Derelizione, esecuzione individuale e legittimazione del curatore all'intervento: proposte alla soluzione di un tema

16 Marzo 2021

Muovendo dal concetto di derelizione nel testo della legge fallimentare vigente e nel Codice della crisi d'impresa, viene analizzato il tema dell'esecuzione individuale e della sussistenza o meno della legittimazione del curatore ad intervenire, offrendo spunti di riflessione.
L'istituto della derelizione nel testo della legge fallimentare vigente

La derelizione, a significare l'effetto della “res derelicta”, indica per antonomasia il disinteresse, l'abbandono alla sua sorte di un certo asset, che per ciò solo fuoriesce dall'ambito di interesse dell'azione esecutiva concorsuale e del compendio dei beni destinato al soddisfacimento dei creditori che nell'esecuzione concorrono. In virtù dell'abbandono il bene è così suscettibile di esecuzione individuale, secondo le norme del codice di procedura civile, ed è quindi aggredibile dal creditore munito di titolo esecutivo, al quale si accoderanno nell'iniziativa, se del caso, i creditori intervenienti.

Della derelizione la legge fallimentare vigente si occupa in due occasioni:

- con l'art. 42 che a) introduce il principio dell'universalità dello spossessamento in seguito alla pronuncia di fallimento; b) vi ricomprende i beni pervenuti al debitore a procedura aperta, “dedotte le passività incontrate per l'acquisto e la conservazione”; c) legittima il curatore, debitamente autorizzato dal comitato dei creditori, a non apprendere i beni sopravvenuti “qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi”.

Questa derelizione riguarda, in sintesi, i beni che non siano preesistenti all'apertura del concorso, ma che sopravvengono;

- con l'art. 104-ter che, trattando del programma di liquidazione, individua la possibilità che il curatore rinunci alla liquidazione di taluni beni “se l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente” (comma 8). In questa ipotesi, prosegue la norma, il curatore ne dà avviso ai creditori che, in deroga all'art. 51 l.fall., riacquistano la titolarità delle azioni esecutive.

Si tratta quindi di una facoltà esercitata dal curatore in ordine a beni inizialmente ricompresi nella massa attiva, dove la decisione è motivata da ragioni economiche: si pensi ad immobili semi costruiti, per i quali non sia agevole, o sia all'evidenza antieconomico, la ricerca di finanziamenti per terminarli e renderli vendibili.

In tutti questi casi un cespite non entra o esce dal patrimonio del debitore assoggettato a fallimento, e diviene così individualmente aggredibile.

La derelizione nel Codice della Crisi di impresa e dell'insolvenza

Norme analoghe ritroviamo nel nuovo CCI che, rispettivamente, agli artt. 142, comma 2, e 213, comma 2, ripropone il tema della derelizione sia rispetto ai beni sopravvenuti, sia rispetto a quelli preesistenti; sicché il tema mantiene anche in prospettiva tutta la sua forza e alimenta antichi quesiti.

Il tenore del quesito. La successiva esecuzione individuale e la sorte delle spese sostenute dalla curatela per i beni rilasciati

Si viene così al cuore della considerazione. Nei fatti, e quando si parla di asset preesistenti la dichiarazione di fallimento, non accade mai che il curatore giunga alla determinazione di rilasciare il bene prima di avere sostenuto delle spese. Al contrario: la derelizione segue il più delle volte all'amara scoperta di spese ingenti per la sua messa a norma, ovvero a svariati tentativi di vendita accompagnati da spese di custodia e amministrative. E di ciò l'art. 213, comma 2, CCI, dà espressamente atto, dove introduce la presunzione di non convenienza a seguito di sei tentativi di vendita non seguiti da aggiudicazione.

Ora, nella dinamica di realizzo dei beni nell'ambito del concorso, gli oneri sostenuti, generali e particolari, vanno in proposizione a carico di tutti i creditori, ovvero a carico esclusivo di tutti quei creditori che, in virtù di un diritto di prelazione, godono anzitutto del provento della vendita. Si pensi agli oneri sostenuti per il corretto accatastamento dei beni, alle perizie di valutazione funzionali all'asta, alle perizie per la qualificazione in ordine alla classe energetica di appartenenza, ovvero alle spese generali di procedura, ivi compreso il compenso del curatore (in ordine al principio, per il quale il creditore munito di prelazione partecipa anche alle spese generali di procedura in proposizione al ricavato, si veda: Cass. civ., Sez. I, 12 maggio 2010, n. 11500, in Fall., 2010, 11, 1271, che così recita: “In tema di ripartizione dell'attivo fallimentare, sul ricavato della vendita degli immobili gravati da garanzia reale (nella specie, ipotecaria) vanno collocate in prededuzione non solo le spese riconducibili alla conservazione e alla liquidazione del bene ipotecato ma anche una quota parte del compenso del curatore, ottenuta ponendo a confronto l'attività svolta nell'interesse generale e quella esercitata nell'interesse delcreditore garantito, ed infine una porzione delle spese generali della procedura, da determinarsi in misura corrispondente all'accertata utilità delle stesse per il creditore garantito, adottando, ove non sia possibile un'esatta valutazione dell'incidenza delle spese generali su quelle specifiche, il criterio di proporzionalità, la cui applicabilità è tuttavia subordinata alla certezza dell'utilità di tali spese per il creditore garantito.”).

