SPECIALE: Il sistema sanzionatorio della illegittimità del licenziamento - Parte Seconda: La tutela indennitaria

Adriana Doronzo
10 Marzo 2021

La tutela indennitaria cosiddetta «forte» è quella prevista dal comma 5 dell'art. 18 ed è costituita da una indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo ed un massimo di dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto...
La tutela indennitaria «forte» e «debole»

Vedi, A. Doronzo, Il sistema sanzionatorio della illegittimità del licenziamento - Parte I: La tutela reintegratoria

La tutela indennitaria cosiddetta «forte» è quella prevista dal comma 5 dell'art. 18 st. lav. ed è costituita da una indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata tra un minimo ed un massimo di dodici e ventiquattro mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. Essa trova applicazione, oltre che nelle ipotesi in cui si accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa o del giustificato motivo oggettivo, anche al licenziamento irrogato in violazione del principio di immediatezza della contestazione (su cui v. oltre).

È opportuno premettere che al licenziamento intimato in violazione di norme procedurali l'art. 18 dedica il comma 6, il quale prevede un'indennità risarcitoria onnicomprensiva, contenuta tra un minimo di sei e un massimo di dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto (la cosiddetta indennità debole): i vizi procedurali sono quelli indicati, e costituiti dalla violazione dell'obbligo di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge n. 604/1966, come sostituito dal comma 37 dell'art. 1 della legge n. 92/2012, il quale ora prevede l'obbligo di motivazione specifica e contestuale alla comunicazione del licenziamento, nonché dalla violazione della procedura disciplinare di cui all'art. 7 della legge n. 300/1970 o della nuova procedura di preventiva conciliazione di cui all'art. 7 della legge n. 604/1966.

La norma non contempla tra i vizi formali la mancanza di forma scritta del licenziamento, la quale è regolata dall'art. 2, comma 1, della legge n. 604/1966, ed è sanzionata, come si è su visto, con la reintegrazione piena (art. 18, comma 1, st. lav.).

Quanto agli altri vizi procedurali o di forma, il contenimento dell'indennità risarcitoria, pur se svaluta gli obblighi posti dall'art. 2 l. n. 604/1966, sorti storicamente in funzione di garanzia del lavoratore e di trasparenza del procedimento, trova giustificazione sia nel minor rilievo che questa categoria assume rispetto ai vizi sostanziali, sia nella considerazione che il vizio formale, a differenza di quello sostanziale, non consuma il potere di licenziamento che pertanto può essere nuovamente esercitato. Non è apparso dunque ragionevole al legislatore mantenere il precedente assetto, che riconduceva nell'area della tutela reale le inosservanze formali anche di scarso peso.

Tuttavia, la riconduzione a quest'unica disposizione di tutti i vizi formali ha sollevato dubbi interpretativi. I limiti di questo studio non consentono di analizzare la disciplina sostanziale di questa categoria di illegittimità, reputata, non senza ragione, «tra le più tortuose» (1) dell'intero impianto riformatore.

Va peraltro ricordato il dibattito dottrinale che si è incentrato intorno ai riflessi sul licenziamento della mancanza di contestazione dell'infrazione disciplinare, della mancanza assoluta di motivazione, nonché della inosservanza del principio di tempestività della contestazione.

A stare alla lettera della norma, dovrebbe ritenersi che in tutti questi casi la sanzione sia solo quella risarcitoria «debole», indipendentemente dalla sussistenza-insussistenza del fatto contestato o del fatto posto a fondamento del licenziamento: si tratta tuttavia di un'opzione interpretativa non condivisa da una parte della dottrina, la quale non ha mancato di segnalare che, ove si accendesse a questa tesi, si finirebbe per incentivare le violazioni formali da parte del datore di lavoro, più convenienti sotto il profilo sanzionatorio rispetto alle violazioni di tipo sostanziale, che, come si è visto, possono condurre invece alla reintegrazione. Si è pertanto sostenuto, anche alla luce di un'interpretazione costituzionalmente orientata e del diritto vivente fin qui formatosi, che il licenziamento intimato senza contestazione disciplinare o indicazione dei motivi deve essere considerato, come in passato, ingiustificato e sanzionato con la reintegrazione ad effetti risarcitori limitati (2).

Merita anche un accenno la questione della tardività della contestazione che è stata oggetto di un intervento delle Sezioni unite, con la sentenza del 27 dicembre 2017, n. 30985 (3).

Con questa sentenza, a composizione di un contrasto registrato nelle sezioni semplici (4), le Sezioni unite hanno affermato il principio secondo cui, in tema di licenziamento disciplinare, la dichiarazione giudiziale di illegittimità del recesso determinata dal ritardo notevole e non giustificato della contestazione del relativo addebito comporta l'applicazione della tutela indennitaria forte, contemplata dal comma 5 dell'art. 18 dello Statuto dei lavoratori.

Le ragioni di questa scelta riposano nella valutazione compiuta cerca il fondamento logico-giuridico della regola generale della tempestività della contestazione disciplinare, la quale è volta a soddisfare non solo le esigenze difensive del lavoratore, evidentemente compromesse dall'eccessivo trascorrere del tempo tra epoca di accertamento del fatto e contestazione, ma anche esigenze di più ampio respiro, come quella di evitare che l'indugio del datore di lavoro possa avere effetti intimidatori nonché quella di tutelare l'affidamento che il dipendente deve poter fare sulla rinuncia alla sanzione da parte dello stesso datore di lavoro che, evidentemente, mantenendo un contegno inerte, manifesti l'intento di ritenere l'addebito non rilevante sul piano della funzionalità del rapporto.

In conclusione, secondo i giudici di legittimità la tutela indennitaria debole di cui al comma 6 dell'art. 18 è limitato alla violazione delle regole che scandiscono il procedimento disciplinare nelle sue varie fasi, mentre la violazione del principio generale della tempestività della contestazione, quando il ritardo sia notevole e non giustificato, è idonea a determinare un affievolimento della garanzia per il dipendente incolpato e si pone in contrasto con i canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 cod. civ. Essa pertanto è da ricondurre non più alla violazione dell'art. 7 st. lav. quanto al principio di buona fede nell'esecuzione del rapporto di lavoro. Ne ha pertanto tratto la conseguenza che, sussistendo l'inadempimento posto a base del licenziamento, ma non essendoci stato il rispetto della tempestività della contestazione disciplinare, la tutela non può che essere quella prevista nel comma 5 dell'art. 18 st. lav., ossia la tutela indennitaria cosiddetta forte.

Il comma 6 dell'art. 18 prevede altresì la possibilità che il lavoratore domandi in giudizio l'accertamento, oltre che dei vizi procedurali, anche dell'assenza di giustificazione del licenziamento: in tal caso il giudice applicherà, in luogo di quelle previste dallo stesso comma 6, le tutele di cui ai commi 4, 5 e 7. La norma sembra dire meno di quanto voglia: non può infatti ritenersi esclusa la possibilità per il lavoratore di denunciare, con l'impugnativa del licenziamento, oltre ai vizi formali, anche vizi di natura sostanziale diversi dall'assenza di giustificazione, come ad esempio la nullità del licenziamento perché discriminatorio, ritorsivo o intimato in forma orale o per i quali sia prevista la tutela reintegratoria piena prevista nei commi 1 e 2. In tal caso, il giudice dovrà accertare non solo le violazioni procedurali ma anche i vizi genetici del recesso e applicare la sanzione prevista a seconda della tipologia e della gravità di quel vizio, con assorbimento di quella prevista dal comma 6 (5).

I criteri di determinazione della indennità «forte» e della «indennità debole»

Anche qui la discrezionalità del giudice trova ampio spazio, sia pur nei limiti indicati dal legislatore che individua dei criteri per graduare l'indennità ed ai quali il giudice deve attenersi con onere di specifica motivazione: essi sono, per la tutela indennitaria forte, l'anzianità del lavoratore, il numero dei dipendenti, le dimensioni dell'attività economica, il comportamento, le condizioni delle parti nel caso di licenziamento (illegittimo) per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa; per il licenziamento economico, occorre tener conto, oltre che dei criteri su indicati, anche alle iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione e del comportamento delle parti nell'ambito della procedura di cui all'art. 7 legge 15 luglio 1966, n. 604.

Per la tutela indennitaria debole, invece, la determinazione è fatta avuto riguardo alla gravità della violazione formale o procedurale, anche qui con onere di specifica motivazione al riguardo. È dubbio se la gravità della violazione costituisca l'unico criterio cui il giudice deve attenersi, oppure se possa prendere in considerazione anche gli elementi indicati nel comma 5, come sembrerebbe deporre il rinvio al « regime di cui al quinto comma» contenuto nella disposizione in esame (6).

La diversità di tutele correlata ai requisiti dimensionali

Il comma 8 del nuovo art. 18 dispone che le norme di cui ai commi dal 4 al 7, quelle cioè che prevedono le sanzioni per l'illegittimità del licenziamento disciplinare, del licenziamento adottato in violazione di regole procedurali o di forma, nonché del licenziamento per motivo oggettivo, sia per ragioni inerenti alla posizione del lavoratore sia per motivi economici, trovano applicazione al datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore che in ciascuna sede, stabilimento, filiale, ufficio o reparto autonomo nel quale ha avuto luogo il licenziamento occupa alle sue dipendenze più di quindici lavoratori o più di cinque se si tratta di imprenditore agricolo, nonché al datore di lavoro, imprenditore non imprenditore, che nell'ambito dello stesso comune occupa più di quindici dipendenti e all'impresa agricola che nel medesimo ambito territoriale occupa più di quindici dipendenti, anche se ciascuna unità produttiva, singolarmente considerata, non raggiunge tali limiti, e in ogni caso il datore di lavoro, imprenditore e non imprenditore, che occupa più di sessanta dipendenti (7).

Resta fuori dal rispetto del requisito dimensionale il licenziamento qualificato come nullo ai sensi del comma 1 dello stesso art. 18.

Problematica è la sorte del licenziamento adottato in violazione delle regole procedurali o di forma, in particolare per mancanza della motivazione o con motivazione generica, dal datore di lavoro la cui impresa occupi dipendenti al di sotto della soglia dimensionale prevista dal comma 8 (8).

