Istituti bancari, ostacolo alle funzioni di vigilanza e confisca. Ma la banca partecipa all'illecito o è soggetto estraneo al reato? E quindi?

08 Marzo 2021

Anche l'art. 2641 cod. civ. individua due diverse tipologie di confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo, quella diretta e quella per equivalente o di valore, sancendo al contempo il rapporto di sussidiarietà della seconda ipotesi di confisca rispetto alla confisca diretta che deve essere esperita in via prioritaria, essendo il ricorso alla confisca di valore consentito solo nel caso di impossibilità di "individuare" o "apprendere" i beni costituenti prodotto, profitto o strumento del reato.
Massima

Anche l'art. 2641 c.c. individua due diverse tipologie di confisca del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo, quella diretta e quella per equivalente o di valore, sancendo al contempo il rapporto di sussidiarietà della seconda ipotesi di confisca rispetto alla confisca diretta che deve essere esperita in via prioritaria, essendo il ricorso alla confisca di valore consentito solo nel caso di impossibilità di "individuare" o "apprendere" i beni costituenti prodotto, profitto o strumento del reato.

In presenza di un illecito societario, che in qualche modo veda coinvolto anche un ente collettivo, la scelta del pubblico ministero di non formulare istanza cautelare reale per la responsabilità amministrativa dell'ente non si riverbera sul meccanismo di sussidiarietà di cui agli artt. 2641 c.c. e 321, comma 2, c.p.p.; di conseguenza la ricerca dei valori da confiscare deve dirigersi in prima battuta in via diretta con riferimento al patrimonio della società e della persona fisica responsabile dell'illecito; solo se tali patrimoni non vengano ritenuti capienti rispetto all'importo da apprendere, è possibile procedere alla confisca di valore nei confronti della persona fisica (qualora l'ente non sia indagato)

Il caso

In sede di indagini veniva disposto un sequestro preventivo nei confronti dei vertici di un istituto di credito per i reati di cui agli artt. 2638 e 2622 c.c.. L'ipotizzato ostacolo alle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza demandate alla Banca d'Italia era consistito nel comunicare un ammontare dei fondi propri della banca non corrispondente al vero, mentre il delitto di false comunicazioni sociali conseguiva all'indicazione nel bilancio individuale e consolidato della banca valori non rispondenti al vero in ordine al possesso di azioni ed obbligazioni proprie e, dunque, al patrimonio netto (e di vigilanza), omettendo di dedurre dal capitale l'acquisto di titoli propri del medesimo istituto di credito, acquistati mediante la concessione di molteplici finanziamenti direttamente e/o indirettamente utilizzati per l'acquisto di azioni proprie.

Per i medesimi titoli di reato alla società creditizia erano contestati i relativi illeciti amministrativi ex d.lgs. n. 231 del 2001.

Secondo l'ipotesi accusatoria da tali reati sarebbe derivato un profitto significativo in capo agli indagati nonché sarebbero stati individuabili beni destinati alla commissione dei reati, rappresentati dal corrispettivo delle azioni proprie finanziate mediante operazioni cd. "baciate", attraverso la conclusione di contratti negozialmente collegati con mandati irrevocabili a vendere. Su tali presupposti, l'organo di accusa aveva inoltrato richiesta di sequestro preventivo solo nei confronti delle persone fisiche (e non degli enti) che il giudice delle indagini preliminari concedeva in relazione alla futura confisca diretta e per equivalente dei beni utilizzati per la commissione dei reati.

