Le incerte sorti dei crediti della società estinta

15 Marzo 2021

La remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco; un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcuna altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione.
Massima

La remissione del debito, quale causa di estinzione delle obbligazioni, esige che la volontà abdicativa del creditore sia espressa in modo inequivoco; un comportamento tacito, pertanto, può ritenersi indice della volontà del creditore di rinunciare al proprio credito solo quando non possa avere alcuna altra giustificazione razionale, se non quella di rimettere al debitore la sua obbligazione. Ne consegue che i crediti di una società commerciale estinta non possono ritenersi rinunciati per il solo fatto che non siano stati evidenziati nel bilancio finale di liquidazione, a meno che tale omissione non sia accompagnata da ulteriori circostanze tali da non consentire dubbi sul fatto che l'omessa appostazione in bilancio altra causa non potesse avere, se non la volontà della società di rinunciare a quel credito.

Il caso

I soci di una società a responsabilità limitata che era stata cancellata dal registro delle imprese quando era ancora pendente il giudizio che la stessa aveva promosso per ottenere la risoluzione del contratto di acquisto di un autoveicolo rivelatosi difettoso, avvalendosi della sentenza – emessa all'esito di tale giudizio – che aveva stabilito l'obbligo di restituzione del prezzo a carico della società venditrice, notificavano a quest'ultima atto di precetto per il pagamento del relativo importo.

La società intimata proponeva opposizione al precetto, eccependo l'insussistenza del credito azionato dai soci, in quanto non era stato appostato nel bilancio finale di liquidazione e doveva, quindi, intendersi rinunciato.

L'opposizione veniva respinta in primo grado, ma reputata fondata in appello, con conseguente declaratoria dell'insussistenza del diritto dei soci di agire esecutivamente nei confronti della società intimata, giacché, come da questa prospettato, il mancato inserimento nel bilancio finale di liquidazione del credito restitutorio ancora sub iudice al momento della cancellazione della società dal registro delle imprese e di cui il liquidatore non poteva ignorare l'esistenza, dimostrava per fatti concludenti la volontà di rinunciarvi.

Le questioni giuridiche e la soluzione

Con l'ordinanza che si annota, la Corte di cassazione ha accolto il ricorso proposto dai soci avverso la sentenza che aveva negato la loro legittimazione ad agire esecutivamente in forza della sentenza che aveva accertato e liquidato il credito della società estintasi prima della conclusione del giudizio.

La motivazione posta a fondamento della decisione assunta si articola nei seguenti passaggi:

1) l'estinzione della società dà vita a un fenomeno successorio;

2) i residui attivi e le sopravvenienze attive possono trasferirsi ai soci, ovvero formare oggetto di rinuncia, anche per fatti concludenti;

3) la mancata appostazione di un credito nel bilancio finale di liquidazione, tuttavia, non costituisce circostanza che depone in modo chiaro e univoco per una volontà abdicativa, se non è accompagnata da altri elementi dai quali emerga l'effettiva intenzione di rimettere il debito.

Osservazioni

Nella vita l'unica cosa certa è la morte, cioè l'unica cosa di cui non si può sapere nulla con certezza.

L'aforisma del filosofo esistenzialista Kierkegaard calza a pennello per descrivere i tormenti che attanagliano i giuristi nell'individuare gli effetti che l'evento certo rappresentato dall'estinzione della società in conseguenza della sua cancellazione dal registro delle imprese, produce sulle posizioni attive che nella fase di liquidazione non hanno trovato compiuta sistemazione o, addirittura, risultano non essere state considerate tout court.

L'ordinanza che si annota si pone in perfetta continuità con il precedente intervenuto fra le stesse parti solo alcuni mesi prima (il riferimento è a Cass. civ., sez. III, 14 dicembre 2020, n. 28439: il motivo per cui, a distanza di così breve tempo, sulla stessa fattispecie sono state emesse due pronunce di legittimità risiede nel fatto che i soci della società estinta, in forza della medesima sentenza, avevano notificato alla controparte due atti di precetto, mentre è singolare che le opposizioni che la società intimata aveva proposto avverso entrambi i precetti siano state decise dallo stesso giudice d'appello in modo diametralmente opposto, ossia in senso favorevole ai soci intimanti nel primo caso e in senso a loro sfavorevole nel secondo) e testimonia, nel contempo, il progressivo consolidarsi di un orientamento innovativo circa la sorte delle poste attive dopo la cancellazione della società dal registro delle imprese.