Al di là delle imprecisioni terminologiche circa la natura del vizio che affligge tale licenziamento, espressamente qualificato come inefficace dall'art. 2, comma 3, della legge n. 604/1966, al pari del licenziamento orale, non appare condivisibile l'opinione di chi ritiene che entrambe le mancanze formali (assenza di forma scritta e assenza di motivazione) siano equiparate e debbano essere pertanto sanzionate allo stesso modo, ossia con la reintegrazione piena ai sensi del comma 1 dell'art. 18 novellato (9).

È evidente l'aporia che si creerebbe del sistema ove si ritenga tale licenziamento idoneo ad estinguere il rapporto nelle piccole imprese, laddove, invece, l'estinzione non opererebbe nelle imprese di grandi dimensioni, per le quali il legislatore ha previsto solo la tutela indennitaria.

La questione è stata risolta dalla Corte di cassazione, con la sentenza 5 settembre 2016, n. 17589, che ha ritenuto applicabile la sola tutela obbligatoria prevista dall'art. 8 della legge n. 604/1966, come modificato dalla legge n. 92/2012. È una scelta interpretativa costituzionalmente orientata alla luce della novella del 2012 e della modifica dell'art. 18 st. lav., nella parte in cui prevede, per la medesima ipotesi di omessa motivazione del licenziamento, una tutela esclusivamente risarcitoria (10).

Analoghi dubbi sorgono con riguardo al licenziamento illegittimamente intimato per mancato superamento del periodo di comporto.

L'opinione tradizionale, tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, ha sempre ritenuto che il licenziamento in violazione dell'art. 2110, comma 2, cod. civ. costituisca una fattispecie autonoma di licenziamento, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all'art. 2119 cod. civ. e agli artt. 1 e 3 legge n. 604 del 1966 (11). Si è invero affermato che il mancato superamento del periodo di comporto non determina un'inefficacia temporanea del licenziamento, destinato a produrre i suoi effetti nel momento in cui il termine sarà superato, ma una vera e propria nullità del recesso per violazione di norma imperativa, costituita dall'art. 2110, comma 2, cod. civ.

A tale qualificazione non osta il nuovo testo dell'art. 18 st. lav. che ha collocato la violazione dell'art.2110, comma 2, cod. civ., nel comma 7 anziché nel comma 1 (riservato ad altre ipotesi di nullità previste dalla legge), con conseguente applicazione del regime reintegratorio attenuato anziché pieno, e ciò in considerazione di un minor giudizio di riprovazione dell'atto assunto in violazione di norma imperativa, ben potendo il legislatore graduare diversamente il rimedio ripristinatorio pur in presenza della medesima sanzione di nullità (12).

Circa le conseguenze, se è indubbio che la sanzione è, per le imprese di grandi dimensioni, la tutela reintegratoria cosiddetta attenuata, dubbi sorgono con riguardo al licenziamento in violazione dell'art. 2110 cod. civ. nelle imprese di piccole dimensioni. La qualificazione del licenziamento in esame in termini di nullità imporrebbe, come conseguenza, la sua inidoneità ad incidere sul rapporto, che, pertanto, in assenza di soluzione di continuità darebbe luogo al diritto del lavoratore di ottenere, oltre alla riammissione in servizio, tutte le retribuzioni non percepite dal momento dell'illegittimo recesso.

È tuttavia evidente anche in questo caso l'incongruità del sistema: questa tutela, infatti, finirebbe per essere senza dubbio più incisiva di quella prevista dall'art. 18 st. lav., nel testo novellato, con un evidente irragionevole disparità di trattamento tra datori di lavoro a seconda delle dimensioni dell'impresa pur a fronte di una medesima fattispecie (13).

Anche su tale questione si è di recente pronunciata la Corte di cassazione (14), la quale, dopo aver richiamato e condiviso la tesi delle Sezioni Unite sulla inquadrabilità del licenziamento in esame nella categoria delle nullità e non già dell'illegittimità - e ripudiando la tesi di un «parallelismo delle tutele» tra licenziamenti nulli e licenziamenti illegittimi - ha ritenuto che, nei rapporti di lavoro assistiti da tutela obbligatoria e ratione temporis regolati dalla legge n. 604/1966, gli effetti del licenziamento nullo, quale atto improduttivo di effetti sulla continuità del rapporto di lavoro, sono disciplinati dalle norme generali previste dal codice civile per l'atto nullo in applicazione del principio «quod nullum est nullum producit effectum», e dovendosi escludere l'applicazione dell'art. 8 della legge citata, limitata alla diversa ipotesi del licenziamento privo di giusta causa o giustificato motivo.

Il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23

La legge n. 92/2012 ha avuto vita breve perché, in attuazione della legge delega 10 dicembre 2014, n. 183 (15), è stato adottato il decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23, recante la nuova normativa sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti.

Come la legge del 2012, anche quest'ultimo decreto legislativo non è intervenuto sui concetti di giusta causa e di giustificato motivo, ma ha dettato una nuova disciplina del licenziamento incidendo sulle tutele applicabili in caso di violazione delle norme che lo regolano (16).

Circa l'ambito di applicabilità del decreto, sono riscontrabili due criteri selettivi: il primo è di tipo cronologico ed è segnato dalla data di assunzione del lavoratore: l'art. 1 del d.lgs. n. 23/2015 dispone infatti che le disposizioni contenute nel decreto sul regime di tutela del licenziamento illegittimo si applicano ai lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto, ossia dal 7 marzo 2015 (giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale: art. 12). Alla stipulazione del contratto di lavoro il legislatore parifica la conversione del contratto a tempo determinato o di apprendistato in contratto a tempo indeterminato, purché avvenuta in data successiva all'entrata in vigore del decreto, nonché il caso in cui, per effetto di assunzioni a tempo indeterminato disposte successivamente all'entrata in vigore del decreto, l'imprenditore raggiunga il requisito dimensionale previsto dall'art. 18, commi 8 e 9, legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche se si tratta di lavoratori assunti prima di tale data (17).

Il secondo criterio è invece di natura soggettiva e individua i soggetti ai quali si applica la nuova disciplina nei lavoratori subordinati a tempo indeterminato rientranti nella categoria degli operai, impiegati o quadri: ne restano pertanto espressamente esclusi i lavoratori con contratti a termine e i dirigenti, per i quali continueranno a trovare applicazione le disposizioni previgenti (18).

Dal punto di vista datoriale, l'art. 9, rubricato «Piccole imprese e organizzazioni di tendenza» limita l'applicazione del Jobs act alle piccole imprese, rectius ai datori di lavoro che occupano fino a quindici dipendenti, escludendo che ad esse si applichi la reintegrazione cosiddetta piena nel caso di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui si accerti in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato lavoratore, prevedendo per tutte le ipotesi di licenziamento ingiustificato o affetto da vizi procedurali un'indennità risarcitoria dimezzata, mai superiore a sei mensilità. La norma invece include nel campo di applicazione i datori di lavoro non imprenditori che svolgono senza fine di lucro attività di natura politica, sindacale, culturale, di istruzione o di religione di culto, ossia le organizzazioni di tendenza, escluse dall'ambito di applicazione dell'art. 18 st.lav. (art. 4 st.lav.).

Anche in tal caso le tutele saranno quelle previste dal Jobs act, a seconda dei limiti dimensionali dell'organizzazione (19).

Il decreto legislativo ripercorre lo schema segnato dal comma 42 dell'art. 1 della legge n. 92/2012 per introdurvi modifiche all'apparenza anche poco significative, ma che non possono essere trascurate.

L'art. 2, rubricato «Licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale» è, in sostanza, una riscrittura dell'art. 18, commi 1 e 2, come novellato dall'art. 1, comma 42, legge n. 92/2012: la sanzione per il licenziamento discriminatorio come per quello intimato in forma orale - cui deve aggiungersi il licenziamento privo di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, anche ai sensi della legge 12 marzo 1999, n. 68 - è, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, imprenditore o non imprenditore, la reintegrazione nel posto di lavoro e il risarcimento del danno, commisurato all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, per il periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello dell'effettiva reintegrazione. Si è in presenza della reintegrazione cosiddetta piena già prevista per il licenziamento dalla legge Fornero.

L'elemento di novità è dato, quanto licenziamento discriminatorio, dal riferimento all'art. 15 st. lav., in luogo dell'art. 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, contenuto nel previgente testo dell'art. 18. Si tratta di un richiamo quanto mai opportuno perché limita la «catena» dei rinvii (l'art. 3 della legge n. 108/1990, infatti, a sua volta rinvia all'art. 4 della legge n. 604/1966 e allo stesso art. 15 st. lav.) e, inoltre, consente di tener conto di tutte le modifiche intervenute sul citato art. 15 (20).

Non vi è tuttavia alcun riferimento al licenziamento intimato in ragione del matrimonio (art. 35 del d.lgs. n. 198/2006), della maternità o della malattia del bambino (art. 54, commi 1, 6, 7 e 9 del d.lgs. n. 151/2001), nonché al motivo illecito: si tratta tuttavia di un'omissione che deve essere interpretata nel senso che il licenziamento della moglie-madre o del padre-lavoratore non è altro che un licenziamento discriminatorio in ragione del sesso o della famiglia e, pertanto, sono ipotesi già ricomprese nello stesso comma 1 dell'art. 18 (21).

Problemi interpretativi crea invece l'espressione, contenuta nel primo periodo del comma 1, che estende la tutela reintegratoria piena al licenziamento nullo perché riconducibile «agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge»: è questa un'espressione che sembra escludere le ipotesi di nullità virtuale, ossia tutti quei casi in cui la sanzione della nullità non è espressamente prevista ma è desumibile dal sistema in presenza di fattispecie in conflitto con norme imperative (22).

L'art. 2 include invece tra le ipotesi sanzionate con la reintegrazione piena il licenziamento intimato per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore: si è in presenza di una scelta che, sebbene limitata ai nuovi assunti, appare quanto mai opportuna, perché si attribuisce una diversa e più pregnante protezione (rispetto alla tutela reintegratoria «attenuata» valevole ancora per i vecchi assunti), al lavoratore disabile leso dalla violazione delle norme di cui agli artt. 4, comma 4, e 10, comma 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68 (23), e si pone fine ai dubbi interpretativi sorti sia con riferimento al comma 7 dell'art. 18, circa la qualificazione del licenziamento in esame come licenziamento per motivo oggettivo, sia con eventuali profili di illegittimità costituzionale per eccesso di delega (24).