Avverso il provvedimento le difese hanno fatto ricorso in cassazione, lamentando l'inosservanza degli artt. 2641 c.c. e 321, comma 2, c.p.p. con riferimento al punto in cui i giudici di merito hanno ritenuto legittimo il sequestro preventivo dei beni degli indagati di valore equivalente a quelli utilizzati per commettere il reato, senza aver verificato, prima, la capienza dell'ente indagato ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001 ed eventualmente esperito nei confronti di quest'ultimo il sequestro in forma diretta di tali beni strumentali. In sostanza, secondo la difesa, nel caso di specie si sarebbe stati in presenza di una violazione del principio di sussidiarietà da parte del giudice per le indagini preliminari, il quale aveva disposto il sequestro dei beni dell'indagato di valore equivalente a quelli "strumentali", senza prima accertare la possibilità di sottoporre a sequestro in forma diretta i beni utilizzati per commettere il reato (vale a dire una somma di denaro - bene fungibile rispetto al quale la confisca è sempre diretta — di valore corrispondente a quello utilizzato per finanziare l'asserito acquisto di azioni proprie) nei confronti dell'istituto di credito, che dal reato aveva tratto vantaggio, il tutto in contrasto con l'art. 2641 c.c., che sancisce espressamente il principio di sussidiarietà della confisca di valore rispetto a quella in forma diretta in relazione tanto al prodotto e al profitto del reato quanto ai beni destinati a commetterlo.

A queste osservazioni, secondo la difesa, non potrebbe replicarsi richiamando quanto asserito dalla vicenda, per più aspetti assolutamente analoga, della Veneto Banca (Cass., sez. V, 26 maggio 2017, n. 42778). Se è vero che anche in quel caso si è assistito a condotte di falso e di ostacolo alle funzioni di vigilanza con modalità analoghe a quelle sopra descritto, va altresì considerato che in quell'ambito l'ente creditizio è stato ritenuto estraneo al reato, diversamente da quanto riscontrabile nel caso di specie in cui la banca viene chiamata a rispondere ai sensi della legge n. 231 del 2001; ciò significa dunque che, nella vicenda in esame, la banca non poteva essere considerata "terzo estraneo" al reato e quindi i suoi beni potevano essere oggetto di apprensione diretta e ciò, a maggior imponeva ai giudici di merito di verificare prima di procedere alla confisca di valore se i beni utilizzati per commettere il reato fossero ancora fisicamente rintracciabili e, dunque, suscettibili di apprensione anticipata in via diretta. In sostanza, opererebbe nel caso di specie il principio, delineato in tema di reati tributari, secondo cui il sequestro di denaro presso il legale rappresentante della società nel cui interesse sono stati commessi i reati e che non sia uno "schermo fittizio" deve sempre essere considerato quale sequestro per equivalente, di talché il sequestro preventivo impugnato dovrebbe essere annullato nella sua interezza, poiché anche laddove formalmente dispone nei confronti delle persone fisiche degli indagati il sequestro prodromico alla confisca diretta, si sostanzierebbe, in realtà, in un sequestro "per equivalente".

La questione

Come è noto, nonostante l'assonanza nominativa con la confisca disciplinata dal codice penale, la confisca richiamata dall'art. 2641 c.c. non ha la natura di misura di sicurezza, ma è qualificata dalla dottrina e dalla giurisprudenza quale sanzione obbligatoria (ALESSANDRI, La confisca, in ALESSANDRI (a cura di), Il nuovo diritto penale delle società, Milano, 2002, 107; GRASSO, Profili problematici delle nuove forme di confisca, in MAUGERI (a cura di), Le sanzioni patrimoniali come moderno strumento di lotta contro il crimine: reciproco riconoscimento e prospettive di armonizzazione, Milano, 2008, 138), che si accompagna alla pena detentiva per offrire uno strumento di contrasto più efficace e penetrante nei confronti della criminalità economica e che, alla luce di tale sua natura e funzione, prescinde per la sua applicazione dalla natura pericolosa dei beni oggetto di ablazione.

