Rilevanza penale delle condotte di mobbing e configurabilità dello stalking in ambito lavorativo
15 Marzo 2021
Massima
Nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell'alveo precettivo di cui all'art. 612-bis c.p. (Atti persecutori) laddove quella "mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro", elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice. Il caso
Il Tribunale del riesame, in riforma dell'ordinanza del Gip, impugnata dal Pubblico ministero, applicava al datore di lavoro la misura cautelare degli arresti domiciliari per il reato di cui all'art. 612-bis c.p. in riferimento ad una pluralità di condotte persecutorie culminate in un licenziamento ritorsivo, poste in essere dallo stesso, nella sua qualità di amministratore delegato della società, in danno di una dipendente.
Avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame ha proposto ricorso per cassazione il datore di lavoro.
Tra i vari motivi di censura, in particolare, il ricorrente evidenzia come il Tribunale del riesame abbia ribaltato la decisione del Gip, sovrapponendo il mobbing allo stalking occupazionale, in violazione degli artt. 612-bis c.p. e 2087 c.c., pur non esplicandosi la condotta contestata nella vita privata della persona offesa, ma esaurendosi esclusivamente nell'ambito del rapporto di lavoro.
Il caso in esame, partendo dalla rilevanza penale delle condotte di mobbing, affronta il delicato tema della configurabilità del reato di stalking nel rapporto di lavoro.
Secondo il prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, per mobbing si intende una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico ed il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (Cass., sez. lav., ord. n. 24883/2019).
Dunque, il mobbing lavorativo si configura ove ricorra l'elemento obiettivo, integrato da una pluralità di comportamenti vessatori del datore di lavoro, e quello soggettivo dell'intendimento persecutorio del datore medesimo (Cass., sez. lav., n. 12437 del 21.05.2018) che unifica la condotta, unitariamente considerata.
Al riguardo, preme evidenziare che tale finalità svolge una peculiare funzione selettiva, in quanto, ai fini della configurabilità del mobbing, l'accertata esistenza di plurime condotte datoriali illegittime non è condizione sufficiente, essendo necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass., sez. lav., n. 10992 del 9 giugno 2020, nn. 4222/2016, 12437/2018, 26684/2017).
In tal senso, il mobbing può definirsi come la "mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro".
Nel percorso argomentativo finalizzato a dimostrare la rilevanza penale delle condotte di mobbing, e l'applicabilità al caso concreto della disciplina dell'art. 612-bis c.p., la Suprema Corte ha affermato come le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore e finalizzate alla sua emarginazione possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia, qualora il rapporto tra datore di lavoro e dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (Cass., n. 14754 del 2018, n. 28603 del 2013, n. 13088 del 2014, n. 24057 del 2014, n. 24642 del 2014).
Nello stesso senso, valorizzando il piano della relazione verticale tra le parti, la giurisprudenza di legittimità ha precisato come, in tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, configura il reato di cui all'art. 571 c.p. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell'esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l'uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all'art. 572 c.p. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall'esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l'efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (Cass., sez. VI, n. 51591 del 28 settembre 2016, n. 10090 del 2001).
In proposito, è stato evidenziato il profilo di abuso degli obblighi di protezione che caratterizzano tanto il rapporto di lavoro subordinato, dalla parte datoriale, che i vincoli lato sensu (para)familiari, in un'ottica volta a verificare la lesione all'integrità fisica, che ha sciolto l'alternativa tra la qualificazione del fatto ai sensi dell'art. 582 o degli artt. 571 e 572 c.p., limitando l'indagine al bene-interesse della salute del lavoratore (Cass., sez. V, n. 33624 del 9 luglio 2007).
Si tratta di una visione incentrata sulla tutela dell'integrità psico-fisica del lavoratore, che insiste sulla connotazione del fenomeno del mobbing in termini di mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima, preordinati a mortificare e ad isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro. Dunque, una visione che non esclude ma, anzi, conferma la riconducibilità dei fatti vessatori alla norma incriminatrice di cui all'art. 612-bis c.p., ove ricorrano gli elementi costituivi di siffatta fattispecie e, in particolare, la causazione di uno degli eventi ivi declinati. Le soluzioni giuridiche
Ciò posto, mette conto evidenziare che il delitto di atti persecutori, quale reato abituale e di danno, è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell'evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, sicché ciò che rileva è l'identificabilità di questi quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione di uno degli eventi, alternativamente previsti dalla norma incriminatrice (Cass., sez. V, n. 7899 del 14 gennaio 2019), che condividono il medesimo nucleo essenziale, rappresentato dallo stato di prostrazione psicologica della vittima delle condotte persecutorie (Cass., sez. V, n. 11931 del 28 gennaio 2020).