La norma tace sul licenziamento per superato periodo di comporto: tale omissione è stata variamente intesa dalla dottrina, parte della quale ha ritenuto che l'ipotesi rientra nell'ultimo comma dell'articolo 2, che disciplina il licenziamento per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore (25) e per il quale è prevista la tutela reintegratoria piena; altra parte ha invece ritenuto che, nel silenzio del legislatore, anche il licenziamento per violazione dell'art. 2110 deve essere riportato nell'alveo della tutela indennitaria, quale sanzione di carattere generale (26); per altri, ancora, l'omesso riferimento è privo di rilievo confermando la scelta legislativa di ricondurre questa ipotesi alla nullità, disciplinata dallo stesso art. 2.

Al riguardo si è specificato che la violazione dell'art. 2110 cod. civ., che è norma imperativa e inderogabile, configura una delle ipotesi di nullità del recesso (art. 1418 cod. civ.) con conseguente applicazione della tutela reintegratoria piena (27).

La questione riporta alla ribalta il dibattito sul valore da attribuire all'espressione «agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge», se, cioè, con essa il legislatore abbia inteso riferirsi esclusivamente alle nullità cosiddette testuali o non anche abbracciare tutte le ipotesi di nullità per violazioni di norme imperative.

Al di là delle scelte dogmatiche, la tesi della nullità sembra preferibile in quanto si pone in linea di continuità con i principi affermati dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 12568/2018 per i licenziamenti intimati fuori dall'area di tutela reale e soggetti al regime previsto dalla legge n. 604/1966. La tutela continua ad essere la reintegrazione e l'integrale indennizzo per il periodo di mancata esecuzione delle prestazioni lavorative, eventualmente anche in applicazione della disciplina della nullità di diritto comune: in tal caso al lavoratore spetta, oltre alla ricostituzione del rapporto (art. 1418 cod. civ.), il risarcimento del danno che egli dimostri di aver subito, in mancanza di prova della percezione di altri redditi, dalla data dell'offerta della prestazione lavorativa (art. 1206 cod. civ.) (28).

Per il resto, la disciplina è sostanzialmente sovrapponibile, fatta eccezione per la unità di misura dell'indennità risarcitoria che è parametrata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto (29): al lavoratore spetta, pertanto, oltre alla reintegrazione, un'indennità per tutto il periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello dell'effettiva reintegrazione, dedotto quanto percepito nel periodo di estromissione per lo svolgimento di altre attività lavorative. L'indennità non può comunque essere inferiore a cinque mensilità. Il datore di lavoro, inoltre, è tenuto al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per tutto il periodo.

Il licenziamento per giustificato motivo e giusta causa nel Jobs act

Il decreto legislativo non novella l'art. 18 st. lav. (come modificato dalla legge Fornero), che rimane in vita unitamente alla legge n. 604/1966: esso infatti dispone solo per i lavoratori assunti dopo la sua entrata in vigore (30), e si caratterizza per l'ulteriore ridimensionamento della tutela reale (31).

È questa la fondamentale novità contenuta nell'art. 3 del d.lgs. n. 23/2015, rubricato «Licenziamento per giustificato motivo e giusta causa», in cui emerge evidente la scelta legislativa di sovvertire il rapporto di regola-eccezione tra la tutela reale e quella indennitaria (32), rendendo la prima meramente residuale.

Il primo comma dell'art. 3 trascrive nella sostanza il comma 5 dell'art. 18 e dispone che, nei casi in cui non ricorrono gli estremi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo o per giustificato motivo soggettivo o giusta causa, il giudice dichiara l'estinzione del rapporto di lavoro alla data del licenziamento e condanna il datore di lavoro al pagamento di un'indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità.

La tutela reintegratoria non scompare del tutto ma è riservata alle sole ipotesi di licenziamento disciplinare in cui si dimostri in giudizio l'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, dovendosi peraltro escludere, in questo accertamento, ogni valutazione di proporzionalità: in tal caso, il giudice annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché al pagamento di un'indennità risarcitoria, da calcolarsi secondo quanto già indicato nell'art. 2, per il periodo compreso tra il giorno del licenziamento e quello dell'effettiva reintegrazione.

Al pari di quanto disposto dal comma 4 dell'art. 18 st. lav., dall'indennità risarcitoria deve essere dedotto non solo l'aliunde perceptum ma anche l'aliunde percipiendum, da determinarsi sulla base di quello che il lavoratore avrebbe potuto percepire accettando una congrua offerta di lavoro ai sensi dell'art. 4, comma 1, lett. c) del d.lgs. 21 aprile 2000, n. 181 e successive modificazioni.

In ogni caso, la misura dell'indennità relativa al periodo precedente alla pronuncia di reintegrazione non può essere superiore alle dodici mensilità. Resta ferma la condanna del datore di lavoro al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino all'effettiva reintegrazione, senza applicazione di sanzioni per omissioni contributive. Si è dunque in presenza di una tutela reintegratoria attenuata.

Il dibattito dottrinale si è immediatamente incentrato sul valore della locuzione «insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore» e si sono riaccese le diatribe sulla nozione di «fatto» inteso come mero accadimento naturale, privo di una qualsivoglia valutazione in senso tecnico giuridico, e «fatto» giuridico (33).

E si è vista nella formulazione diversa rispetto a quella del comma 4 dell'art. 18 st. lav. - in cui il «fatto» è privo di aggettivazioni -, la volontà del legislatore di risolvere la querelle nel senso già indicato dalla Corte di cassazione nell'obiter dictum della sentenza 6 novembre 2014, n. 23669 (34).

In realtà, la dottrina è pressoché concorde nel ritenere che nel concetto di «fatto contestato» debba necessariamente rientrare anche la valutazione della sua materiale riferibilità al lavoratore, della imputabilità, dell'elemento psicologico-soggettivo, della sua antigiuridicità, nel senso che esso deve costituire un inadempimento contrattuale addebitabileal lavoratore (35). L'accertamento demandato al giudice deve estendersi, dunque, non solo alla verifica della sussistenza del fatto dal punto di vista fenomenologico, ma anche alla sua rilevanza disciplinare, con la conseguenza che il fatto può essere considerato materialmente sussistente solo se integra un inadempimento imputabile (36).

Si può dunque convenire con la tesi dottrinale secondo cui «“fatto materiale contestato” è quello connotato da una soglia minima di antigiuridicità, perché il datore di lavoro “oppone” al lavoratore un comportamento percepito ed evidenziato come contrario agli interessi dell'organizzazione, giuridicamente meritevoli di tutela e non certo frutto di capriccio» (37).

In questa opera di accertamento del fatto non potrà entrare il giudizio di proporzionalità ex art. 2106 c.c., secondo quanto dispone lo stesso comma 2.

L'estraneità, nell'accertamento dell'insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, di ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento ha da subito fatto sorgere dubbi sulla ragionevolezza di un sistema, al cui interno tutte le violazioni sono equiparate sotto il profilo sanzionatorio, senza peraltro che possa farsi riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva e alle valutazioni in esso compiute dalle parti sociali sulla gravità della condotta, a fini conservativi o espulsivi (38).

Un ragionevole punto di equilibrio può essere trovato nel diverso valore da attribuire al giudizio di proporzionalità, che, pur rimanendo fuori dall'accertamento della sussistenza del fatto, deve essere comunque compiuto al fine di accertare l'eventuale ingiustificatezza del licenziamento, secondo quanto dispone l'art. 2106 cod. civ. In tal caso, tuttavia, ove accertata la sussistenza del fatto avente rilievo disciplinare, l'eventuale sproporzione della sanzione ritenuta del giudice comporterà l'applicazione della sola tutela indennitaria (39).

Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo

L'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015 dispone che, per i nuovi assunti, il licenziamento economico produce sempre l'effetto di estinguere il rapporto alla data del licenziamento e il datore di lavoro è condannato al pagamento di un'indennità, non assoggettata a contribuzione previdenziale, di importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità. La sanzione è dunque esclusivamente indennitaria, qualunque sia il vizio che inficia il recesso, e dunque anche nel caso in cui il giudice accerti la insussistenza del fatto posto a fondamento del licenziamento.

Si superano così - non senza suscitare dubbi di legittimità costituzionale per l'irragionevole disparità di trattamento rispetto ai vecchi assunti, per i quali opera la tutela reintegratoria attenuata - le ambiguità cui ha dato luogo (e dà luogo per i vecchi assunti) la formulazione del comma 7 dell'art. 18 sul concetto di «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento» e sull'ambito di accertamento demandato al giudice.

Rimane comunque irrisolta la questione del licenziamento intimato per ragioni economiche ma di cui si accerti in giudizio la non veridicità dei motivi esposti a suo fondamento, e, dunque, il suo carattere meramente pretestuoso: una soluzione potrebbe essere offerta dalla disciplina di diritto comune, e in particolare dall'art. 1344 cod. civ., che reputa illecita la causa quando il contratto costituisce il mezzo per eludere l'applicazione di una norma imperativa. Il recesso dovrebbe pertanto considerarsi affetto da nullità ai sensi dell'art. 1418 cod. civ. (40).

I vizi formali e procedurali

L'art. 4 regola il licenziamento affetto da vizi formali o di procedura. La formula della norma ricalca sostanzialmente il comma 6 dell'art. 18, prevedendo tuttavia un'indennità inferiore nel minimo, compresa tra le due e le dodici mensilità, non assoggettate a contribuzione previdenziale.

La norma, al pari dell'art. 18, non regola l'ipotesi in cui, nel licenziamento disciplinare, vi sia assenza di contestazione dell'addebito richiesta dall'art. 7 della legge n. 300/1970.

Sembra ragionevole ritenere che, in tal caso, si configuri un'ipotesi di insussistenza del fatto materiale contestato, con conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro senza necessità di ulteriori allegazioni (41).

La giurisprudenza di legittimità è orientata nei medesimi sensi: si è infatti affermato che, in tema di licenziamento disciplinare, il radicale difetto di contestazione dell'infrazione determina l'inesistenza dell'intero procedimento, e non solo l'inosservanza delle norme che lo disciplinano, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria, di cui al comma 4 dell'art. 18 della l. n. 300 del 1970, come modificato dalla l. n. 92 del 2012, richiamata dal comma 6 del predetto articolo per il caso di difetto assoluto di giustificazione del provvedimento espulsivo, tale dovendosi ritenere un licenziamento disciplinare adottato senza alcuna contestazione di addebito (42).