Il provvedimento ablativo ha per oggetto il prodotto o il profitto di tale reato, ovvero i beni utilizzati per commetterlo, da intendersi, sia pure con qualche diversità di sfumatura, non come qualunque cosa in qualche modo utilizzata per la commissione del reato, bensì soltanto quali mezzi collegati a questa da un nesso strumentale, ovvero mezzi senza i quali l'esecuzione non sarebbe avvenuta (oppure sarebbe avvenuta, ma con altre modalità), con esclusione della rilevanza dei beni impiegati in attività meramente prodromiche e preparatorie rispetto alla fase dell'esecuzione (cfr. Corte cost., sent. n. 112 del 2019 secondo cui i «beni utilizzati» per commettere l'illecito «lungi dal poter essere identificati nei tradizionali instrumenta sceleris, in genere rappresentati da cose intrinsecamente pericolose se lasciate nella disponibilità del reo [...] non possono che consistere nelle somme di denaro» o negli strumenti finanziari impiegati nel negozio illecito). Con riferimento al reato di cui all'art. 2638 c.c., la Corte di cassazione ha individuati "beni utilizzati per commettere il reato" nei finanziamenti concessi da un istituto di credito a terzi per l'acquisto di azioni ed obbligazioni dello stesso istituto, finalizzati a rappresentare una realtà economica del patrimonio di vigilanza dell'ente creditizio diversa da quella effettiva, con ostacolo delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza (Cass., sez. V, 26 maggio 2017, n. 42778).

Quanto al profitto, secondo le sezioni unite, esso consiste nel «vantaggio di natura economica che deriva dall'illecito, quale beneficio aggiunto di tipo patrimoniale, che non deve essere necessariamente conseguito da colui che ha posto in essere l'attività delittuosa», ma deve comunque trovarsi in rapporto di «diretta derivazione causale dall'attività del reo, intesa quale stretta relazione con la condotta illecita» (Cass., sez. un., 9 luglio 2004, n. 29951. Anche Cass., sez. un., 6 marzo 2008, n. 10280 ha ribadito l'accezione lata del concetto di profitto, comprensiva delle «trasformazioni che il denaro illecitamente conseguito subisca anche per effetto del suo investimento, quando queste siano causalmente collegabili al reato stesso e al profitto immediato conseguito (il denaro) e siano "soggettivamente" attribuibili all'autore del reato che quelle trasformazioni abbia voluto»).

Il prezzo, il prodotto o il profitto del reato o i beni utilizzati per commetterlo possono essere oggetto di confisca in via diretta. Trattasi di misura di sicurezza, connotata da finalità ripristinatoria dello status quo ante in un'ottica di prevenzione (Cass., sez. un., 26 giugno 2015, n. 31617), che postula la verifica sulla effettiva esistenza di un prodotto, profitto, prezzo del reato o dei beni strumentali e la individuazione dei beni, delle somme di denaro o delle altre utilità da apprendere - con la precisazione che qualora prodotto, profitto, prezzo o beni strumentali siano costituiti da denaro, la confisca delle somme depositate su conto corrente bancario, di cui il soggetto abbia la disponibilità, deve essere qualificata come confisca diretta e, in considerazione della natura del bene, non necessita della prova del nesso di derivazione diretta tra la somma materialmente oggetto della ablazione e il reato.

Quanto alla confisca per equivalente, il presupposto per l'operatività della stessa è costituito dall'impossibilità di procedere all'individuazione o all'apprensione dei beni collegati con il reato, il che esclude la riconducibilità dell'istituto alla categoria delle misure di sicurezza e consente di assegnare alla misura ablatoria una connotazione prevalentemente afflittiva e una natura «eminentemente sanzionatoria» (Corte costituzionale n. 97 del 2009). Si tratta di fatto dell'ipotesi ablativa di maggiore applicazione, poiché consente di aggredire qualunque bene rientrante nella disponibilità diretta o indiretta del soggetto, anche non direttamente collegato al reato, come invece il prodotto o il profitto, e rispetto al quale non è necessario dare prova di alcun rapporto di derivazione dal reato, non dovendo inoltre il presupposto della impossibilità di individuazione ed apprensione dell'effettivo prodotto o profitto del reato essere oggetto di analitica verifica: in questo senso, la confisca di valore o per equivalente «viene ad assolvere una funzione sostanzialmente ripristinatoria della situazione economica, modificata in favore del reo dalla commissione del fatto illecito, mediante l'imposizione di un sacrificio patrimoniale di corrispondente valore a carico del responsabile ed è, pertanto, connotata dal carattere afflittivo e da un rapporto consequenziale alla commissione del reato proprio della sanzione penale, mentre esula dalla stessa qualsiasi funzione di prevenzione che costituisce la principale finalità delle misure di sicurezza (Cass., sez. un., 31 gennaio 2013, n. 18374).

