La persona offesa “vulnerabile” va ammessa automaticamente al patrocinio a spese dello Stato

Cristina Di Paola
10 Marzo 2021

È legittima l'automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati indicati dall'art. 76, comma 4-ter, D.P.R. n. 115/2002...
Massima

È legittima l'automatica ammissione al patrocinio a spese dello Stato della persona offesa dai reati indicati dall'art. 76, comma 4-ter, D.P.R. n. 115/2002.

Il caso

La persona offesa dal reato in un procedimento per violenza sessuale presentava istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato senza specificare il reddito complessivo valutabile ai fini dell'accesso al beneficio. Il GIP, con ordinanza interlocutoria notificata al difensore, ne chiedeva l'integrazione mediante deposito della dichiarazione sostitutiva attestante le condizioni reddituali e patrimoniali dell'istante. Il difensore osservava che il reato di cui all'art. 609 – bis c.p. è tra quelli per i quali il patrocinio a spese dello Stato è sempre concesso alla parte offesa prescindendo dalle condizioni reddituali e che, di conseguenza, la richiesta supplementare non appariva motivata atteso che il giudice, in siffatta categoria di procedimenti, non è chiamato a vagliare le condizioni reddituali dell'istante. Il GIP riteneva quindi imprescindibile per l'adozione del provvedimento finale lo scrutinio di legittimità costituzionale della norma di cui all'art.76, comma 4-ter, D.P.R. n. 115/2002.

A parere del giudice a quo, la norma che prevede l'ammissione della persona offesa da determinati delitti, anche in deroga ai limiti di reddito previsti dal decreto in materia di spese di giustizia, contrasta con gli artt. 3 e 24, comma 3, Cost.

La rimessione della questione alla Consulta muove dalla presa d'atto da parte del GIP di Tivoli della esistenza di plurime pronunce della Corte di Cassazione nel senso di ritenere automatica la fruizione del beneficio del patrocinio a spese dello Stato per le vittime dei reati contemplati dalla disposizione in questione. In mancanza di arresti di segno contrario, il giudice ritiene di trovarsi al cospetto di un “diritto vivente”, frutto della univoca giurisprudenza nomofilattica, che lo porrebbe innanzi all'alternativa tra adottare un provvedimento inconciliabile con l'interpretazione vivente della norma e destinato pertanto ad essere cassato, o adeguarsi a siffatta giurisprudenza pur non condividendola.

Nel merito, il GIP reputa che l'automatismo introdotto dalla disciplina precluda ogni verifica giudiziale in ordine alla sussistenza di quegli ostacoli e di quelle remore di natura economica in capo alla persona offesa che la norma intende rimuovere trasferendo sulla collettività i costi della difesa tecnica. La disposizione censurata sarebbe quindi in contrasto con l'art. 3 della Costituzione poiché per effetto della diretta e immediata ammissione al beneficio, per il sol fatto di rivestire la posizione di persona offesa da un determinato reato, a prescindere dall'apprezzamento delle condizioni economiche, verrebbero ad essere disciplinate in modo identico situazioni del tutto eterogenee sotto il profilo economico. La norma contrasterebbe inoltre con l'art. 24, terzo comma, Cost., che assicura il patrocinio in favore dei non abbienti in quanto l'ammissione automatica al beneficio della persona offesa da uno dei reati indicati gioverebbe anche a soggetti dalle “eccezionali capacità economiche”, a discapito della doverosa salvaguardia dell'equilibrio dei conti pubblici e del contenimento della spesa pubblica per la giustizia.

È intervenuta la Presidenza del Consiglio dei Ministri concludendo per la declaratoria di inammissibilità o comunque di infondatezza della questione.

La questione

La questione involge l'accertamento delle condizioni per l'accesso da parte della persona offesa al patrocino a spese dello Stato e i limiti dell'apprezzamento che può essere condotto dal giudice cui è presentata l'istanza.

Nell'ambito dei procedimenti penali per uno dei delitti indicati dall'art. 76, comma 4-ter, D.P.R. n. 115/2002 (T.U. in materia spese di giustizia), la persona offesa che ne faccia domanda deve essere automaticamente ammessa al beneficio del patrocino a spese dello Stato, a prescindere dalle condizioni reddituali godute?