E' invece regolata l'ipotesi della violazione del requisito di motivazione, in cui deve ricomprendersi la motivazione generica, ossia quella che non consente al lavoratore un'efficace difesa, nonché la “violazione della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 300 del 1970”, per le quali è appunto prevista la sola tutela monetaria.

La norma contempla altresì la clausola di riserva per il caso in cui il lavoratore chieda che si accerti anche un difetto di giustificazione del licenziamento e, dunque, la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle tutele previste negli artt. 2 e 3.

L'indennità risarcitoria nel Jobs act. Dal ‘Decreto Dignità' alla sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018

Per i nuovi assunti, l'indennità risarcitoria prevista nel Jobs act è parametrata alla «ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto» (43).

L'indennità, al pari di quella riconosciuta ai vecchi assunti, deve ritenersi onnicomprensiva nel senso che assorbe ogni tipo di danno, ad eccezione di quello derivante da un licenziamento ingiurioso o integrante un fatto di reato (44).

Qualora non ricorrano gli estremi del giustificato motivo o della giusta causa, l'indennità è fissa e determinabile sempre a priori ed è pari a due mensilità per ogni anno di servizio, in misura comunque non inferiore a quattro e non superiore a ventiquattro mensilità (art. 3, comma 1); in caso di illegittimità del licenziamento per i vizi formali e procedurali di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 23/2015 l'indennità è dimezzata ad una mensilità per ogni anno di servizio e comunque non può essere inferiore a due e non superiore a dodici; anche per le piccole imprese l'indennità è dimezzata (art 9, comma 1), ed è previsto un tetto massimo di sei mensilità.

Sulla misura dell'indennità è intervenuto il cosiddetto «Decreto Dignità» (d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2018, n. 96) che, con l'art. 3, comma 1, ha modificato l'art. 3, comma 1, del Jobs act, prevedendo un aumento dell'indennità da un minimo di sei ad un massimo di trentasei mensilità (45). Si tratta di un intervento legislativo che, nonostante l'enfasi del titolo, poco o nulla ha inciso sul tessuto normativo creato dalla legge Fornero e dal Jobs act, limitandosi ad un semplice ritocco in aumento della sanzione prevista per l'ipotesi di licenziamento illegittimo (46).

A qualche giorno di distanza dall'entrata in vigore del “decreto dignità”, è intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza n. 194 del 26 settembre 2018, pubblicata in data 8 novembre 2018 (47), si è pronunciata sulla questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3 e 4 del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, comma 1, della Costituzione – questi ultimi due articoli in relazione all'art. 30 della Carta di Nizza del 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, alla Convenzione sul licenziamento n. 158 del 1982 adottata dall' OIL il 22 giugno 1982, e all'art. 24 della Carta sociale europea, ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999, n. 30.

Le considerazioni portanti dell'ordinanza di remissione, come riassunte dalla stessa Corte costituzionale, sono incentrate sul contrasto delle disposizioni censurate: a) con l'art. 3 Cost., perché «l'importo» dell'indennità risarcitoria da esse prevista non ha «carattere compensativo né dissuasivo ed ha conseguenze discriminatorie» e perché la totale eliminazione della discrezionalità valutativa del giudice «finisce per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro»; b) con gli artt. 4 e 35 Cost., perché «al diritto al lavoro, valore fondante della Carta, è attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso»; c) con gli artt. 76 e 117, comma 1, Cost., perché le sanzioni previste per il licenziamento illegittimo sono inadeguate rispetto a quanto previsto dagli obblighi discendenti, tra l'altro, dalla Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e dalla Carta sociale europea.

Sono rimaste espressamente fuori dal giudizio di legittimità le questioni riguardanti l'eliminazione della tutela reintegratoria (tuttora prevista per i licenziamenti nulli e discriminatori e per specifiche ipotesi di licenziamento disciplinare ingiustificato) e la scelta legislativa di monetizzare integralmente le conseguenze negative nella sfera giuridica del lavoratore del licenziamento, avendo il giudice a quo incentrato le sue censure sulla disciplina dell'indennità risarcitoria.

Quest'ultima, in quanto sostitutiva della reintegrazione quale risarcimento in forma specifica, avrebbe dovuto essere «ben più consistente ed adeguata»: un'entità «così modesta, fissa e crescente solo in base alla anzianità di servizio» non costituisce un adeguato ristoro per i lavoratori assunti a decorrere dal 7 marzo 2015 e illegittimamente licenziati. Tale «regresso di tutela per come irragionevole e sproporzionato viola l'art. 3 Cost. differenziando tra vecchi e nuovi assunti, pertanto non soddisfa il test del bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco imposto dal giudizio di ragionevolezza».

Inoltre, essa non avrebbe carattere compensativo e dissuasivo, in primo luogo perché il datore di lavoro ha, con l'assunzione della lavoratrice, fruito di uno sgravio contributivo per trentasei mesi, previsto dalla legge 23 dicembre 2014, n. 190, di importo molto più consistente dell'eventuale condanna che subirebbe nel giudizio di impugnativa di licenziamento e, in secondo luogo, perché la «misura fissa» dell'indennità non consente al giudice di valutare in concreto il pregiudizio sofferto dalla lavoratrice e produce la conseguenza di «apprestare identica tutela a situazioni molto dissimili nella sostanza».

L'irragionevole disparità di trattamento determinata dalle disposizioni impugnate emergerebbe dal confronto, oltre che tra lavoratori assunti prima o a decorrere dal 7 marzo 2015 e tra «lavoratori licenziati con provvedimenti affetti da illegittimità macroscopiche ovvero da vizi meramente formali, tutti irragionevolmente tutelati, oggi, con un indennizzo del medesimo importo», anche, «quanto agli assunti dopo il 7.3.2015, fra dirigenti e lavoratori privi della qualifica dirigenziale, dal momento che i primi, non soggetti alla nuova disciplina, continueranno a godere di indennizzi di importo minimo e massimo ben più consistente».

La Corte costituzionale ha accolto solo in parte le censure ed ha limitato il suo giudizio al solo art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23 del 2015, quale unica norma applicabile nel caso di specie.

In primo luogo, ha escluso la incostituzionalità dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 per la violazione dell'art. 3 Cost. sul presupposto di una irragionevole diversità di trattamento tra nuovi assunti (cui si applicano le tutele del d.lgs. n. 23 del 2015) e vecchi assunti (cui si applica il più favorevole regime di tutela dell'art. 18 della legge n. 300 del 1970), richiamando la sua consolidata giurisprudenza secondo cui «non contrasta, di per sé, con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato applicato alle stesse fattispecie, ma in momenti diversi nel tempo, poiché il fluire del tempo può costituire un valido elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche» (ordinanze n. 25 del 2012, n. 224 del 2011, n. 61 del 2010, n. 170 del 2009, n. 212 e n. 77 del 2008, sentenza n. 254 del 2014).

Spetta infatti alla discrezionalità del legislatore, nel rispetto del canone di ragionevolezza, delimitare la sfera temporale di applicazione delle norme (sentenze n. 273 del 2011, n. 94 del 2009, n. 104 del 2018).

Ha quindi ritenuto che la modulazione temporale dell'applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 non contrasta con il «canone di ragionevolezza» e, quindi, con il principio di eguaglianza, se a essa si guarda alla luce della ragione giustificatrice – del tutto trascurata dal giudice rimettente – costituita dallo «scopo», dichiaratamente perseguito dal legislatore, «di rafforzare le opportunità di ingresso nel mondo del lavoro da parte di coloro che sono in cerca di occupazione» (alinea dell'art. 1, comma 7, della legge n. 183 del 2014).

E, pur sostenendo che non rientra nei compiti della Corte costituzionale valutare i risultati che la politica occupazionale perseguita dal legislatore ha conseguito, ha affermato che il regime temporale di applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 si rivela coerente con tale scopo (48).

Pertanto, l'applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015 ai lavoratori assunti con contratto di lavoro a tempo indeterminato a decorrere dalla data della sua entrata in vigore, in quanto conseguente allo scopo che il legislatore si è prefisso, non può ritenersi irragionevole. Di conseguenza, il deteriore trattamento di tali lavoratori rispetto a quelli assunti prima di tale data non viola il principio di eguaglianza.

Anche sotto il profilo della diversità di disciplina prevista per i dirigenti, i quali, esclusi dall'applicazione del d.lgs. n. 23 del 2015, continueranno a godere di indennizzi più consistenti, la Corte costituzionale ha ritenuto infondata la questione e ciò sul presupposto che il dirigente «si caratterizza per alcune significative diversità rispetto alle altre figure dei quadri, impiegati ed operai»: ne consegue che non contrasta con l'art. 3 Cost. l'esclusione degli stessi dall'applicazione della generale disciplina legislativa sui licenziamenti individuali, compresa la regola della necessaria giustificazione del licenziamento (49), in quanto i dirigenti non sono comparabili con le altre categorie di prestatori di lavoro di cui all'art. 2095, comma 1, cod. civ.

Ha invece ritenuto fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/ 2015 con riferimento agli artt. 3, 4, primo comma, 35, primo comma, 76 e 117, comma 1, Cost.

La Corte ha richiamato i suoi precedenti, in forza dei quali il diritto al lavoro non comporta il diritto alla conservazione del posto di lavoro (50); ha però ricordato che le norme di riferimento, e in particolare l'art. 4, affermano il diritto del lavoratore a non essere estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente (sentenza n. 60 del 1991) e la garanzia costituzionale del diritto di non subire un licenziamento arbitrario (sentenza n. 541 del 2000). In questa necessità di bilanciamento tra il diritto al lavoro e il diritto alla libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 non può non esprimersi la discrezionalità del legislatore nel prevedere «un meccanismo di tutela anche solo risarcitorio-monetario (sentenza n. 303 del 2011) purché un tale meccanismo si articoli nel rispetto del principio di ragionevolezza. Il diritto alla stabilità del posto, infatti, “non ha una propria autonomia concettuale, ma è nient'altro che una sintesi terminologica dei limiti del potere di licenziamento sanzionati dall'invalidità dell'atto non conforme”».

Nell'analisi della norma censurata, i Giudici delle leggi hanno ribadito la natura risarcitoria dell'indennità e ne hanno sottolineato i connotati di una liquidazione legale forfetizzata e standardizzata, in quanto ancorata all'unico parametro dell'anzianità di servizio; hanno quindi ritenuto che «una tale predeterminazione forfetizzata del risarcimento del danno da licenziamento illegittimo non (…) incrementabile, pur volendone fornire la relativa prova», si pone in contrasto con il principio di eguaglianza sotto il profilo dell'ingiustificata omologazione di situazioni diverse.