Il tema dei rapporti originariamente facenti capo alla società estinta che non siano stati definiti nella fase della liquidazione è stato affrontato in modo sistematico da Cass. civ., sez. un., 12 marzo 2013, n. 6070, la quale ha evidenziato che la regola dettata dall'art. 2495 c.c. sottende un meccanismo di carattere successorio, in virtù del quale tanto i debiti e i residui attivi non liquidati, quanto le sopravvenienze attive si trasferiscono in capo ai soci: nel caso delle passività, con le limitazioni previste dalla norma, restando i soci responsabili fino a concorrenza di quanto abbiano riscosso all'esito del procedimento di liquidazione; nell'altro caso, venendosi a instaurare tra i soci un regime di contitolarità o di comunione indivisa.

Nell'ambito di questa ricostruzione, è stato pure evidenziato che, con riguardo alle pendenze non ancora definite, ma delle quali il liquidatore fosse stato a conoscenza, la decisione di estinguere comunque la società poteva essere considerata, quantomeno in via presuntiva, alla stregua di una tacita manifestazione di volontà di rinunciare alla pretesa, soprattutto nel caso in cui si fosse trattato di un credito litigioso e ancora illiquido: in questo senso, la scelta di non intraprendere ovvero di non coltivare le azioni volte ad accertare il credito o a farlo liquidare integrerebbe una univoca manifestazione della volontà di rinunciare a tale credito, onde privilegiare una più rapida conclusione del procedimento liquidatorio.

A questo fondamentale arresto hanno fatto seguito numerosi altri che, in dichiarata applicazione dei principi di diritto ivi enunciati, ne hanno delineato in modo piuttosto netto la portata (il riferimento è, tra le altre, alle pronunce di Cass. civ., sez. I, 24 dicembre 2015, n. 25974, di Cass. civ., sez. I, 15 novembre 2016, n. 23269 e di Cass. civ., sez. I, 19 luglio 2018, n. 19302), affermando che alla cancellazione della società dal registro delle imprese non segue l'automatica successione dei soci nella titolarità di crediti ancora incerti o illiquidi, i quali, ove non compresi nel bilancio finale di liquidazione, hanno da ritenersi rinunciati, dovendosi ciò fare discendere dalla decisione del liquidatore di non espletare le attività necessarie per il loro accertamento e la liquidazione.

Le stesse Sezioni Unite, nuovamente chiamate a confrontarsi con questo tema, hanno ribadito, con la sentenza n. 29108 del 18 dicembre 2020, che, in caso di estinzione della società, i singoli soci non sono legittimati a esercitare azioni giudiziarie che la stessa ha scelto di non esperire, ponendo in essere un comportamento – con lo scioglimento e la cancellazione dal registro delle imprese – inequivocabilmente inteso a rinunciare a quelle azioni e determinando, così, il venire meno dell'oggetto di una trasmissione successoria ai soci; a condizione, peraltro, che, al momento della cancellazione, vi fosse (o vi potesse essere, con l'uso dell'ordinaria diligenza) la consapevolezza dell'esistenza del diritto, non potendo la presunzione della volontà dismissiva prescindere dalla conoscenza o dalla conoscibilità del diritto rinunciato.

Ciononostante, è recentemente emerso un altro orientamento che, assumendo come la successione dei soci nei residui attivi (così come in quelli passivi) rappresenti la regola, ha avvertito l'esigenza di perimetrare in maniera più compiuta l'eccezione, costituita dalla non sopravvivenza dei crediti controversi e delle mere pretese.

Così, è stato posto in evidenza che la manifestazione tacita della volontà di rinuncia può agevolmente ravvisarsi solo in quelle situazioni nelle quali non è possibile individuare con sicurezza, nel patrimonio sociale, un diritto o un bene definito, che non avrebbe potuto nemmeno trovare evidenza nell'attivo del bilancio finale di liquidazione: in altre parole, quando vi è un elevato grado di incertezza caratterizzante l'an stesso della pretesa (Cass. civ., sez. I, 22 maggio 2020, n. 9464).

