Il licenziamento ritorsivo del dirigente e l'accertamento della natura simulata del rapporto di lavoro dirigenziale

Annachiara Lanzara
15 Marzo 2021

Ai fini dell'accertamento della natura ritorsiva del licenziamento del dirigente, è necessario che il Giudice accerti in via preliminare l'effettiva sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro di natura dirigenziale, sicché su colui che agisce in giudizio incombe l'onere di provare l´effettivo svolgimento delle mansioni di dirigente...

Ai fini dell'accertamento della natura ritorsiva del licenziamento del dirigente, è necessario che il Giudice accerti in via preliminare l'effettiva sussistenza tra le parti di un rapporto di lavoro di natura dirigenziale, sicché su colui che agisce in giudizio incombe l'onere di provare l'effettivo svolgimento delle mansioni di dirigente, diverse da quelle proprie della carica sociale al contempo rivestita, oltre che l'effettiva sussistenza di un vero e proprio vincolo di subordinazione al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società.

Ne consegue che ove mai si rinvenisse una sostanziale coincidenza di attribuzioni, nell'espletamento dei ruoli di dirigente e di amministratore, in assenza di alcuna prova circa l'effettiva sottordinazione del dirigente alle direttive del CdA, nessun rapporto di lavoro subordinato di natura dirigenziale potrebbe essere riconosciuto, dovendosi qualificare il vincolo intercorrente tra le parti quale mero controllo e non effettiva subordinazione, con conseguente rigetto della domanda finalizzata all'accertamento della natura subordinata del rapporto e, di conseguenza, della domanda volta a far dichiarare illegittimo il licenziamento comminato ai danni del dirigente, sull'assunto della natura simulata del rapporto di lavoro subordinato tra società e dirigente, asseritamente sussistente.

Il caso

Il ricorrente agiva in giudizio ex art. 1, comma 47 ss., l. n. 92/2012, al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento comminatogli dalla convenuta, poiché asseritamente ritorsivo, in quanto irrogato in conseguenza di critiche espresse in danno di altri membri dell'organo amministrativo della società.

Nel dettaglio, il ricorrente stipulava con la convenuta un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, a mezzo del quale assumeva la qualifica dirigenziale e con cui gli venivano assegnate funzioni di coordinamento dei vari uffici, la gestione dei flussi informativi aziendali, oltre che la programmazione e la pianificazione dell'attività commerciale dell'azienda.

Contestualmente, le parti stipulavano un contratto di “management agreement e opzione di acquisti di partecipazioni”, con cui regolavano i reciproci impegni inerenti al ruolo di AD che il ricorrente avrebbe assunto all'interno della società convenuta. A mezzo di tale secondo contratto, le parti stabilivano altresì che al ricorrente sarebbero spettate, per un arco temporale pari a 10 anni – in qualità anche di componente del CdA – la direzione ed il coordinamento di tutte le funzioni aziendali.

Nei giorni immediatamente successivi all'inizio di efficacia del contratto di lavoro subordinato, al ricorrente venivano assegnate funzioni procuratorie con riguardo ad una pluralità di aree aziendali, assegnazione questa che determinava una evidente esorbitanza delle deleghe rispetto allo stretto ambito commerciale indicato nel contratto di lavoro subordinato.

Con successivo accordo, le parti programmavano di risolvere il rapporto di lavoro subordinato e, prevedendo un trattamento economico di miglior favore per il ricorrente, consolidavano il ruolo di amministratore delegato dello stesso.

Nelle more dell'elaborazione di un nuovo accordo, la società consegnava al ricorrente una lettera di licenziamento (per GMO), motivato dalla necessità di riorganizzazione aziendale, stante la soppressione del suo posto di lavoro e l'attribuzione delle relative funzioni al vicepresidente del CdA.

Assumendo di essere stato illegittimamente licenziato, per ragioni ritorsive, in conseguenza dell'invio di un report aziendale sul conto di altri amministratori, poco gradito ai medesimi, il ricorrente agiva in giudizio al fine di ottenere, con riferimento alla propria posizione di lavoratore subordinato, la tutela di cui all'art. 18 commi 1-3, ovvero in subordine l'affermazione dell'ingiustificatezza del licenziamento e tutto quanto da ciò sarebbe dovuto conseguire in termini risarcitori.

