti più importanti di altri, bensì in ottica puntualizzatrice.

La tutela base infatti si concentra sulla continuità del rapporto di lavoro, sgombrando il campo dalla possibile interruzione dello stesso.

Altro aspetto fondamentale si rinviene nel comma 5 dell'art. 2112 c.c., che estende la tutela della continuità a tutte le operazioni che, in seguito a cessione contrattuale o fusione, comportano il mutamento nella titolarità di un'attività economica organizzata, con o senza scopo di lucro, preesistente al trasferimento e che conserva nel trasferimento la propria identità.

Tutti i diritti ulteriori rispetto alla continuità potrebbero sembrare ignorati; invece un loro richiamo analitico potrebbe sembrare ridondante, proprio perché è l'articolo successivo del codice civile a garantirne la permanenza in capo al lavoratore in caso di continuità, rendendoli addirittura indisponibili alla stessa scelta libera del dipendente.

La continuità del rapporto quindi, dogma dell' art. 2112, comma 1, automaticamente trascina la tutela ancor più ampia dell'art. 2113 c.c. “Le rinunzie e le transazioni, che hanno per oggetto diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 c.p.c., non sono valide”; veto assoluto alla libera disponibilità individuale, tanto più a quella collettiva.

Le circolazioni di aziende in crisi non permettono, quindi, la dismissione di diritti individuali, che, anche nella comfort zone dell'art. 2113, comma 4, c.c. – “Le disposizioni del presente articolo non si applicano alla conciliazione intervenuta ai sensi degli artt. 185,410,411,412-ter e 412-quater del codice di procedura civile” – liberano sempre e unicamente il cedente ai sensi dell'articolo 2112, comma 2, c.c..il lavoratore può consentire la liberazione del cedente dalle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro”. Quindi non il cessionario potrà esse liberato, bensì unicamente il cedente (Trib. Padova 27 marzo 2014; Trib. Alessandria 18 dicembre 2015). La liberazione del cessionario rimane possibile solamente interrompendo il rapporto, effetto, come abbiamo appreso, realizzabile attraverso la deroga originaria prevista dal comma 5 (in senso contrario Trib. Busto Arsizio 17 dicembre 2014, che legittima la liberazione del cessionario congiuntamente alla continuità del rapporto tramite la definizione degli accordi in deroga ex comma 4-bis).

Come risolvere quindi l'ipotesi, cara alle operazioni di M & A ove necessariamente il cessionario aspira all'alleggerimento dai debiti pregressi sorti durante la gestione dissestata? Per le aziende in bonis, pur in crisi conclamata e soggetta ad osservazione secondo i crismi imposti dal CCI, la soluzione può trovarsi solamente in una necessaria interruzione del rapporto, così da risolvere il vincolo di solidarietà incardinato nell'art. 2112 c.c., percorrendo la potenzialità della recedibilità dal rapporto di lavoro quale diritto liberamente disponibile (Cass. n. 22105/2009).

Indubbiamente la precisazione delle deroghe sfruttabili risulta un esercizio utile a misurare l'utilità della previsione.

La continuità del rapporto viene quindi garantita, e con questa tutti i diritti previsti da Legge e CCNL grazie all'art. 2113c.c. che potranno limarsi unicamente a mezzo accordo individuale.

Gli accordi in deroga attenuata del 4-bis potranno quindi concentrare l'attenzione solo sulla verifica degli aspetti legati all'inquadramento ed alla riorganizzazione aziendale, nei limiti di deroga offerti dall'art. 2103 c.c. (Basilico, op.cit. afferma che “Combinando il tenore della norma positiva con il principio della CGUE, ed aggiungo della Cassazione qui commentata, i limiti dell'intervento derogatorio nelle procedure non liquidatorie vengono a restringersi in modo significativo”).

Questi aspetti risultano subordinati a precisa contezza circa l'articolazione occupazionale dell'azienda, tutt'altro che scontata quando il compratore risulta terzo rispetto alla precedente gestione.

Ancora, potrebbe rendersi utile la verifica degli elementi normativi e retributivi eretti da fonte contrattuale.

Certamente potranno superarsi gli usi i quali, trattandosi di fonte eteronoma del rapporto, risultano disdettabili con effetto immediato, così come i contratti collettivi regolanti il rapporto quando scaduti, oppure armonizzati tramite appunto l'accordo in deroga (l'insignificante potenziale derogatorio, talmente ovvio da assimilare i casi di crisi ai comuni trasferimenti d'azienda caratterizzati da piena salute economica dei soggetti coinvolti, viene evidenziato da Giovanni Gaudio in Trasferimento d'azienda e crisi d'impresa: una eterogenesi dei fini da parte del legislatore italiano?, WP CSDLE “ Massimo D'Antona”.it-347/2017), replicando i medesimi effetti producibili in caso di circolazione di aziende in buona salute. Definitivamente pare superfluo il ricorso al comma 4-bis.

Indubbiamente andrà rispettata la perseveranza del legislatore riformista nel riproporre un comma dai contorni indefiniti, e la lettura aderente a questa ostinazione non può che trovare ristoro nell'intento di stimolare gli operatori della crisi d'impresa nel collocare la misura in un determinano habitat contrattualcollettivo, provando a ragionare in azienda sull'utilità dello strumento, nonché sui confini entro i quali sviluppare l'azione concertativa. Certamente il problema non potrà che rincontrarsi in sede di contrattazione separata con sigle dissenzienti leader, ove il dissenso espresso ricondurrà tutto all'articolo 2112 C.C. in purezza.