Ebbene, in mancanza di una soluzione che ne neutralizzi il risultato, la derelizione di un bene, per il quale la curatela abbia sostenuto spese, rischia di tradursi in un onere a carico esclusivo dei creditori concorrenti, a beneficio del creditore individualmente procedente che di tale attività si appropria senza averne pagato il prezzo. E tutto ciò, con molti dubbi circa l'equità del sistema e della soluzione.

Da ciò nasce il quesito se, ed entro quali limiti, tali oneri sostenuti possano dal curatore essere recuperati nell'esecuzione individuale, successiva al rilascio; ovvero se ci si debba arrendere all'idea di farne beneficiare, in fatto, il creditore procedente.

Si badi: questo tema attiene al rapporto tra la procedura concorsuale e l'esecuzione individuale, in esito al rilascio; mentre esso nulla ha a che vedere con la differente questione se, rilasciato il bene, l'Ufficio fallimentare possa avere un ripensamento e così riappropriarsene ai fini di un'esecuzione endoconcorsuale: tema al quale la dottrina (G. D'Attore e M. Sandulli, in Art. 104 III, La riforma della legge fallimentare, a cura di A. Nigro e M. Sandulli, Tomo II, Torino, 2006, 625; A. Maffei Alberti, Commentario Breve alla legge fallimentare, a cura di A. Cian e A. Trabucchi, 6° edizione, Padova, 2013, 730; A. Paluchowski, Art. 104 ter, in Codice commentato del fallimento, a cura di G. Lo Cascio, II edizione, Milano, 2013, 1319; V. Baroncini, Natura del provvedimento di autorizzazione alla derelictio e sua ricorribilità per cassazione ex art. 111 Cost., , nota a sentenza Cass. Sez. I, 3 luglio 2019, n. 17835, in Il Fallimento, 2020, 43 ss.) e la giurisprudenza (Cass. civ., Sez. I, 3 luglio 2019, n. 17835 che parla di “scelta gestoria sempre suscettibile di modificazione, salva l'eventuale maturazione medio tempore di incompatibili diritti di terzi”) danno una risposta positiva, sia pure a condizione che il curatore passi per una integrazione del programma di liquidazione.

Il tema è infatti diverso, come detto, ed attiene piuttosto agli effetti di una irreversibile decisione di rilascio, ad esempio perché la procedura non dispone dei mezzi per valorizzare il bene ai fini della vendita, laddove invece diversa è la condizione del creditore procedente (si pensi alla banca che in sede esecutiva si faccia assegnare il cantiere, cioè l'immobile in costruzione, per poi condurla a termine grazie ad una iniezione di finanza e così rientrare di crediti pregressi).

L'ipotesi di lavoro, su cui procederanno le successive riflessioni, è che una legittimazione del curatore all'intervento, nella procedura individuale, possa darsi, sia pure entro determinati termini.

Le condizioni per l'intervento del creditore privo di titolo esecutivo nell'esecuzione individuale

L'art. 499 c.p.c., trattando dell'intervento nel processo di esecuzione, fissa una serie di principi cardine, ove l'interveniente sia un soggetto, portatore di un credito non assistito da titolo esecutivo o assistito da un diritto di prelazione anteriore al pignoramento. E così:

a) essere titolare di un credito risultante dalle scritture contabili di cui all'art. 2214 c.c., per l'effetto documentato da estratto autentico notarile da allegare al ricorso (1^ e 2^ comma);

b) procedere, entro dieci giorni dal deposito del ricorso di intervento, alla notifica al debitore esecutato di copia del ricorso e dell'estratto autentico;

c) assoggettarsi, all'udienza a ciò fissata dal giudice (comma 5), al contraddittorio con il debitore, il quale ha il diritto di riconoscere ovvero di disconoscere, in tutto o in parte, il credito documentato: nel quale ultimo caso, al fine di partecipare al riparto e fatto salvo il necessario accantonamento, il creditore ha l'onere di introdurre nel termine di trenta giorni l'azione necessaria per munirsi di titolo esecutivo (comma 6).