Resisteva in giudizio la convenuta, contestando la fondatezza delle pretese attoree, oltre che l'efficacia tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato.

La questione

Il caso in esame consente di affrontare la delicata tematica concernente la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato dirigenziale nei confronti di un componente del consiglio di amministrazione di una società per azioni che abbia anche assunto le funzioni di CEO. Tale configurabilità costituisce, infatti il presupposto per valutare la legittimità del licenziamento irrogato al ricorrente e quindi la sussistenza, o meno, di un intento ritorsivo.

Ed infatti la quaestio iuris sottoposta all'attenzione del Giudice adito nell'ordinanza in commento, relativa appunto al tema della illegittimità del recesso datoriale del dirigente d'azienda, si intreccia con quella relativa all'accertamento della effettiva sussistenza del rapporto di lavoro subordinato di natura dirigenziale tra le parti in causa, in ragione della presunta nullità del medesimo, poiché oggettivamente simulato ai sensi dell'art. 1414 c.c.

Ciò premesso, al fine di affrontare al meglio la questione giuridica e di analizzare le soluzioni proposte nell'ordinanza in commento, al fine di maggiore chiarezza, pare doveroso premettere brevi cenni sulle peculiarità che caratterizzano il rapporto di lavoro del dirigente d'azienda.

Come noto, il Legislatore riserva al lavoratore con qualifica dirigenziale un trattamento specifico rispetto a qualsiasi altro lavoratore subordinato (quadro, impiegato od operaio), in ragione dei ruoli e delle mansioni che ciascun dirigente è chiamato ad esercitare nel contesto aziendale in cui opera, nonché delle prerogative e dei compiti che al medesimo vengono attribuiti.

Nel dettaglio, il dirigente d'azienda è colui che esercita un ampio potere di determinazione delle scelte operative aziendali e che opera in condizione di sostanziale autonomia, tanto da essere definito quale “alter ego” dell'imprenditore. E difatti, la qualifica dirigenziale viene attribuita esclusivamente in favore del prestatore di lavoro che, essendo preposto alla direzione dell'organizzazione aziendale, imprime un orientamento al governo complessivo dell'azienda, sottostando alle sole direttive di carattere programmatico impartite in via generale dal datore di lavoro.

Pur non essendovi una nozione legale di dirigente, la giurisprudenza individua come tratti distintivi della categoria de qua una serie di elementi, quali la collaborazione diretta con l'imprenditore per il coordinamento d'azienda, la piena autonomia nell'attività direttiva, la supremazia gerarchica sul personale d'azienda o su un ramo importante della stessa, oltre che la subordinazione esclusiva all'imprenditore o a un dirigente superiore (Corte cost., n. 121/1972; Corte di cassazione n. 13191/2003).

In ragione dei compiti dallo stesso espletati, il dirigente è legato al datore di lavoro da un rapporto spiccatamente fiduciario che, in ragione appunto della forte intensità del vincolo, rischia di essere leso anche per fatti e comportamenti che in genere non determinerebbero il licenziamento di altri dipendenti. Ed è proprio in relazione a tale profilo – quello concernente appunto la disciplina della cessazione del rapporto di lavoro del dirigente - che emerge con evidenza la peculiarità di tale figura.

Per ciò che concerne tale aspetto, va detto innanzitutto che il recesso dal rapporto dirigenziale è regolamentato dagli artt. 2118 e 2119 c.c.. Alla stregua di quanto sancito nei summenzionati articoli ciascuno dei contraenti può recedere rispettando i termini di preavviso o, se il contratto è a tempo indeterminato, senza alcun preavviso, in presenza di una causa che non consente la prosecuzione tantomeno temporanea del rapporto di lavoro.

E, dunque, mentre per i quadri, gli impiegati e gli operai, il licenziamento è legittimo allorquando si rinvenga l'effettiva sussistenza di una giusta causa o di un giustificato motivo soggettivo o oggettivo, per ciò che concerne il rapporto di lavoro dirigenziale, è previsto – quantomeno in via teorica – un regime di libera recedibilità dal rapporto in essere tra le parti.