Di riflesso, pur non essendo oggetto diretto del sindacato di legittimità, il quesito può essere esteso al contenuto dell'istanza di ammissione poiché, in caso di risposta affermativa in favore dell'ammissione automatica, occorre chiedersi se, ai sensi dell'art. 79, lett. c) e d),D.P.R. n. 115/2002, la domanda per l'accesso al “gratuito patrocinio” debba ugualmente essere corredata - a pena di inammissibilità - della dichiarazione sostitutiva di certificazione da parte dell'interessato, ai sensi dell'articolo 46, comma 1, lettera o), del D.P.R. n. 445/2000, attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l'ammissione, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini, determinato secondo le modalità indicate nell'articolo 76; e dell'impegno a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito, verificatesi nell'anno precedente, entro trenta giorni dalla scadenza del termine di un anno, dalla data di presentazione dell'istanza o della eventuale precedente comunicazione di variazione.

Le soluzioni giuridiche

In punto di ammissibilità, la Corte Costituzionale ritiene adeguatamente motivate le argomentazioni che hanno determinato il giudice a quo a sollevare la questione di legittimità costituzionale. Egli infatti ha correttamente applicato l'orientamento della Consulta, condensato nella richiamata sentenza n. 240/2016, che abilita la devoluzione del quesito costituzionale al fine di sottrarre il giudice di merito dall'alternativa tra l'applicazione di una disposizione ritenuta costituzionalmente illegittima o l'emanazione di un provvedimento in contrasto con l'interpretazione “vivente” della norma e perciò destinato a una probabile riforma.

La questione è nondimeno infondata.

In prima battuta la Corte costituzionale rammenta che la disposizione impugnata è sussumibile nell'insieme della disciplina processuale e, in quanto tale, rientra nell'ambito della piena discrezionalità del legislatore, censurabile solamente ove travalichi il limite della irragionevolezza o dell'arbitrarietà della scelta legislativa. La norma che concede l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato per le vittime di reati contro la libertà e l'autodeterminazione sessuale, a prescindere dalla condizione di non abbienza, non appare irragionevole né lesiva del principio di parità di trattamento, considerata la vulnerabilità delle persone offese e l'esigenza di favorire l'emersione di tali reati.

La crescente sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori è stata affiancata nel nostro ordinamento da provvedimenti e misure volti a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e l'autodeterminazione sessuale, considerati di crescente allarme sociale (il rimando è al preambolo del dl. n. 11/2009 e al preambolo del dl. n. 93/2013). In tale contesto, la volontà legislativa si è orientata verso l'implementazione di un sistema più efficace di sostegno alle vittime, agevolandone il coinvolgimento nell'emersione e nell'accertamento delle condotte penalmente rilevanti.

È palese, dunque, che la ratio della disciplina in esame è rinvenibile in siffatta precisa scelta di indirizzo politico-criminale che ha lo scopo di offrire un supporto concreto alla persona offesa, la cui vulnerabilità è accentuata dalla particolare natura dei reati di cui è vittima, e a incoraggiarla a denunciare e a partecipare attivamente al percorso giudiziario. La valutazione del legislatore è quindi del tutto ragionevole e risultato di un non arbitrario esercizio della propria discrezionalità.

La Corte Costituzionale rimarca, poi, come il riconoscimento del beneficio in via automatica non sia collegato alla presunzione di non abbienza della persona offesa, bensì alla particolare vulnerabilità della vittima, per come comprovato da significativi dati di esperienza e da innumerevoli studi vittimologici.

Parimenti infondato è il dedotto contrasto tra la norma di cui all'art. 76, comma 4-ter, D.P.R. n. 115/2002 e l'art. 24, comma 3, Cost. che dispone siano assicurati ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione.

Il dettato costituzionale è volto a garantire la massima estensione del diritto di difesa; esso non può, dunque, essere distorto nella sua portata, leggendovi una preclusione per il legislatore di prevedere strumenti per assicurare l'accesso alla giustizia, pur in difetto della situazione di non abbienza, a presidio di altri valori costituzionalmente rilevanti, come quelli in esame.

Osservazioni

La pronuncia della Corte Costituzionale è netta ed invero sarebbe stato azzardato pronosticarne un esito diverso.