Tale parificazione, in contrasto con la strada percorsa dal legislatore in materia di licenziamenti, a partire dalla legge n. 604/1966 - seguendo la quale la quantificazione del diritto all'indennità è sempre stata ancorata ad una pluralità di fattori -, è stata disposta proprio nel momento in cui viene meno la tutela reale e si avverte ancor più la necessità di un potere discrezionale del giudice che operi un bilanciamento di tutele nel rapporto lavoro-impresa, anche attraverso la personalizzazione del danno subito dal lavoratore in applicazione del principio di eguaglianza. «La previsione della misura risarcitoria uniforme, indipendentemente dalle peculiarità e dalla diversità delle vicende dei licenziamenti intimati dal datore di lavoro, si traduce in una indebita omologazione di situazioni che possono essere – e sono, nell'esperienza concreta - diverse». (punto 11 del “considerato in diritto”).

E se è pur vero che la regola generale di integrità della riparazione e di equivalenza della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato non ha copertura costituzionale, purché sia garantita l'adeguatezza del risarcimento (sentenze n. 199 del 2005 e n. 420 del 1991), il risarcimento deve comunque essere equilibrato.

L'indennità inoltre deve svolgere una funzione dissuasiva nei confronti del datore di lavoro per ovviare al pericolo di licenziamenti senza valida giustificazione e non compromettere l'equilibrio degli obblighi assunti nel contratto.

La Corte ha pertanto concluso affermando che l'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23 del 2015 «nella parte in cui determina l'indennità in un “importo pari a due mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio”, non realizza un equilibrato componimento degli interessi in gioco: la libertà di organizzazione dell'impresa, da un lato, e la tutela del lavoratore ingiustamente licenziato, dall'altro. Con il prevedere una tutela economica che non può costituire un adeguato ristoro del danno prodotto, nei vari casi, dal licenziamento, né un'adeguata dissuasione del datore di lavoro dal licenziare ingiustamente, la disposizione censurata comprime l'interesse del lavoratore in misura eccessiva, al punto da risultare incompatibile con il principio di ragionevolezza. Il legislatore finisce così per tradire la finalità primaria della tutela risarcitoria, che consiste nel prevedere una compensazione adeguata del pregiudizio subito dal lavoratore ingiustamente licenziato».

La Corte ha inoltre ritenuto che la disposizione sia in contrasto anche con l'art. 4, comma 1, e 35, comma 1, Cost., che sanciscono il valore per l'ordinamento del lavoro al fine di realizzare il pieno sviluppo della personalità umana, nonché con gli artt. 76 e 117, comma 1, Cost., in relazione all'art. 24 della Carta sociale europea, il quale prevede che, per assicurare l'effettivo esercizio del diritto a una tutela in caso di licenziamento, le parti si impegnano a riconoscere «il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione». Ha pertanto dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma in esame, disponendo che «nel rispetto dei limiti, minimo e massimo, nell'intervallo in cui va quantificata l'indennità spettante al lavoratore illegittimamente licenziato, il giudice terrà conto innanzitutto dell'anzianità di servizio - criterio che è prescritto dall'art. 1, comma 7, lett. c), l. n. 184 del 2013 e che ispira il disegno riformatore del d.lgs. n. 23 del 2015 - nonché degli altri criteri già prima richiamati, desumibili in chiave sistematica dall'evoluzione della disciplina limitativa dei licenziamenti (numero dei dipendenti occupati, dimensioni dell'attività economica, il comportamento le condizioni delle parti)».

La chiarezza dei principi espressi dalla Corte costituzionale impone che, nei casi di licenziamenti illegittimi, nella forbice tra il minimo e il massimo fissato dal legislatore (attualmente, in forza del decreto dignità, dalle sei alle trentasei mensilità), il giudice dovrà determinare l'indennità risarcitoria onnicomprensiva tenendo conto, in via prioritaria, dell'anzianità di servizio, in quanto criterio ispiratore della riforma, e in via successiva degli altri criteri che l'ordinamento indica per accertare in modo accurato l'entità della misura risarcitoria, calandola nella realtà aziendale (51).

La sentenza della Corte costituzionale n. 150 del 2020

Già all'indomani della sentenza n. 194 del 2018, la dottrina aveva preconizzato un nuovo intervento della Corte costituzionale: la sentenza, infatti, non aveva affrontato altre questioni, ritenute non rilevanti nel giudizio a quo, ma che, al pari di quelle poste dal meccanismo automatico di calcolo dell'indennità risarcitoria previsto nell'art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 23/2015, introducono quello stesso vulnus al principio di effettività e adeguatezza della tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo inferto dall'art. 3, comma 1 (52).

La risposta della Corte non si è fatta attendere.

Il giudizio di legittimità costituzionale è stato promosso dallo stesso Tribunale di Roma e dal Tribunale di Bari e ha riguardato l'art. 4 del d.lgs. n. 23/2015 nella parte in cui prevede, per il caso di licenziamento intimato in violazione del requisito di motivazione o della procedura di cui all'art. 7 st. lav., la condanna del datore di lavoro al pagamento di un'indennità «di importo pari a una mensilità dell'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto per ogni anno di servizio». Anche in questo caso le norme di riferimento sono gli artt. 3, 4, primo comma, 24 e 35, comma 1, Cost.

La Corte, con la sentenza del 16 luglio 2020, n. 150 (53), ripercorre lo stesso iter motivazionale della sentenza n. 194, per giungere ad affermare che nei casi di vizi formali, per violazione del requisito di motivazione di cui all'art. 2, comma 2, della legge 15 luglio 1966 n. 604 (come successivamente modificata), della procedura di cui all'art. 7 della legge n. 604/1966 nonché dell'art. 7 st. lav., il criterio di liquidazione dell'indennità, ancorato in via esclusiva all'anzianità di servizio, è illegittimo.

Esso, invero, da un lato accentua la marginalità dei vizi formali e procedurali, svalutandone la funzione di garanzia, ispirata a valori di civiltà giuridica e orientata alla tutela della dignità della persona del lavoratore; dall'altro, mostra l'incongruenza di una misura uniforme e immutabile dell'indennità, soprattutto nei casi di un'anzianità modesta, cui corrisponde un'indennità altrettanto modesta sì da ridurre in modo apprezzabile sia la funzione compensativa sia l'efficacia deterrente della sanzione. L'inadeguatezza del ristoro riconosciuto al lavoratore si rivela lesiva della tutela del lavoro in tutte le sue forme (art. 4, comma 1, e 35, comma 1, Cost).

La declaratoria di illegittimità costituzionale è espressa in termini del tutto sovrapponibili a quelli usati nella sentenza n. 194 del 2018: «nel rispetto dei limiti minimo e massimo oggi fissati dal legislatore, il giudice, della determinazione dell'indennità, terrà conto innanzitutto dell'anzianità di servizio, che rappresenta la base di partenza della valutazione. In chiave correttiva, con apprezzamento congruamente motivato, il giudice potrà ponderare anche altri criteri desumibili dal sistema che concorrono a rendere la determinazione dell'indennità aderente alle particolarità del caso concreto».

La sentenza si apprezza soprattutto nella parte in cui esalta il valore di civiltà giuridica delle prescrizioni formali e procedimentali che devono precedere e assistere il licenziamento: la conoscibilità delle norme disciplinari, la preventiva contestazione dell'addebito, il diritto del lavoratore di essere sentito, per la Corte, non sono «vuote prescrizioni formali, ma concorrono a tutelare la dignità del lavoratore, come traspare anche dalla collocazione sistematica della norma nel titolo primo dello Statuto dei lavoratori, denominato “della libertà e dignità del lavoratore”». Esse sono poste a presidio della tutela del lavoro, sancita dagli artt. 4 e 35, Cost., che impone al legislatore di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» il recesso del datore di lavoro. Si tratta di un apparato «cruciale nell'esercizio del potere privato che si spinge fino a irrogare la sanzione espulsiva».

In questa cornice valoriale, la disciplina del licenziamento affetto da vizi di forme o di procedura deve essere incardinata nel rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza al fine di garantire una tutela adeguata, non assicurata dall'attuale disciplina dell'art. 4.

La norma, nella sua attuale formulazione, non consente di valutare fattori diversi dal mero calcolo aritmetico dell'anzianità di servizio, come la diversa gravità delle violazioni ascrivibili al datore di lavoro, o i più flessibili criteri del numero degli occupati, delle dimensioni dell'impresa, del comportamento delle condizioni delle parti come elencati dell'art. 8 della legge n. 604/1966, applicabili nell'ambito della tutela obbligatoria.

Lo stretto e unico collegamento fissato tra misura dell'indennità e anzianità di servizio non compensa il pregiudizio arrecato dall'inosservanza di garanzie fondamentali e non rappresenta una sanzione efficace, a dissuadere il datore di lavoro da violare le garanzie prescritte dalla legge. Sotto questo profilo il congegno delineato dal legislatore viola il canone di ragionevolezza.

La sentenza si conclude con un monito al legislatore affinché ricomponga secondo linee coerenti una normativa che è di importanza essenziale e che non può pertanto essere frutto di interventi frammentari ed eterogenei.

Conclusioni

Rimangono ancora da scandagliare altri profili di irragionevolezza ravvisabili nel d.lgs. n. 23/2015, uno per tutti la individuazione della tutela per il caso di licenziamento collettivo intimato senza l'osservanza dei criteri di scelta, considerato che l'art. 10, comma 2, rinvia all'art. 3, comma 1, del medesimo decreto legislativo. La Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi su tale questione dalla Corte d'appello di Napoli con l'ordinanza 18 settembre 2019, l'ha ritenuta inammissibile con sentenza n. 254 del 2020, per difetto di rilevanza (54).

Va anche ricordato, per completezza, che tra l'ordinanza di rimessione della Corte d'appello di Napoli e la sentenza n. 254/2020 è intervenuta la decisione del Comitato Europeo dei Diritti Sociali dell'11 febbraio 2020 (55).

Su reclamo collettivo della CGIL, il Comitato Europeo, richiamando la sua stessa giurisprudenza, e in particolare due precedenti pronunce del 31 gennaio 2017 (Finnish Society of Social Rights v. Finland - Complaints n. 106 e 107/2014), ha ritenuto che la normativa del Jobs Act vìola l'art. 24 della Carta Sociale Europea, e ciò nonostante l'intervento della Corte costituzionale con la sentenza n. 194/2018 e le modifiche apportate alla disciplina del licenziamento illegittimo dal “Decreto dignità”.