La confisca non può essere applicata su cose appartenenti a persona estranea al reato. La nozione di "appartenenza" abbraccia senza dubbio la proprietà del bene, mentre è dubbio la riconducibilità di essa al presupposto della titolarità di un diritto reale di godimento e di garanzia e ai diritti di credito. Il concetto di "estraneità al reato" invece non coincide con quello di estraneità al procedimento, ovvero al processo in corso, per cui possono essere appresi beni appartenenti a persona sottoposta a separato procedimento penale; inoltre, non sono ritenuti "estranei al reato" i soggetti che abbiano partecipato a qualunque titolo ad un reato che risulti teleologicamente connesso ex art. 61, n. 2, c.p., ovvero ad un reato unito da un qualunque vincolo di "accessorietà" e "consequenzialità", quale quello che avvince i reati di ricettazione e favoreggiamento rispetto all'illecito penale presupposto, nonché il terzo abbia comunque ricavato vantaggi e utilità dal reato.

Osservazioni

Il ricorso è stato giudicato fondato, ritenendo che, diversamente da quanto ritenuto in sede di merito, il principio di sussidiarietà non opera solo con riferimento alla materia degli illeciti fiscali ma in relazione ad ogni ipotesi di confisca.

Secondo la decisione in commento, dunque, l'art. 2641 c.c. individua due diverse tipologie di confisca: la confisca "diretta" del prodotto o del profitto del reato e dei beni utilizzati per commetterlo e la confisca "per equivalente", sancendo al contempo il rapporto di sussidiarietà della seconda ipotesi di confisca rispetto alla confisca diretta che deve essere esperita in via prioritaria (Cass., sez. V, 30 maggio 2018, n. 54524), essendo il ricorso alla confisca di valore consentito solo nel caso di impossibilità di "individuare" o "apprendere" i beni costituenti prodotto, profitto o strumento del reato, i quali, dato il rapporto causale diretto con il reato, vanno sottoposti a vincolo ovunque si trovino, presso gli indagati/imputati o presso terzi (persone fisiche o giuridiche), ad eccezione dei terzi estranei al reato (tenendo presente che l'impossibilità del reperimento dei beni può essere transitoria e reversibile, purché sussistente al momento della richiesta e dell'adozione della misura, non essendo necessaria la preventiva ricerca generalizzata dei beni: Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, n. 10561).

Alla luce di queste considerazioni, dunque, la decisione dei giudici di merito che avevano ritenuto infondata la eccezione di sussidiarietà sul rilievo che il principio opererebbe solo con riferimento al profitto dei reati tributari è erronea.

Il secondo punto della decisione – presumibilmente il profilo più rilevante della stessa – riguarda la possibilità di far operare la confisca (ed il preventivo sequestro), sia essa di valore o diretta, prima ancora che nei confronti della persona fisica responsabile del reato, nei confronti della società, ed in particolare, con riferimento al caso di specie, nei riguardi dell'istituto di credito la cui attività è stata sottratta alla doverosa vigilanza.