Con argomentazioni sintetiche e al contempo incisive, la Consulta scandisce i passaggi della questione: a) essa è ammissibile poiché il giudice a quo coglie l'esistenza di un'interpretazione della norma secondo il diritto vivente che, a suo dire, la rende incompatibile con i principi costituzionali; b) essa è tuttavia infondata poiché la norma devoluta al sindacato di legittimità è disposizione processuale, come tale rimessa all'ampia discrezionalità del legislatore con il solo limite della irragionevolezza; c) la scelta del legislatore è frutto di una più ampia politica criminale volta ad assicurare massima tutela alle vittime di determinati reati, da considerarsi particolarmente vulnerabili, nonché a garantire che dette fattispecie di reato vengano alla luce. Per l'effetto, la norma di cui all'art. 76, comma 4-ter, D.P.R. n. 115/2002 è immune da irragionevolezza e non lede il principio di parità di trattamento. Non contrasta infine con l'art. 24, comma 3, Cost. poiché tale disposizione mira ad assicurare il patrocinio ai non abbienti e non certo ad escluderlo a vantaggio di coloro i quali dovessero essere ritenuti ugualmente meritevoli del beneficio.

È pertanto al riparo da ogni dubbio che, d'ora innanzi, l'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello stato presentata dalla persona offesa ai sensi dell'art. 76, comma 4-ter, D.P.R. n. 115/2002, debba essere accolta automaticamente a prescindere dai requisiti reddituali dell'istante.

Al cospetto di decisioni pienamente condivisibili e destinate ad essere accolte con favore pressoché unanime da operatori e interpreti del diritto, siano consentite due chiose sui due livelli estremi della giustizia penale che la sentenza annotata dà occasione di scrutare: il piano della politica criminale e il piano della prassi quotidiana degli uffici giudiziari.

Muovendo dalla base, non può tacersi come la presente questione di legittimità riproponga il tema della discrezionalità nella delibazione delle istanze di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, molto sentito da parte magistratura ordinaria, talvolta financo da far registrare all'interno di uno stesso Tribunale orientamenti difformi opportunamente ricondotti a unità sulla scorta di c.d. “protocolli d'intesa”. Il variegato panorama di pedanti vademecum e fac simile adottati d'intesa, per l'appunto, con i consigli dell'ordine e le associazioni forensi locali, dà il polso dell'ineludibile e però insostenibile appesantimento burocratico di un istituto dal nobilissimo scopo.

Non competeva alla Consulta affrontare un ulteriore aspetto sotteso alla questione di legittimità, ossia il contenuto dell'istanza di ammissione al patrocinio a spese dello Stato disciplinato dall'art. 79 del T.U. in materia di spese di giustizia, ma è di tutta evidenza che anche tale norma risulta interessata indirettamente dalla pronuncia annotata. La disposizione di cui all'art. 79D.P.R. n. 115/2002 prevede, infatti, che l'istanza di ammissione contenga a pena di inammissibilità, inter alios, la c.d. autocertificazione attestante la sussistenza delle condizioni di reddito previste per l'ammissione, con specifica determinazione del reddito complessivo valutabile a tali fini, determinato secondo le modalità indicate nell'articolo 76; nonché l'impegno a comunicare, fino a che il processo non sia definito, le variazioni rilevanti dei limiti di reddito, verificatesi nell'anno precedente, entro trenta giorni dalla scadenza del termine di un anno, dalla data di presentazione dell'istanza o della eventuale precedente comunicazione di variazione.

Si ritiene però che, alla luce della portata della sentenza che avalla l'ammissione automatica al beneficio della “vittima vulnerabile”, indipendentemente dal reddito vantato, debba trarsi un temperamento dell'inammissibilità dell'istanza sancita dall'art. 79 D.P.R. n. 115/2002. L'interpretazione costituzionalmente orientata e sistematica di tale norma imporrà al giudice di non dichiarare inammissibili quelle istanze, presentate dalle persone offese nei procedimenti indicati dal precedente art. 76 comma 4-ter, che difettino dei contenuti di cui alle lett. c) e d). In altre parole, non potrà pretendersi che la vittima di reati sessuali dichiari il proprio reddito o, come accaduto nel caso da cui è originata la questione di legittimità costituzionale, che sia chiamata a integrare l'istanza già presentata perché non contenente l'autocertificazione sul reddito complessivo e l'impegno a comunicare le successive variazioni rilevanti.