Secondo il Comitato, la legge italiana, in particolare la disciplina delle “Tutele Crescenti”, prevede «un indennizzo che non copre le perdite finanziarie effettivamente subite, poiché l'importo è limitato, a seconda dei casi, dal plafond di 6, 12, 24 o 36 mensilità di riferimento».

Valorizzando questo dato numerico, il Comitato è giunto alla conclusione che le disposizioni del diritto nazionale, non riconoscendo il rimedio della reintegrazione nel posto di lavoro, né il diritto alternativo ad un indennizzo in grado di coprire le perdite finanziarie subite in conseguenza del licenziamento illegittimo, sono da considerarsi in linea di principio contrarie alla Carta, in quanto sproporzionate e prive di carattere sufficientemente dissuasivo (§ 96).

L'assenza di una funzione deterrente è ancor più evidente ove si ponga mente al meccanismo conciliativo regolato dall'art. 6 d. lgs. n. 23/2015, il quale è strutturato in modo tale da incentivare il datore di lavoro a sottrarsi al procedimento giurisdizionale tramite un'offerta di ammontare predeterminato ed a porre il lavoratore di fronte all'alternativa secca tra la proposizione dell'azione giudiziaria, con i rischi a questa connessi, o l'accettazione dell'offerta di una somma di importo ridotto ma di immediata disponibilità.

Si tratta di interventi che rendono palese un sistema di tutele assai frammentato, composto da norme alle volte opache e contraddittorie, altre volte non rispettose dei canoni di ragionevolezza ed eguaglianza, altre ancora prive di coerenza sistematica: frammentarietà, incoerenza e irragionevolezza di un quadro normativo che non può non riflettersi sull'applicazione concreta delle norme, favorendo interpretazioni giurisprudenziali non uniformi, in un giudizio di bilanciamento di valori che è sempre più precario e imprevedibile.

La discrezionalità del giudice, che pure s'era voluta arginare per ragioni di certezza del diritto e di predeterminazione (e contenimento) del firing cost, considerate dal legislatore come incentivo agli investimenti anche stranieri sul territorio nazionale, torna ad irrompere al fine di comporre le aporie del sistema e di attuare quel sistema valoriale che presidia il licenziamento.

È giusto infatti ricordare che il lavoratore, «attraverso il lavoro reso all'interno dell'impresa, da intendere come formazione sociale nei sensi dell'art. 2 Cost., realizza non solo l'utilità economica promessa dal datore ma anche i valori individuali e familiari indicati nell'art. 2 cit. e nel successivo art. 36» (56).

E, pur nel doveroso riconoscimento della discrezionalità del legislatore e delle finalità di tipo socio-economico che intende perseguire, l'interpretazione della norma «non è un momento successivo a quello della produzione bensì l'ultimo momento, interno a quel processo, con la conseguenza che giurisprudenza e scienza debbono deporre “la veste della ancillare esegeta del testo legislativo scambiato per un testo sacro” e sentirsi realizzatrice “di quella storia vivente che è il diritto”» (57).

Il diritto “non guarda” ma si evolve nell'opera della giurisprudenza teorica e pratica alla quale spetta «rinvenire o costruire» (58) gli istituti del diritto del lavoro.

La certezza del diritto, piuttosto che rimessa alle proposizioni legislative, va assicurata attraverso la saldezza dei principi.

«Non si defletta mai dal porre la persona, la sua tutela, la valorizzazione di ogni sua dimensione, a fine insopprimibile di una disciplina, la quale non potrà mai rinserrarsi in una razionalità fredda e impietosa, e nemmeno nella frigidità sociale di valutazioni puramente economicistiche» (59).

Note

(1) Così Di Paola, L'illegittimità del licenziamento individuale per vizi formali e procedurali, in Il licenziamento, a cura di Di Paola, Milano, 2009, p. 291.

(2) Carinci, Il nodo gordiano, op. cit., p. 1110 e ss., e Marazza, L'art. 18, nuovo testo, op.cit., p. 633, sottolineano l'incongruenza e il sospetto di illegittimità costituzionale della tesi che vorrebbe ricondotte nell'ambito dei vizi meramente procedurali le ipotesi di assenza assoluta di contestazione o di motivazione: secondo questi autori esse sarebbero da equipararsi all'inesistenza del fatto contestato, con applicazione della reintegrazione. V. pure Di Paola, op.ult.cit., p. 295 e ss. e 301, che sembra optare per la tesi che riconduce alla nozione di «insussistenza del fatto contestato» non solo l'ipotesi in cui del fatto non sia stata fornita la prova in giudizio, ma anche quando risulti che esso non sia stato «tempestivamente contestato»: né la contestazione può essere contenuta nelle difese spiegate nel giudizio di impugnativa del licenziamento, che, altrimenti, si riconoscerebbe al datore di lavoro un irragionevole vantaggio temporale con limitazione del diritto di difesa del lavoratore. La tutela dovrebbe dunque essere quella reintegratoria attenuata. È di opinione contraria Pisani, Le conseguenze dei vizi procedimentali del licenziamento disciplinare dopo la l. 92/2012, in ADL, 2013, p. 271. Per Cester, op. ult. cit., p. 999, l'espressione letterale volutamente ampia («violazione del requisito di motivazione»), è tale da riferirsi ad ogni ipotesi di mancato rispetto del precetto, sì che ogni violazione dovrebbe ritenersi ricompresa, con la conseguente applicazione della tutela indennitaria. In tal senso sembra orientata anche D'ONGHIA, Le modifiche procedurali: comunicazione dei motivi; conciliazione preventiva obbligatoria e revoca del licenziamento, in P. CHIECO (a cura di), Flessibilità e tutele nel lavoro. Commentario della legge 28 giugno 2012, n. 92, Cacucci, Bari, 2013, p. 259.

(3) In Foro it., 2018, I, p. 504 e ss., con nota di Perrino.

(4) Per un esame sulle posizioni della giurisprudenza, si rinvia a Di Paola, op. ult. cit., p. 312 e ss. Assai variegata è invece la posizione della dottrina: cfr. Cester, op. ult. cit., p. 1003 e s.

(5) In tal senso, Di paola, op.ult.cit., p. 325; Cester, op.ult.cit., p. 1004.

(6) Reputa che il criterio debba essere costituito solo dalla «gravità della violazione formale o procedurale commessa dal datore di lavoro», Di Paola, op.ult.cit., p. 20, in ragione della completezza della disposizione contenuta nel comma 6 e della mancanza di una frase di raccordo tra i due commi.

(7) Sui criteri di calcolo delle dimensioni aziendali ai fini dell'applicazione del comma 8, Cass. 25 ottobre 2012, n. 18287; v. ora l'art. 9 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, che così dispone: «Ai fini dell'applicazione di qualsiasi disciplina di fonte legale o contrattuale per la quale sia rilevante del computo dei dipendenti del datore di lavoro, i lavoratori a tempo parziale sono computati in proporzione all'orario svolto, rapportato a tempo a tal fine, l'arrotondamento opera per le frazioni di orario che eccedono la somma degli orari a tempo parziale corrispondente unità intere di orario a tempo pieno». Si veda anche l'art. 18 del d.lgs. cit. Il computo dei dipendenti va effettuato tenendo conto della normale occupazione dell'impresa con riferimento al periodo antecedente al licenziamento, senza che abbiano rilevanza le contingenti e occasionali contrazioni espansioni del livello occupazionale aziendale: così Cass. 8 novembre 2016, n. 22653. In generale, sull'argomento, Di Paola, op.ult.cit., p. 406 e ss.

(8) Per le altre violazioni procedurali si applica la tutela obbligatoria tradizionale: Cass. 5 ottobre 2006, n. 21412.

(9) In tal senso, Riccobono, Tutela sostanziale e regime processuale del licenziamento inefficace nelle imprese non soggette all'applicazione dell'art. 18 St. lav., in Riv. ital. dir. lav., 2014, II, p. 836 e s.

(10) Pubblicata in Lav. giur. 2017, p. 487, con nota di Giorgi, Inefficacia del licenziamento e conseguenze sanzionatorie. Concorda con questa soluzione, Di Paola, L'illegittimità del licenziamento individuale per vizi formali, op. cit., p. 299 e ss., il quale rimarca come non vi sia ragione di ritenere che il licenziamento affetto da vizio di motivazione possa estinguere il rapporto a seconda del limite dimensionale dell'azienda. L'Autore segnala comunque l'anomalia per la quale datore di lavoro sotto la soglia dimensionale ma con più di quindici dipendenti potrebbe essere tenuto alla riassunzione o al pagamento di un'indennità massima di quattordici mensilità per un lavoratore con venti anni di anzianità, mentre nelle medesime condizioni un datore di lavoro sopra la soglia sarebbe tenuto al pagamento di un'indennità massima di sole dodici mensilità.

(11) In tal senso, Cass., sez. un., 22 maggio 2018, n. 12568, pubblicata in Il lavoro nella giurisprudenza, 2019, p. 43, con nota di Nicolosi, Licenziamento e comporto non scaduto.

(12) Cosi, Cass., sez. un., n. 12568/2018, cit.

(13) In dottrina, v. Albi, Il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo dopo la riforma MontiFornero, in WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT, n. 160/2012, p. 10. Voza, Licenziamento e malattia: le parole e silenzi del legislatore, in WP CSDLE, 248/2015, p. 12, secondo cui a tale aporia non è possibile porre rimedio e rappresenta una delle conseguenze della frantumazione della tutela reale in una pluralità di regimi, alcuni dei quali collocati al di sotto dell'asticella protettiva derivante dalla nullità di diritto comune. Per cester, L'estinzione, op.cit., p. 983, la differenza di sanzioni non sembra particolarmente significativa, posto che tutela in base al 4° comma dell'art. 18 e nullità di diritto comune, nel gioco contrapposto fra modalità di calcolo del risarcimento e indennità sostitutiva della reintegrazione, possono non determinare risultati particolarmente divergenti. Sui casi di licenziamento sottoposti al regime di tutela prevista dal diritto comune si rinvia a Cester, L'estinzione, op.cit., p. 1008.

(14) Cass. 22 luglio 2019, n.19661.