Secondo i giudici di merito, «sebbene a carico della [banca fosse] stato contestato l'illecito amministrativo ex artt. 5-25 ter d.lgs. n. 231 del 2001, [era] quanto meno dubbio che le operazioni baciate [avessero] apportato un duraturo vantaggio economico alla banca, traducendosi in un annacquamento del capitale sociale foriero di conseguenze negative nel medio-lungo periodo sotto il profilo della solidità complessiva dell'istituto di credito» e ciò quindi imponeva di ritenere l'ente creditizio come soggetto estraneo al reato ed in quanto tale non destinatario di un provvedimento di confisca, ai sensi del comma 3^ dell'art. 2641. Tale conclusione, però, lascia perplessa la Cassazione - secondo cui l'ente che trae profitto dall'altrui condotta illecita non può mai essere considerato terzo "estraneo" al reato (Cass., sez. III, 5 dicembre 2018, n. 17840) – che comunque, nell'ottica del principio di sussidiarietà di cui si è detto, ritiene irrilevante la scelta del pubblico ministero di non procedere ad un sequestro (oltre che nei confronti della persona fisica, anche) verso l'ente ex legge n. 231 del 2001, “poiché il regime di operatività del sequestro preventivo penale e la connessa possibilità di vincolare "in via diretta" beni strumentali presenti nel patrimonio della persona giuridica sono del tutto slegati da una eventuale richiesta cautelare ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001”.

In sostanza, secondo la Cassazione, in presenza di un illecito societario, che in qualche modo veda coinvolto anche un ente collettivo, la scelta del pubblico ministero di non formulare istanza cautelare reale per la responsabilità amministrativa dell'ente non si riverbera sul meccanismo di sussidiarietà di cui agli artt. 2641 c.c. e 321, comma 2, c.p.p. – tanto è vero che quel meccanismo opera, pacificamente, anche nei casi di reati per i quali non è prevista la responsabilità dell'ente - e di conseguenza la ricerca dei valori da confiscare deve dirigersi in prima battuta in via diretta con riferimento al patrimonio della società e della persona fisica responsabile dell'illecito; solo se tali patrimoni non vengano ritenuti capienti rispetto all'importo da apprendere, è possibile procedere alla confisca di valore nei confronti della persona fisica (qualora l'ente non sia indagato).

Conclusioni

La questione esaminata dalla Cassazione si presenta particolarmente problematica, anche perché la decisione in commento pare porsi in assoluta contraddizione rispetto alle conclusioni assunte dalla stessa Corte di legittimità in altra occasione, avente ad oggetto sostanzialmente le medesime condotte ovvero la concessione da parte di un istituto di credito di finanziamenti a propri clienti con l'impegno che parte dell'importo finanziato venisse utilizzato per l'acquisto di quote della banca, così da mantenerne artificialmente alti i valori di borsa (Cass., sez. V, 26 maggio 2017, n. 42778).

In quella occasione, infatti, la Cassazione respinse il ricorso della difesa dei dirigenti bancari indagati il cui patrimonio era stato oggetto di decreto di sequestro preventivo. A fronte della censura (analoga a quelle con cui si confronta la decisione in commento) secondo cui il vincolo reale andava disposto direttamente sui beni della banca, che aveva tratto vantaggio ed utilità dalle operazioni contestate agli ex vertici amministrativi dell'istituto, la Corte di legittimità ha ritenuto che la banca, sui cui titoli erano stati posti in essere le condotte speculative, andasse qualificata quale “persona estranea al reato», non avendo in realtà ricevuto alcun beneficio dalle operazioni di illegittimo riacquisto di azioni proprie. In particolare, se per il tramite delle operazioni compiute dai suoi amministratori la banca interessata aveva in effetti potuto proseguire nella sua attività d'impresa ed aumentare la sua concreta operatività, andava altresì riconosciuto come dalla vicenda l'istituto non avesse certo tratto un profitto o un qualsivoglia effetto economico positivo, quanto piuttosto un grave danno, essendo state proprio le operazioni in contestazione - espressione della politica aziendale mirante solo ad allargare la base soci senza riguardo per il merito creditizio - a portare l'istituto sull'orlo di una crisi economica irreversibile, secondo una logica espansionistica rivelatasi esiziale per l'istituto e funzionale solo a garantire il consolidamento e l'accrescimento del potere dell'indagato, e della stretta cerchia a lui facente capo, sull'ente.