Quelli che appaiono aspetti marginali, concorrono invero a costellare di adempimenti l'accesso alla giustizia da parte delle vittime di reati particolarmente odiosi e non potrà farsi a meno di tenere a mente l'effetto deleterio che può avere sull'emersione dei delitti e sulla partecipazione attiva nel procedimento da parte della persona offesa la percezione di essere tenuta a oneri defatiganti.

Il sostegno alla vittima del reato è espressamente menzionato dalla Corte costituzionale nell'enunciazione della ratio della norma impugnata e del più vasto disegno di politica criminale in cui essa si inserisce.

A tal proposito e venendo al profilo più alto della tematica, si nota che la voluntas legis tesa all'azione di supporto vittima è illustrata dalla Consulta mediante il richiamo al preambolo del dl. n. 11/2009 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, nella l. n. 38/ 2009, che pone «la straordinaria necessità ed urgenza di introdurre misure per assicurare una maggiore tutela della sicurezza della collettività, a fronte dell'allarmante crescita degli episodi collegati alla violenza sessuale, attraverso un sistema di norme finalizzate al contrasto di tali fenomeni e ad una più concreta tutela delle vittime dei suddetti reati». Non diverse sono le considerazioni sviluppate nel preambolo del dl. n. 93/2013, parimenti richiamato in sentenza: «Ritenuto che il susseguirsi di eventi di gravissima efferatezza in danno di donne e il conseguente allarme sociale che ne è derivato rendono necessari interventi urgenti volti a inasprire, per finalità dissuasive, il trattamento punitivo degli autori di tali fatti, introducendo, in determinati casi, misure di prevenzione finalizzate alla anticipata tutela delle donne e di ogni vittima di violenza domestica; considerato, altresì, necessario affiancare con urgenza ai predetti interventi misure di carattere preventivo da realizzare mediante la predisposizione di un piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere, che contenga azioni strutturate e condivise, in ambito sociale, educativo, formativo e informativo per garantire una maggiore e piena tutela alle vittime».

A prima impressione parrebbe quindi che una materia tanto delicata e socialmente rilevante sia affidata solamente alla decretazione di urgenza. Se è pur vero che troppo di frequente importanti novità normative sono introdotte nell'ordinamento per il tramite di decreti legge, nel caso di specie, sarebbe stato auspicabile che la Corte Costituzionale avesse fatto cenno altresì a testi normativi di maggiore caratura, non foss'altro per la loro matrice istituzionale, aventi ad oggetto la tutela delle vittime ed in particolare di quelle particolarmente vulnerabili. Ciò non per bisogno di accrescere la correttezza della decisione assunta, bensì per segnare con maggior risalto quel «grande spazio a provvedimenti e misure tesi a garantire una risposta più efficace verso i reati contro la libertà e l'autodeterminazione sessuale» che la stessa Corte riconosce abbia finalmente trovato luogo nel nostro ordinamento. Il fenomeno è tristemente universale e pertanto è doveroso sottolineare che la «maggiore sensibilità culturale e giuridica in materia di violenza contro le donne e i minori» ha trovato sbocco a livello internazionale e sovranazionale e che l'Italia non è rimasta sorda alla pressante esigenza di intervenire a livello legislativo. Il percorso non è ancora concluso ma va dato atto del tragitto compiuto ed allora non ci si può esimere dall'annoverare: la Convenzione del Consiglio d'Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, meglio nota come Convenzione di Istanbul, la cui ratifica è stata autorizzata nel nostro Paese con Legge n. 77/2013 e cui, peraltro, fa riferimento la relazione illustrativa al dl. n. 93/2013 ricordato dalla Consulta; la direttiva 2012/29/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2012, che istituisce norme minime in materia di diritti, assistenza e protezione delle vittime di reato, attuata con d.lgs. n. 212/2015; la Convenzione del Consiglio d'Europa per la protezione dei minori contro lo sfruttamento e l'abuso sessuale, fatta a Lanzarote il 25 ottobre 2007, ratificata ed eseguita con l. n.172/2012.

Guida all'approfondimento

Giuseppe Marino, Reati sessuali e ammissione automatica al gratuito patrocinio. Quando il reddito non conta, in Diritto & Giustizia, fasc.6, 2021, pag. 6;

Laura Dipaola, Osservazioni a Cassazione penale, 15 febbraio 2017, n.13497, sez. IV, in CP, 2017, pag. 2844;

Claudia Pecorella, Violenza di genere e sistema penale, in DPP, 2019, 1181.

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