(15) In particolare, l'art. 1, comma 7, lett. c) della legge 10 dicembre 2014, n. 183, allo scopo di rafforzare l'opportunità di ingresso nel mondo del lavoro nonché di riordinare i contratti di lavoro vigenti per renderli maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo, attribuisce al legislatore delegato il compito di prevedere per le nuove assunzioni contratti a tempo indeterminato a tutele crescenti in relazione all'anzianità di servizio, «escludendo per i licenziamenti economici la possibilità della reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro, prevedendo un indennizzo economico certo e crescente con l'anzianità di servizio e limitando il diritto alla reintegrazione ai licenziamenti nulli e discriminatori e a specifiche fattispecie di licenziamento disciplinare ingiustificato, nonché (…) termini certi per l'impugnazione del licenziamento».

(16) Tremolada, Il campo di applicazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, in Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti),a cura di F. Carinci e Cester, in ADAPT Labour studies, n. 46, p. 3; Mainardi, Il campo di applicazione del d.lgs. n. 23/2015: licenziamenti illegittimi, tutele crescenti e dipendenti pubblici, in Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015, cit., p. 29.Cester, I licenziamenti nel Jobs act, in WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT, 273/2015, p. 15 e ss.

(17) Segnala le criticità di questa scelta, diversa da quella compiuta nella legge n. 92/2012, Cester, I licenziamenti nel Jobs act, op. ult. cit., p. 15 e s.

(18) La norma tace su altre categorie di lavoratori, come gli apprendisti, i dipendenti delle pubbliche amministrazioni, il personale dipendente delle imprese di navigazione marittima o aerea: per un esame di tale questione, nonché delle problematiche connesse alla esatta individuazione dell'ambito di applicazione del decreto legislativo n. 23/2015, si rinvia a Tremolada, op. ult. cit., p. 5 e ss.; Garofalo, Il campo di applicazione, in Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Jobs act 2, Cacucci, Bari, 2015, p. 59 e ss.; Di Paola e Fedele, L'ambito di applicabilità delle tutele previste dal d.lgs. n. 23/2015, in Il licenziamento, a cura di Di Paola, op.cit., p. 35 e ss.

(19) Di Paola, Le organizzazioni di tendenza, in Il licenziamento, op. cit., p. 539.

(20) In tal senso, Pasqualetto, Il licenziamento discriminatorio e nullo nel “passaggio” dall'art. 18. st. lav. all'art. 2, d.lgs. n. 23/2015, in Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti) a cura di F. Carinci e Cester, ADAPT Labour studies, n. 46, p. 50 e s. Per F. Carinci, Un contratto alla ricerca di una sua identità: il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti (‘a sensi della bozza del D.Lgs. 24 dicembre 2014), in Il lavoro nella giurisprudenza, 2015, p. 116, la nuova formulazione contenuta nel Jobs act rende più ampio l'ambito applicativo del licenziamento discriminatorio e più vicina la sua nozione a quella elaborata dal diritto comunitario con riguardo alla legislazione antidiscriminatoria. V. pure Recchia, Il licenziamento nullo ed inefficace, in Le tutele per i licenziamenti e per la disoccupazione involontaria nel Jobs act 2, a cura di Ghera e Garofalo, Cacucci, Bari, 2015, p. 87 e ss.

(21) In tal senso, Recchia, Il licenziamento nullo ed inefficace, op. ult. cit., p. 93.

(22) E' di questa opinione Cester, I licenziamenti nel Jobs act, op. ult. cit., p. 36 ss., che traccia un panorama dottrinale sulla questione. Contra, Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel jobs act, in ADL, 2/2015, p. 335 e ss.

(23) Pasqualetto, Il licenziamento discriminatorio e nullo, op.cit., p. 64; Basilico, Licenziamento nullo, in Il licenziamento, a cura di Di Paola, op.cit., p. 89 e ss. , riconduce questa ipotesi alla fattispecie della discriminazione; mette in evidenza le differenze tra licenziamento discriminatorio per handicap e licenziamento per disabilità fisica o psichica del lavoratore sotto il profilo probatorio Riccardi, Il licenziamento per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore, in ghera-garofalo (a cura di), Le tutela per i licenziamenti, cit., p. 103 ss. È invece di opinione contraria, Cester, I licenziamenti nel Jobs act, op. ult. cit., p. 43, secondo cui il licenziamento in esame è un licenziamento privo di giustificazione.

(24) In questo senso, Basilico, op. ult. cit., p.94.

(25) In senso contrario, Voza, Licenziamento e malattia: le parole e silenzi del legislatore, in WP CSDLE, 248/2015, p. 13, secondo cui il legislatore del Jobs act ha scelto di non regolare il licenziamento per malattia, consegnandolo all'interprete, che, dunque, è ora dinanzi all'alternativa o di applicare ai neoassunti l'art. 18 st. lav., in quanto norma più prossima alla fattispecie, con la conseguenza di avallare un trattamento inferiore rispetto a quello previsto per i lavoratori di datori di lavoro sotto la soglia dimensionale e per i quali trova applicazione il regime delle nullità di diritto comune, oppure fare applicazione di questa disposizione con la conseguenza (ancor più paradossale, se si pensa all'intera ratio del Jobs Act), di trattare in senso più favorevole proprio i lavoratori neo-assunti rispetto a quanto previsto dall'art. 18 st. lav. Reputa questa difformità di disciplina irragionevole Basilico, op. ult. cit., p. 101

(26) Così, F. Carinci, Un contratto alla ricerca, op.cit., p. 116. V. pure Persiani, Noterelle su due problemi di interpretazione, cit., p. 395.

(27) In tal senso Marazza, Il regime sanzionatorio dei licenziamenti nel jobs act, in Arg.dir.lav., 2/2015, p. 335. V. Pure Basilico, Licenziamento nullo, op. ult. cit., p. 100, secondo cui la revisione del rimedio, già previsto nell'art. 18 st. lav., della reintegrazione (sia pure, in quella sede, attenuata) sarebbe fortemente sospetta di eccesso di delega, dal momento che la legge n. 183/2014 ha prescritto la reintegrazione per i «licenziamenti nulli» senza delegare la riscrittura dei requisiti. Nello stesso senso Marazza, Il regime, op. cit., p. 336.

(28) Marazza, Il regime, op. loc. ult. cit.

(29) Su tale specifico aspetto, si rinvia a Vianello, Il licenziamento illegittimo nel contratto a tutele crescenti: il nuovo parametro di determinazione del risarcimento, in WP CSDLE "Massimo d'Antona".IT- 359/2018, p. 2 e ss. nonché a Di Paola, La disciplina sanzionatoria correlata al licenziamento individuale illegittimo, in Il licenziamento, op.cit., p. 419.

(30) O per i quali si verifichino le condizioni indicate nell'art. 1 e già descritte sopra.

(31) Perulli, la disciplina del licenziamento individuale nel contratto a tutele crescenti. Profili critici, in Riv. it. dir. lav., 2015, p. 413: secondo l'Autore, questa scelta invera il principio della «rottura efficace del contratto» (efficient breach of contract) che consente la possibilità di violare la norma dietro corresponsione di un risarcimento economico, senza applicazione di punitive damages e senza prevedere la specific performance (esecuzione in forma specifica).

(32) F. Carinci, Il licenziamento disciplinare, in Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015 (contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti), a cura diF.Carinci e Cester, in ADAPT, 2015,p. 85. Perulli, La disciplina del licenziamento individuale nel contratto a tutele crescenti. Profili critici, in Riv.it. dir. lav., 2015, p. 413 e ss.

(33) Sull'argomento, si rinvia a quanto si è già esposto: per tutti, si leggano le pagine di Persiani, Il fatto rilevante per la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato, in Arg. Dir. Lav., 2013, n. 1, p. 1 e ss.; Del Punta, I problemi del nuovo articolo 18, op. cit., p. 19.

(34) Pubblicata in Riv. it. dir. lav., 2015, II, p. 25 p. ss. con nota di Del Punta, Il primo intervento della Cassazione sul nuovo (eppur già vecchio) art. 18.

(35) Perulli, op. ult. cit., p. 423; Marazza, Il regime sanzionatorio, op.cit., p. 323 ss.; Fedele, il licenziamento disciplinare, in Il licenziamento, a cura di Di Paola, cit., p. 215; Chietera, Il fatto nel licenziamento disciplinare tra legge Fornero e Jobs act 2, in Le tutele per i licenziamenti, op.cit., p. 133. Cester, I licenziamenti, op. cit., 58 ss.

(36) In tal senso alla giurisprudenza di legittimità: v. da ultimo, Cass. 8 maggio 2019, n. 12174, cit., sulla stessa scia di Cass. 13 ottobre 2015, n. 20540 e 20545.

(37) Così Cester, I licenziamenti nel Jobs act, cit., p. 59

(38) Si rinvia a Fedele, op. ult. cit., p. 216 e ss.

(39) Sembra così orientato Marazza, Il regime sanzionatorio, op. cit., p. 326. v. Pure Cester, I licenziamenti, op. cit., p. 61, secondo cui il mancato riferimento alle previsioni della contrattazione collettiva è espressione di una tendenza a ridimensionarne il valore; il che tuttavia non esclude che nell'ambito del giudizio di proporzionalità il giudice possa e debba tener conto delle previsioni contenute nei contratti collettivi, quale parametro di riferimento per l'accertamento della legittimità del licenziamento, senza tuttavia che esse possano incidere sulle conseguenze del licenziamento illegittimo.

(40) Si vedano le considerazioni di Di Paola, La rilevanza dei motivi del licenziamento e il sindacato giudiziale con riguardo ai vizi sostanziali, in Il licenziamento, op.cit., p. 396 e ss. Si occupa della questione anche Cester, Il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015, a cura di F. Carinci e Cester, p. 114 e ss., per il quale, fatta salva la rilevante assorbenza di motivi discriminatori o illeciti, che aprirebbero alla tutela reintegratoria piena, la strada del negozio in frode alla legge appare difficilmente percorribile.