Falsa partenza per il codice della crisi d'impresa

L'osservazione circa l'adesione della Suprema Corte alla tesi cara al nuovo testo del comma 4-bis ritengo debba essere presa in seria considerazione, ma assunta con le dovute cautele.

Vale la pena chiedersi dove davvero la Corte prepara il terreno al CCI e dove invece fissa paletti che lo stesso codice faticherà ad abbattere.

In un precipuo passo la Cassazione riconosce al CCI una funzione riformatrice che supera i dubbi legati al riflesso tra i commi 4-bis e 5, conferendo al primo luce propria in continuità con il passato, tendente al mantenimento dell'occupazione determinato dall'accordo in deroga. La continuità passa dal “anche parziale” del testo vigente oggi, in esaurimento, alla previsione assorbente “fermo il trasferimento al cessionario dei rapporti di lavoro” del Codice della Crisi. Condivisibile pare infatti la lettura della futura disciplina dal tono inclusivo e garantista per tutti i lavoratori coinvolti, più discutibile sottendere la logica di continuità tra le due discipline, posto che l'evidenza di due testi diversi pare tradire tale tesi.

Ad onor del vero, la Cassazione nella trepidante attesa del Codice della Crisi, a dispetto di un percorso applicativo che pare non trovare pace, non risulta isolata. Sorprendentemente anche l'INPS rivoluziona il proprio pensiero in merito agli effetti interruttivi provocati dalle operazioni societarie che coinvolgono aziende decotte, emettendo prima il messaggio 2272/2019 (cfr. il mio Il commento al messaggio, I Rapporti di lavoro nel nuovo codice della crisi d'impresa, Euroconference, 2020, 86-97), rincarando poi la dose con il lapidario messaggio 3920/2020 che al punto 3 sancisce la linea dell'ente: “in ragione della tipologia di aziende destinatarie delle misure (imprese fallite o in amministrazione straordinaria, che abbiano cessato l'attività e per le quali sussistano concrete possibilità di cessione dei complessi aziendali), i lavoratori, al termine del periodo di integrazione salariale, cesseranno il rapporto di lavoro per licenziamento o per passaggio alle dipendenze dell'acquirente ai sensi dell'art. 47, comma 5, L. n. 428/1990, senza applicazione dell'articolo 2112 del codice civile”. La posizione dell'Istituto offre i due lati della medaglia: l'uno conforme al contenuto del presente contributo teso a garantire la liquidazione del TFR unicamente ai casi previsti dall'art. 47, comma 5, escludendo implicitamente in quanto non contemplato il caso del comma 4-bis, l'altro che spalanca le porte al nuovo comma 5 considerando de plano già applicabile la normativa in vacatio.

Altro aspetto di rilievo è rappresentato dal ruolo dell'OCRI. Tale Organo dovrà assistere con funzione consulenziale, quindi con chiare responsabilità connesse alla linea individuata per il superamento della crisi, avendo cura di valutare con la giusta attenzione gli effetti degli accordi collettivi connessi ai trasferimenti d'azienda.

La posizione della Cassazione risulterà comunque esterna all'attività dell'OCRI in quanto relegata al caso di richiesta di accesso alle procedure di regolazione della crisi (accordo di ristrutturazione del debito e/o concordato preventivo), mentre nella prima fase operativa, l'OCRI non avrà modo di valutare l'opportunità di accesso alle deroghe ex art. 4-bis.

Di vitale importanza invece l'introduzione di una sospensiva degli effetti legati agli accordi in deroga (tanto ai sensi del comma 4-bis quanto del 5), tramite il nuovo comma 1-bis dell'art. 47 L. 428/1990: “nei casi di trasferimenti di aziende nell'ambito di procedure di regolazione della crisi e dell'insolvenza di cui al presente codice, la comunicazione di cui al comma 1 può essere effettuata anche solo da chi intenda proporre offerta di acquisto dell'azienda o proposta di concordato preventivo concorrente con quella dell'imprenditore; in tale ipotesi l'efficacia degli accordi di cui ai commi 4-bis e 5 può essere subordinata alla successiva attribuzione dell'azienda ai terzi offerenti o proponenti”.

Questa previsione permetterà la libera contrattazione, nel rispetto dei tempi definiti al comma 1 del medesimo articolo, tempi molte volte non rispettati a causa dell'avvio delle procedure, solo al momento dell'assegnazione del complesso aziendale. La lettura della novella stimola notevoli aspetti strategici tali da permettere, a seconda dell'abilità del possibile acquirente nella gestione delle relazioni sindacali, l'aumento delle probabilità che l'offerta trovi soddisfazione.

Concludendo, il quadro complessivo deducibile dal coordinamento tra il pensiero della Suprema Corte ed il testo riformato del comma 4-bis, non pare stimolare un massivo ricorso alla contrattazione in deroga, in modo particolare perché questa deroga di fatto si rileva pressoché vuota ed inabile a scalfire i diritti tutelati dall'art. 2113, comma 1, c.c., tanto da obbligare gli operatori a dover continuare a rifugiarsi negli accordi individuali assistiti.

La sintesi probabile, quindi, evidenzierà la scarsa appetibilità dello strumento contrattualcollettivo, che tenderà proprio a dissuadere il ricorso alla fattispecie, con buona pace dei cavalieri bianchi interessati ad offrire un'opportunità alternativa alla decozione.

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