Prendendo le mosse da tale rilievo e ponendolo in relazione con i requisiti che deve possedere la rinuncia al credito (quale atto estintivo ovvero di remissione del corrispondente debito, integrante un atto negoziale unilaterale recettizio), si è sottolineato come alla decisione di cancellare la società dal registro delle imprese non sia affatto sottesa un'inequivoca volontà di abbandonare il credito litigioso:

- vuoi perché, pur essendo configurabile una rinuncia tacita desumibile da un comportamento concludente, quest'ultimo deve possedere connotati tali da farlo risultare assolutamente incompatibile con la volontà di avvalersi del diritto di credito (della cui esistenza, d'altro canto, il titolare deve avere consapevolezza), mentre la decisione di cancellare la società dal registro delle imprese, di per sé, non integra una condotta caratterizzata da indiscutibile univocità, ben potendo trovare giustificazione in circostanze (quali esigenze di risparmio di costi, difficoltà organizzative, scadenza del termine di durata, raggiungimento dell'oggetto sociale o impossibilità di conseguirlo, dissidi insanabili tra soci, continuata inattività dell'assemblea) rispetto alle quali la volontà di rinunciare al credito può essere del tutto estranea;

- vuoi perché la rimessione del debito, in quanto atto recettizio, dev'essere diretta a destinatario determinato (ossia al debitore) e assume efficacia quando perviene a sua conoscenza, requisiti che l'iscrizione della cancellazione della società nel registro delle imprese non possiede, essendo rivolta a una collettività indeterminata e indifferenziata di soggetti.

È stato, altresì, evidenziato che se l'esistenza dell'ente collettivo e l'autonomia patrimoniale che lo contraddistingue impediscono, durante la vita della società, di riferire ai soci la titolarità dei beni e dei diritti unificati dalla destinazione impressa loro dal vincolo societario, una volta venuto meno tale vincolo, la titolarità dei beni e dei diritti residui o sopravvenuti torna a essere direttamente imputabile a coloro che della società costituivano il sostrato personale, sicché la regola è rappresentata dalla successione dei soci nei residui attivi e la non sopravvivenza delle mere pretese costituisce l'eccezione; la ricorrenza di una rinuncia, da ricondurre alla remissione del debito di cui all'art. 1236 c.c., pertanto, va allegata e provata con rigore in tutti i suoi presupposti (costituiti dalla volontà remissoria, dalla manifestazione inequivoca di tale volontà e dalla destinazione della dichiarazione allo specifico debitore) da chi intenda farla valere (Cass. civ., sez. VI, 31 dicembre 2020, n. 30075).

Ancora più di recente, è stato affermato che, per ritenere realizzato o meno il fenomeno successorio di regola generato dallo scioglimento della società, non rileva tanto che si tratti di diritti incerti o illiquidi della società cancellata, ancora sub iudice o azionati successivamente dai soci, ovvero che il credito fosse specificamente individuato o certo già prima dell'atto estintivo, quanto piuttosto che, al momento dello scioglimento della società o comunque prima della sua cancellazione, sia stata manifestata oppure no un'univoca volontà di rinuncia, che non si può inferire in via presuntiva dalla semplice cancellazione della società (Cass. civ., sez. III, 9 febbraio 2021, n. 3136).

Nel medesimo solco dei precedenti innanzi citati si è posta, da ultimo, anche Cass. civ., sez. III, 22 febbraio 2021, n. 4658, escludendo che alla cancellazione della società nel corso del giudizio di appello nel quale si discuteva della risoluzione del contratto e degli obblighi restitutori ovvero risarcitori che ne derivavano corrispondesse la carenza di legittimazione dei soci a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza colà pronunciata.

Conclusioni

L'analisi delle confliggenti posizioni assunte dalla giurisprudenza di legittimità evidenzia come si sia ancora lontani da quell'assetto definitivo in merito alla sorte dei residui attivi non considerati in sede di liquidazione, che la pronuncia delle Sezioni Unite del 2013 sembrava invece avere offerto agli operatori del diritto.

Non ci si può nascondere, tuttavia, che le più recenti prese di posizione della Corte di cassazione prestano il fianco ad alcune perplessità, nel momento in cui propendono per una sorta di capovolgimento della presunzione circa la volontà di abbandonare o meno la pretesa che non sia ancora stata accertata o liquidata al momento dell'estinzione della società.