Questa considerazione, secondo la Suprema Corte, consentirebbe di comprendere come l'istituto bancario dovesse considerarsi, ai fini di eventuali confische, persona estranea al reato giacché in tale nozione rientra non solo la persona che non abbia partecipato alla commissione del reato, ma anche colei che da esso non abbia ricavato vantaggi e utilità e soltanto colui che versi in tale situazione oggettiva e soggettiva può vedere riconosciuta la intangibilità della sua posizione giuridica soggettiva e l'insensibilità di essa agli effetti del provvedimento di confisca (Cass., Sez. Un., 25 settembre 2014, n. 11170).

Questa impostazione è stata invece abbandonata in questa occasione, e con riferimento a due profili.

In primo luogo, sia pur non approfondendo tale punto, la Cassazione pare escludere che in casi quali quelli oggetto della presente decisione l'ente creditizio possa ritenersi “estraneo al reato”, come peraltro dimostrato dalla circostanza che la società risultava iscritta come indagata ai sensi del d.lgs. n. 231 del 2001. In sostanza, in questa decisione i giudici di legittimità ricostruiscono le nozioni di “interesse” e “vantaggio” richiamati dall'art. 5 d.lgs. n. 231 del 2001 in termini particolarmente rigorosi e decisamente meno complessi rispetto a quanto sostenuto in precedenza, ritenendo che nell'ambito di illeciti realizzati dall'amministratore di una società, quest'ultima possa qualificarsi come beneficiata dal reato ogni qualvolta e per il solo fatto che si sia in presenza di una mera ricaduta patrimoniale favorevole in capo alla persona giuridica: risulta abbandonata, dunque, la più articolata (ed apprezzabile, a nostro parere) tesi sostenuta in precedenza secondo cui, nel decidere circa la sussistenza di un vantaggio in capo alla società in conseguenza di un illecito criminale posto in essere dai suoi amministratori, la valutazione non va svolta isolando le singole conseguenze del reato ma considerando in termini complessivi ed in un'ottica temporale più vasta rispetto a quella che considera il solo momento di svolgimento della condotta illecita quali siano gli effetti che in capo alla persona giuridica sono derivati dal reato stesso.

Oltre a queste considerazioni, poi, la Cassazione ritiene che, a prescindere dalla sorte che si intenda riservare alla società (ovvero, tralasciando il profilo che la stessa sia o meno soggetto estraneo al reato), il suo patrimonio possa essere comunque oggetto di confisca (e sequestro preventivo) in via diretta, e ciò alla luce del principio di sussidiarietà richiamato dall'art. 2641 c.c., sostenendosi che laddove nel patrimonio dell'ente sia rinvenibile il denaro utilizzato per la commissione dell'illecito lo stesso va sequestrato. Anche questa conclusione, tuttavia, ci pare opinabile, nella misura in cui riaffermando i principi presenti nella famosa decisione di Cass., sez. un., 30 gennaio 2014, Gubert – secondo cui la confisca del denaro è sempre una confisca in via diretta -, pare obliterare che tale decisione faceva riferimento ad una circostanza in cui era indiscutibile il vantaggio che l'ente aveva ricavato dall'illecito contestato alla persona fisica, mentre nel caso oggetto della presente decisione tale profilo – ovvero la posizione della società rispetto al reato – pare dubbia: francamente non pare opportuno privare un soggetto già danneggiato di una porzione del suo patrimonio sostenendo che si tratta di denaro e con l'utilizzo di denaro sono state poste in essere le condotte delittuose (che, però, hanno finito per danneggiare l'ente).

Conclusivamente. La Cassazione – anche per individuare i margini di operatività della disciplina di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 - non può più sottrarsi all'onere di definire quando una società possa dirsi beneficiata o danneggiata da condotte assunte dai propri vertici.

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