La ratio di tale posizione legislativa è chiaramente rinvenibile nel fatto che il dirigente rappresenta l'alter ego dell'imprenditore, ragion per cui il rapporto di lavoro del medesimo è caratterizzato da un notevole grado di fiducia che permea del carattere di specialità questo rapporto rispetto agli altri.

Ciò premesso, deve precisarsi che la disciplina del licenziamento del dirigente è stata oggetto di deroghe ad opera della contrattazione collettiva. Le parti sociali, infatti, sono intervenute introducendo nella disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale delle disposizioni collettive che hanno inciso - limitandone notevolmente la portata - sulla libera recedibilità del datore di lavoro, sia attraverso l'introduzione di un obbligo di giustificazione, che mediante il riconoscimento del diritto in capo al dirigente a vedersi corrispondere un'indennità risarcitoria (c.d. indennità supplementare) per i danni subiti in mancanza di adeguata giustificazione del recesso.

L'intervento delle parti sociali è avvenuto in piena aderenza col principio di diritto, divenuto oramai granitico, affermato dalla Suprema Corte, per cui l'autonomia privata collettiva gode del pieno potere di imporre limiti alla facoltà di recesso del datore di lavoro anche mediante “clausole o concetti generali per disciplinare l'ipotesi del licenziamento ingiustificato, anche senza specificarla in una casistica dettagliata o in una definizione particolareggiata” (ex multiis: Cass. n. 5709/1999).

Ed è proprio in ossequio a tale regula iuris che le parti sociali hanno introdotto il canone della giustificatezza del licenziamento del dirigente, quale fattore scriminante ai fini della legittimità dell'esercizio del potere di recesso datoriale, nell'intento di scongiurare qualsivoglia forma di arbitrarietà nelle scelte imprenditoriali a danno dei prestatori di lavoro.

Le soluzioni giuridiche

Nella vicenda sottoposta al vaglio del Giudice estensore dell'ordinanza in commento, emergono – come premesso – la questione giuridica concernente la legittimità (ed in subordine la giustificatezza) del licenziamento del dirigente e la questione ad essa sottesa della natura simulata del rapporto di lavoro subordinato in essere tra il dirigente e la società convenuta.

Invero, con riferimento alla prima delle questioni enucleate, si ribadisce che – come già anticipato – la specialità della disciplina del licenziamento del dirigente, postula che per poter considerare legittimo il recesso datoriale nei confronti del dirigente, non è necessario che la decisione aziendale venga ricondotta nell'alveo della giusta causa o del giustificato motivo, oggettivo o soggettivo, ben dovendo tale scelta essere invece sussunta nel canone di giustificatezza del recesso azionato.

Costituisce infatti principio consolidato in giurisprudenza quello per cui fatti o condotte non integranti una giusta causa o un giustificato motivo di licenziamento per i generali rapporti di lavoro subordinato, ben possono giustificare il licenziamento del dirigente, alla luce del criterio per cui maggiori poteri presuppongono una maggiore intensità del vincolo fiduciario e uno spettro più ampio di fatti idonei a scuoterla (ex multiis: Cass n. 6950/2019).

Alla stregua di tale principio di diritto è dunque ben evidente che ai fini della giustificatezza del licenziamento del dirigente, rileva qualsiasi motivo, apprezzabile sul piano del diritto, che sia idoneo non solo a turbare di fatto il vincolo fiduciario sussistente tra datore e dirigente, specialmente in ragione dell'ampiezza dei poteri attribuiti a quest'ultimo, ma anche ad escludere ogni ipotesi di arbitrarietà del recesso datoriale (cfr: Cass. n. 27971/2018).

E difatti, proprio in ragione del particolare ruolo assunto dal dirigente d'azienda, il rapporto fiduciario potrebbe considerarsi leso per una vasta gamma di fattori, tendenzialmente inidonei a fondare, secondo le comuni norme in tema di licenziamento, giusta causa o giustificato motivo di recesso, quali l'inadeguatezza del dirigente rispetto alle aspettative ed agli obiettivi fissati dal datore di lavoro o il verificarsi di un comportamento extra lavorativo idoneo ad incidere in termini negativi sull'immagine dell'azienda (stante la posizione apicale assunta dal dirigente) (Cass n. 2205/2016).