In effetti, sembra difficile sostenere che nella rinuncia a promuovere o a coltivare azioni volte a ottenere il riconoscimento di un diritto possa essere ravvisato qualcosa di diverso da una volontà abdicativa, in assenza di altri indici deponenti in senso contrario. Né pare convincente il riferimento alle diverse finalità che potrebbero essere sottese a un simile atteggiamento e alla loro compatibilità con la successione dei soci in tali posizioni non definite (quali quelle esemplificativamente individuate nel risparmio sui costi che deriverebbero dal protrarsi dello stato di liquidazione, nell'intento di ovviare a difficoltà organizzative, ovvero in altre circostanze potenzialmente confliggenti con il prolungamento della vita dell'ente), giacché sarebbe proprio in tali motivazioni che, a ben vedere, troverebbe giustificazione e coerenza la scelta abdicativa: i liquidatori pur di non intralciare e procrastinare la liquidazione, reputano più conveniente non intraprendere o abbandonare le iniziative volte a ottenere il riconoscimento del diritto e, dunque, più confacente all'interesse della società e dei soci rinunciarvi.

Ovviamente ciò vale in quanto la pretesa sia da reputarsi conosciuta o conoscibile dal liquidatore, com'è senz'altro a dirsi per i diritti litigiosi (essendo ragionevole che rientri nell'ordinaria diligenza l'accertamento della pendenza di una causa da cui potrebbe scaturire una posta attiva).

Il discorso cambia se, al momento dell'estinzione della società, non vi erano gli elementi minimi indispensabili per avere contezza della (pur sempre presumibile) esistenza di un tale diritto, giacché, in effetti, sarebbe difficile disquisire di una rinuncia sfornita di una seppur minima consapevolezza circa la titolarità (per quanto astratta e ipotetica) di quanto dovrebbe formarne oggetto.

Lo stesso è a dirsi con riguardo ai crediti oggetto di contenzioso, a condizione, tuttavia, che negli atti della liquidazione (e non solo o necessariamente nel bilancio finale, potendosi, da questo punto di vista, attribuire rilievo anche ai documenti che lo accompagnano e pure soggetti al deposito presso il registro delle imprese) siano rintracciabili indici che fanno propendere per la sussistenza di una volontà contraria alla rinuncia: a maggior ragione, in questo caso, è fondato parlare di una presunzione di trasmissione della pretesa ai soci, per vincere la quale chi vi ha interesse dovrà allegare e provare elementi particolarmente significativi di segno contrario.

Privilegiando, invece, sempre e comunque l'automatismo del meccanismo successorio che si instaura per effetto della cancellazione della società dal registro delle imprese, si rischia di premiare condotte negligenti o superficiali del liquidatore, a tutto svantaggio dell'affidamento indotto in chi ritenga che alla mera estinzione della società, non accompagnata da accorgimenti volti a rendere in qualche modo manifesta la volontà di fare subentrare i soci nei diritti controversi, corrisponda effettivamente la rinuncia agli stessi.

Nel contemperamento tra i contrapposti interessi, pare più meritevole di tutela quello di chi confidi sul fatto che l'estinzione della società comporti abbandono della pretesa, in assenza di elementi ostensibili deponenti in senso contrario e rientranti pur sempre nella disponibilità degli organi liquidatori e dei soci (si pensi, per esempio e in alternativa a una vera e propria cessione di credito, a un accordo circa la ripartizione postuma di eventuali attività o passività sopravvenute che oggettivizzi, da un lato, la loro presa in considerazione e, dall'altro lato, che, in questo modo, non si è inteso rinunciarvi sic et simpliciter).

Anche perché, se l'abbandono fosse qualificato in termini di rinuncia all'azione, piuttosto che come remissione del debito (vieppiù se ancora incerto quanto alla sua esistenza, nel quale caso potrebbe financo dubitarsi della possibilità che una remissione possa essere validamente effettuata, mancando il suo oggetto), non giocherebbero un ruolo significativo quei limiti discendenti dalla norma dell'art. 1236 c.c. (in particolare sotto il profilo della necessaria recettizietà della dichiarazione del creditore rinunciante), che i giudici di legittimità hanno posto a fondamento della ricostruzione alternativa patrocinata dall'ordinanza annotata.

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