Al riguardo, la Suprema Corte, osservando come tale nucleo essenziale qualifica giuridicamente la condotta che può esplicarsi con modalità atipica, in qualsivoglia ambito della vita, purché idonea a ledere il bene interesse tutelato, e dunque la libertà morale della persona offesa, all'esito della verifica causale, afferma che il contesto entro il quale si situa la condotta persecutoria è del tutto irrilevante, quando la stessa abbia causato un vulnus alla libera autodeterminazione della persona offesa, determinando uno degli eventi previsti dall'art. 612-bis c.p. Ed assume mero contenuto descrittivo, che registra ma non limita la varietà degli ambiti fenomenologici, il riferimento a diverse declinazioni del reato, correlate a specifiche "ambientazioni" (cd. stalking condominiale, giudiziario...).
Ne consegue che nessuna obiezione sussiste, in astratto, alla riconduzione delle condotte di mobbing nell'alveo precettivo di cui all'art. 612-bis c.p. laddove quella "mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti, convergenti nell'esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell'ambiente di lavoro", elaborata dalla giurisprudenza civile come essenza del fenomeno, sia idonea a cagionare uno degli eventi delineati dalla norma incriminatrice.
In considerazione di quanto esposto, la Suprema Corte ritiene il ricorso complessivamente infondato, rilevando, in particolare, l'infondatezza del rilievo volto a ritagliare una sorta di zona franca dalla ravvisabilità dello stalking in ambito lavorativo, che ignora in toto la verifica causale e la natura di danno della fattispecie e che, peraltro, prospetta una visione atomistica della libertà morale, oggetto di tutela, limitandola nei diversi settori della vita in cui si esplica la personalità individuale.
Inoltre, la Cassazione evidenzia come l'ordinanza impugnata abbia ampiamente rassegnato i plurimi atti vessatori a cui è rimasta esposta la persona offesa, culminati in un licenziamento pretestuoso e ritorsivo, enucleandone - con argomentazione corretta in diritto e del tutto razionalmente giustificata - i tratti essenziali del reato in considerazione delle comprovate conseguenze (stato d'ansia e di paura; modifica delle abitudini di vita), in piena conformità allo standard per cui, in tema di appello cautelare, il tribunale della libertà, che accoglie l'appello del pubblico ministero avverso decisione di rigetto della misura cautelare del giudice per le indagini preliminari, seppure non è tenuto ad una motivazione rafforzata, necessaria solo in sede di giudizio quando viene riformata una sentenza assolutoria, deve comunque procedere ad una verifica, sia pure implicita, degli argomenti a sostegno della decisione impugnata, se interferenti con i presupposti della divergente valutazione adottata in sede di appello, configurandosi altrimenti un vizio della motivazione (Cass., sez. V, n. 10995 del 12 dicembre 2019).
Osservazioni
In conclusione, sembra interessante osservare come nell'ambito della tutela all'integrità psico-fisica del lavoratore assumano rilevanza anche le condotte di straining, affini ma differenti rispetto a quelle del mobbing.
Invero, alla luce dell'art. 2087 c.c., che funge da norma di chiusura del sistema antinfortunistico e risulta suscettibile di una interpretazione estensiva in ragione del rilievo costituzionale del diritto alla salute, da un lato, e dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto lavorativo, dall'altro, il datore di lavoro è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" (cd. straining). Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha precisato che il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di mobbing, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno (Cass., sez. lav., ord. n. 24883 del 4 ottobre 2019).
Da ultimo, merita osservare che per quanto concerne la ripartizione dell'onere probatorio, grava sul lavoratore che, in un giudizio dinanzi al giudice del lavoro, lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (Cass. n. 26495 del 19 ottobre 2018). |