Venendo al caso di specie, il rapporto lavorativo cessava per l'effetto della consegna di una missiva con cui la società convenuta comminava il licenziamento (per motivi oggettivi) al ricorrente, divenuto inevitabile a seguito della riorganizzazione aziendale, al termine della quale era stato soppresso il posto di lavoro del ricorrente e le mansioni allo stesso in precedenza attribuite erano confluite in quelle proprie del vicepresidente del CdA.

Posta la peculiarità della disciplina del recesso dal rapporto di lavoro del dirigente, così come correttamente valutata nell'esame della vicenda oggetto di giudizio dal Giudice adito, deve precisarsi che lo stesso, al fine di decidere adeguatamente la causa sottoposta al suo vaglio, ha dovuto analizzare una rilevantissima questio iuris, prodromica per così dire rispetto alla stessa applicazione in via pratica dei principi di diritto e giurisprudenziali finora correttamente illustrati in punto di licenziamento del dirigente d'azienda.

La società convenuta, infatti, nella propria memoria difensiva, eccepiva, in via pregiudiziale, la natura simulata del rapporto de quo, illustrando come le parti avessero in realtà inteso instaurare un rapporto tale da consentire al ricorrente di svolgere le funzioni di amministratore delegato e con ciò di assumere la direzione dell'azienda e di avere quindi instaurato un doppio rapporto di lavoro/collaborazione, al solo fine di consentire al ricorrente di godere di alcuni benefici, tra i quali una posizione di carattere previdenziale. In via subordinata, la convenuta evidenziava inoltre l'incompatibilità tra la posizione di amministratore delegato e di lavoratore subordinato.

Il Giudice adito, sulla base dell'attività istruttoria svolta nel pieno esercizio dei propri poteri, rilevava l'infondatezza della domanda del ricorrente, accogliendo pienamente la difesa eccepita in via pregiudiziale dalla convenuta.

Nel dettaglio, il Giudicante riteneva che la reale intenzione delle parti fosse solo quella di instaurare un mero rapporto di collaborazione, mediante il quale assegnare al ricorrente le funzioni di amministratore delegato della convenuta, funzioni e poteri da subito conferiti al ricorrente.

A sostegno della propria decisione il Giudice adito teneva conto di una serie di fattori, tra cui le risultanze della prova testimoniale esperita, da cui emergeva l'effettivo interesse delle parti a stipulare un mero rapporto di collaborazione, tale per cui al ricorrente sarebbe stata riconosciuta la sola qualifica di AD, nonché l'esplicita richiesta del ricorrente di stipulare anche un contratto di lavoro subordinato, al solo fine di godere dei benefici di carattere previdenziale.

A suffragio di quanto emerso dall'escussione dei testi, militavano numerosi dati indiziari (tra cui, l'ampiezza di poteri attribuiti al ricorrente anche allorquando era solo un dirigente) che indicavano appunto come tra le parti vi fosse intesa circa l'attribuzione al medesimo delle più elevate funzioni di vertice dell'organo amministrativo della società e di come, pertanto, il reale intento fosse solo quello di attribuire al ricorrente il ruolo di AD.

Pertanto, alla luce di tutto quanto detto e sulla base dei dati sinora indicati, il Giudicante rigettava la tesi attorea avendo escluso, in relazione all´articolazione dei poteri conferiti al ricorrente, la configurabilità della subordinazione. Ciò sul decisivo rilievo che non era stata fornita la prova, da parte del ricorrente, “della effettiva attribuzione a sè, quale dirigente, di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita oltre alla sussistenza … omissis … di un vero e proprio vincolo di sottordinazione al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell'organo di amministrazione della società”.

Sul punto, pare opportuno aprire una breve parentesi in punto di valore dimostrativo della testimonianza resa a fini decisori, posto che, come costante giurisprudenza vuole, le limitazioni della prova nella simulazione del contratto tra le parti non operano nel rito del lavoro e, nello specifico, nel contesto procedurale dal ricorrente prescelto, alla luce di quanto previsto dall'art. 421, comma 2, c.p.c., per cui è pacifico che la simulazione possa essere provata senza i rigorosi limiti imposti dall'art. 1417 c.c.