(41) Così Marazza, Il regime sanzionatorio, op.cit., p. 329. Nello stesso senso, Di Paola, L'illegittimità del licenziamento individuale per vizi formali e procedurali, in Il licenziamento, op.cit., p. 300 s. e 307 ss., secondo cui all'assenza di contestazione non può attribuirsi valenza solo formale, bensì sostanziale, con la conseguenza che l'ipotesi della insussistenza del «fatto contestato» (art. 18, comma 4, st. lav., o «del fatto materiale contestato» (art. 3, coma 2, d.lgs. n. 23/2015) ricorre non solo quanto il fatto non è provato in giudizio ma anche quando esso non risulti contestato. Nello stesso senso Curzio, Il licenziamento ingiustificato, in Foro it., 2015, V, 249. È invece di opinione contraria, Cester, I licenziamenti nel Jobs act, cit., p. 83, secondo cui la tesi avversata conduce ad una forzatura del dato normativo, dovendosi ricomprendere nell'espressione «violazione del requisito di motivazione» anche la mancanza della stessa o della contestazione disciplinare, con la conseguenza che in tali casi trova applicazione la tutela indennitaria debole.

(42) Cass. 14 dicembre 2016, n. 25745, seguita da Cass. 24 febbraio 2020, n. 4879, pubblicata in Giur. it., 2020, p. 1154, con nota di Mocella, Immutabilità della contestazione disciplinare dopo le riforme della disciplina dei licenziamenti (Licenziamento disciplinare).

(43) In generale, sul punto, si rinvia a Di Paola, La disciplina sanzionatoria, in Il licenziamento, op. cit., p. 405 s., nonché a Vianello, il licenziamento illegittimo nel contratto a tutele crescenti: il nuovo parametro di determinazione del risarcimento, in WP CADLE MASSIMO D'ANTONA. IT., 359/2018 , p. 1 ss.V. pure Mattarolo,Le conseguenze risarcitorie ed indennitarie del licenziamento illegittimo, in Il licenziamento all'indomani del d.lgs. n. 23/2015, a cura di F. Carinci e Cester, p. 120 ss. L'autrice sottolinea la differente formula adoperata dal legislatore con riguardo alla indennità in caso di licenziamento illegittimo, che è espressamente qualificata come risarcitoria nell'ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo e intimato in forma orale (art. 2, comma 2), nonché nelle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo o per giusta causa in cui sia accertata l'insussistenza del fatto materiale (art. 3, comma 2), mentre è definita esclusivamente indennità nelle altre ipotesi (p. 128).

(44) Ancora, Di Paola, La disciplina sanzionatoria, op. cit., p. 421 e 445 ss. Sul punto, v. Corte costituzionale n. 194/2018, punto 11 del ‘considerato in diritto'.

(45) Sul decreto dignità si rinvia a Perulli, Correzioni di rotta. La disciplina del licenziamento illegittimo di cui all'art. 3, comma, 1, d. lgs. n. 23/2015 alla luce del c.d. “Decreto Dignità” e della sentenza della Corte costituzionale n. 194/2018, in Lavoro diritti Europa, 2019, p. 1 e ss., il quale sottolinea la scarsa incisività dell'intervento legislativo, considerato che all'indennità monetaria massima di trentasei mensilità il lavoratore potrà aspirare solo dopo quindici anni di servizio presso la stessa impresa.

(46) La stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 194/2018 non ha ritenuto di restituire gli atti al giudice rimettente perché valutasse la permanenza o non dei dubbi di legittimità costituzionale espressi nell'ordinanza di rimessione, considerato che il decreto è intervenuto solo sul quantum delle soglie minima e massima entro cui può essere stabilita l'indennità non anche sul meccanismo di determinazione dell'indennità, configurato dalla norma censurata e oggetto dell'ordinanza.

(47) Pubblicata in Foro it., 2019, I, p. 70 e ss., con nota di Giubboni, Il licenziamento nel contratto di lavoro a tutele crescenti dopo la sentenza numero 194 del 2018 della Corte costituzionale. L'ordinanza di rimessione è stata sollevata dal Tribunale di Roma con ordinanza del 26 luglio 2017.

(48) In dottrina, mostra perplessità rispetto a questo atteggiamento per così dire agnostico della Corte costituzionale, Perulli, Correzioni di rotta, op.cit., p.9, secondo cui «proprio il canone della ragionevolezza richiede non solo un controllo di coerenza, ma anche un vaglio di congruità finalistica della legge, ossia una verifica dell'adeguatezza dei mezzi allo scopo perseguito dal legislatore». Sembra dello stesso avviso Giubboni, Il licenziamento, op. cit., p. 94, per il quale la rinuncia della Corte ad un controllo di coerenza tra la scelta effettuata e il fine perseguito dal legislatore «amputa la portata del canone della ragionevolezza». In tal modo la sentenza svaluta il valore del principio di eguaglianza che si appiattisce sulle stesse scelte effettuate, a monte, dal legislatore ordinario. Sottolinea il peso assiologico della sentenza n. 154/2018, Speziale, Il “diritto dei valori”, la tirannia dei valori economici e il lavoro nella costituzione e nelle fonti europee, in www.costituzionalismo.it., n. 3/2019, II, p. 132, secondo cui la pronuncia riafferma il valore centrale che assume la disciplina in materia di licenziamenti, perché una tutela adeguata è strumentale alla «agibilità» di altri diritti fondamentali, tra cui, a quelli elencati dalla decisione, ne vanno aggiunti altri (retribuzione, professionalità, privacy, sicurezza ecc.) e «conferma una lettura della Costituzione che si distacca nettamente dall'approccio di Law & Economics e di un'analisi tutta incentrata sui profili di «efficienza» dell'impresa o del sistema economico generale.

(49) A tal fine, il Giudice delle leggi ha citato, tra le altre, le sentenze n. 228 del 2001, n. 309 del 1992.

(50) Corte cost. n. 45 del 1965.

(51) Si discute se il giudice possa scendere sotto il minimo fissato dal legislatore. Ritiene possibile una applicazione in peius della norma, con l'attribuzione al lavoratore un indennizzo anche al di sotto del minimo fissato dal legislatore, Mimmo, La disciplina sanzionatoria del licenziamento invalido, dalla legge 604 al Jobs Act, modificato dal decreto dignità, alla Corte cost. 8 novembre 2018, n. 194, in Il Giuslavorista, 20 novembre 2018. In generale, sulla portata della pronuncia della Corte costituzionale si rinvia a Di Paola, La disciplina sanzionatoria, in Il licenziamento, op.cit., p. 422 ss.

(52) Così Giubboni, Il licenziamento nel contratto di lavoro a tutele crescenti, cit., p. 96. Sostiene invece che la sentenza della Corte costituzionale produca una sorta di effetto a cascata quanto meno con riguardo alle norme che rinviano espressamente al meccanismo di calcolo di cui all'art. 3, Perulli, Correzioni di rotta, cit., p. 21, secondo cui la pronuncia di incostituzionalità si dovrebbe estendere anche alla disposizione di cui all'art. 9 (nonché dell'art.10), e ciò per ragioni di interpretazione sistematica: «il rinvio espresso dell'art. 9, comma 1, all'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, comporta necessariamente che anche alle imprese di minori dimensioni debba applicarsi il nuovo sistema di parametrazione dell'indennità risultante dalla pronuncia di incostituzionalità. Non dissimile è la posizione di M.T. Carinci, La Corte costituzionale n. 194/2018 ridisegna le tutele economiche per il licenziamento individuale ingiustificato nel “Jobs Act”, e oltre, in WP CSDLE "Massimo D'Antona. IT., n. 378/2018, p. 25, che distingue a seconda che il meccanismo di calcolo dell'indennità sia espressamente richiamato da altre norme - e in tal caso dovrebbe già operare il nuovo sistema di parametrazione configurato dalla Consulta; negli altri casi, in cui le norme contenute nel Jobs act non richiamano l'art. 3, comma 1, d.lgs. n. 23/2015 ma ne riproducono il contenuto, è inevitabile, a fronte della chiarezza del dato normativo e in assenza di un intervento del legislatore, un autonomo intervento della Corte costituzionale. Per una rassegna delle posizioni assunte dalla dottrina dopo la sentenza della Corte costituzionale, si rinvia, ex multis, a Zoli, Il puzzle dei licenziamenti ed il bilanciamento dei valori tra tecniche di controllo e strumenti di tutela, in WP CSDLE "Massimo D'Antona. IT., 428/2020, spec. p.17 e ss. e M.T. Carinci, La Corte costituzionale n. 194/2018, op. ult. cit.

(53) Pubblicata in Foro it., 2020, I, p. 2982, con nota di Giubboni, La nuova sentenza della corte costituzionale sul contratto di lavoro a tutele crescenti.

(54) Si tratta della sentenza della Corte costituzionale n. 254 del 26 novembre 2020, sulla quale, oltre che sull'ordinanza di immissione, si vedano le considerazioni di Diamanti, Il risarcimento danni conseguente al licenziamento illegittimo. Il percorso della Corte di Giustizia, della Corte Costituzionale e del Comitato Europeo dei Diritti Sociali., inLavoro Diritti Europa - Rivista nuova di Diritto del Lavoro, n. 1/2021.

(55) Sul valore nell'ordinamento giuridico italiano delle pronunce del Comitato europeo dei diritti sociali, v. Corte cost. n. 120/2018, secondo cui, pur nella loro autorevolezza, esse non vincolano i giudici nazionali nella interpretazione della Carta sociale europea, tanto più se l'interpretazione estensiva proposta non trova conferma nei princìpi costituzionali dell'ordinamento nazionale. Per un'analisi della questione, si rinvia a Perrone, La forza vincolante delle decisioni del Comitato Europeo dei Diritti Sociali: riflessioni critiche alla luce della decisione CGIL c. Italia dell'11 febbraio 2020 sul Jobs Act sulle tutele crescenti, in Lavoro diritti Europa -Rivista nuova di diritto del lavoro, n. 1/2020; cfr. anche Buffa, Licenziamenti illegittimi: la pronuncia del Comitato europeo dei diritti sociali, in www.questionegiustizia.it, n. 3/2020.

(56) Così Cass., sez. un., 12 novembre 2001 n. 14020 e Cass., sez. un., 10 gennaio 2006, n. 141.

(57) Roselli, Il declino del formalismo giuridico, op.cit., p. 65.

(58) Le parole sono di Roselli, Il declino del formalismo giuridico, op. cit., p. 97, che richiama il pensiero di Santoro Passarelli: «il contratto di lavoro riguarda l'avere per l'imprenditore, ma per il lavoratore riguarda e garantisce l'essere, il bene che è condizione dell'avere e di ogni altro bene»

(59) Grossi, La grande avventura giuslavoristica, in Riv. it. dir. lav., 2009, I, 6. La citazione è tratta da Rosselli, op. ult. cit., p. 69.

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