Tanto è indiscusso alla luce dell'oramai ben consolidato principio di diritto fissato sul punto dalla Suprema Corte, per cui: “Il principio per cui, nelle controversie assoggettate al rito del lavoro, ai sensi dell'art. 421 c.p.c. sono ammesse le prove anche al di fuori dei limiti stabiliti dagli artt. 2721, 2722 e 2723 c.c., nonché, in tema di simulazione, dall'art. 1417 c.c., si applica anche alle presunzioni, le quali, a norma dell'art. 2729 cod. civ., incontrano gli stessi limiti previsti per la prova per testi”.(Cass., sez. lav., n. 6828 del 16 giugno 1995).

Pertanto, alla luce di tutto quanto detto, ritenendo provata la natura simulata del rapporto di lavoro subordinato a carattere dirigenziale tra le parti in causa, il Giudice adito accoglieva la difesa eccepita in via pregiudiziale dalla convenuta e concludeva per l'insussistenza di un rapporto di lavoro di natura dirigenziale. In ragione di ciò, in alcun caso avrebbe potuto trovare applicazione la tutela invocata dal ricorrente a fronte della presunta illegittimità del recesso datoriale, poiché ritorsivo, stante l'evidente insussistenza, a monte, del rapporto di lavoro da cui la tutela invocata avrebbe effettivamente dovuto trovare ragione d'operare.

Osservazioni

Tirando le fila del discorso, alla luce di quanto finora rassegnato, deve affermarsi che la figura del dirigente d'azienda presenta delle caratteristiche tali da legittimare il licenziamento del medesimo anche in presenza di circostanze fattuali dalle quali – nei tradizionali rapporti di lavoro – non scaturirebbe il recesso del datore di lavoro.

Tanto si verifica, come si è avuto modo di approfondire in precedenza, in ragione del carattere spiccatamente fiduciario che connota il vincolo sussistente tra datore di lavoro e dirigente d'azienda, proprio in ragione dei maggiori poteri e quindi delle maggiori responsabilità che allo stesso vengono conferiti.

In buona sostanza, si è avuto modo di vedere che ai fini della legittimità del licenziamento del dirigente, è sufficiente che la decisione datoriale non sia arbitraria, ma che trovi fondamento in una condotta – anche meramente arbitraria rispetto alle aspettative del datore di lavoro – in astratto sussumibile nel canone della giustificatezza, appositamente introdotto in sede di contrattazione collettiva dalle parti sociali.

Nella vicenda oggetto del presente giudizio, la valutazione concernente la illegittimità del recesso datoriale, ai danni del dirigente, cede però il passo all'analisi di una differente quaestio iuris che, per ragioni logiche, si pone in termini pregiudiziali rispetto ai profili di tutela del licenziamento ritorsivo.

Nel caso di specie, infatti, il Giudice adito non scende ad esaminare nel merito l'effettiva legittimità del recesso datoriale, poiché ritiene – anche alla luce dell'istruttoria espletata – di fatto insussistente e quindi nullo, in quanto simulato ex art. 1414 c.c., il rapporto di lavoro del dirigente d'azienda, rinvenendo la realis intentio delle parti nella sola volontà di costituire un rapporto di collaborazione, a mezzo del quale il ricorrente avrebbe potuto esercitare il proprio ruolo di amministratore delegato, diversamente servendo il contratto di lavoro subordinato stipulato tra le parti al solo fine di garantire al ricorrente il godimento dei benefici di carattere previdenziale ai quali altrimenti non avrebbe avuto acceso.

In conclusione, non avendo il ricorrente dimostrato l'effettiva volontà delle parti di costituire un rapporto di lavoro subordinato di natura dirigenziale, né avendo offerto benchè minima prova della sussistenza del medesimo e tenuto conto dei numerosi dati indiziari valutati in sede istruttoria, nonché delle risultanze emerse dalla prova testimoniale esperita - in relazione alla quale, si ricorda, non operano i limiti della prova della simulazione ex art. 1417 c.c., in ragione del disposto di cui all'art. 421, comma 2, - alcun rapporto di lavoro è stato ritenuto sussistente tra le parti ed alcuna tutela è stata riconosciuta per il presunto recesso illegittimo del datore dal rapporto di lavoro dirigenziale, di fatto dimostratosi mai venuto ad esistenza.

Guida all'approfondimento

- Persiani M., Fondamenti di diritto del lavoro, Padova, 2015;

- Pessi R., Lezioni di diritto del lavoro, Torino, 2018.