Partendo da queste premesse potrebbe dubitarsi, in virtù di una serie di considerazioni, della possibilità per il curatore di intervenire nell'esecuzione individuale, e ciò ancorché l'intervento sia limitato al solo recupero delle spese occorse per la conservazione del bene esecutato prima della derelizione.

Si vedano quindi le possibili critiche e le possibili soluzioni.

Critica della obiezione, secondo la quale il curatore interveniente non sarebbe terzo rispetto al soggetto e al patrimonio assoggettato all'esecuzione individuale

La prima riflessione critica potrebbe riguardare l'effettiva terzietà del curatore interveniente rispetto al soggetto esecutato, vale a dire al debitore.

Sintetizzando la considerazione, infatti, si potrebbe sostenere che creditore e debitore, in tale ipotesi, si identificherebbero per confusione poiché creditore è il fallimento e oggetto di esecuzione un bene del fallito. Potrebbe, in altri termini, riuscire difficile distinguere, con l'indispensabile chiarezza, gli antagonisti del processo esecutivo individuale: creditore e debitore.

La contestazione non appare tuttavia insuperabile, solo che si scavi un poco oltre l'apparenza. Ed infatti:

  • non vi è dubbio che il cespite assoggettato a esecuzione individuale sia parte del patrimonio del fallito (e precisamente il bene derelitto), e che l'esecuzione trovi spunto nei debiti del fallito: e ciò sia che si guardi al credito del creditore procedente, sia a quello dell'intervenuto che, nel nostro caso, potrebbe definirsi “propter rem” avendo ad oggetto i costi e gli oneri della sua conservazione;
  • egualmente ci pare indubbio che il curatore sia terzo rispetto al fallito. Lo spossessamento provocato dalla dichiarazione d'insolvenza determina infatti la segregazione del complesso di beni e diritti appresi, che per l'effetto subiscono una gestione e liquidazione in sede concorsuale e secondo regole concorsuali. Ed allora, quando un bene inizialmente appreso formi oggetto di derelizione, esso fuoriesce dal perimetro del patrimonio segregato per tornare nella piena disponibilità del debitore: con la conseguenza di sfuggire alle regole del concorso ai sensi dell'art. 51 l.fall. e tornare ad essere aggredibile secondo le regole dell'esecuzione ordinaria.

A nostro avviso si determina, conseguentemente, una perfetta distinzione tra creditore (la curatela, nell'interesse dei creditori concorrenti) e debitore (il fallito, i cui beni sono stati amministrati), così come perfettamente definibile risulta il debito maturato per le spese di conservazione dell'asse derelitto.

La considerazione appare lineare sul piano concettuale, logico e giuridico.

Critica dell'obiezione, secondo la quale il curatore non sarebbe munito di un titolo idoneo all'intervento

Risolto il primo profilo, potrebbe darsi una seconda obiezione, questa volta legata al fatto che il curatore interveniente dovrebbe in ogni caso essere munito di una documentazione del credito “risultante dalle scritture contabili di cui all'art. 2214 del codice civile” (art. 499, comma 1, c.p.c.).

Ora, le scritture a cui si riferisce la norma, ricomprendono il libro giornale e degli inventari, ma anche tutte le scritture contabili “richieste dalla natura e dalla dimensione dell'impresa” (ad esempio ai fini fiscali); e soprattutto ricomprendono le lettere, i telegrammi, le fatture ricevuti e spediti, che devono essere “conservati ordinatamente” (art. 2214, comma 2, c.c.).

Si capisce allora che la documentazione di un credito può essere fornita da una fonte eterogenea; né vi sono ostacoli a riconoscere l'idoneità di tali fatti probatori a concorrere alla formazione di un titolo esecutivo, se non agevolmente in via monitoria, egualmente in sede di cognizione piena (anche mediante le misure anticipatorie ex art. 186 bis e 186 ter, c.p.c.) o di cognizione sommaria ex art.702-bis c.p.c.

Partendo da questa lettura, risulta difficile disconoscere che i documenti di spesa formati in sede concorsuale e direttamente funzionali alla conservazione-gestione degli asset aziendali dell'imprenditore in procedura siano idonei a documentare il conseguente credito ai fini di spiegare intervento ai sensi dell'art. 499 c.p.c.. E tale conclusione è tanto più calzante se si assume che il curatore è tenuto a conservare un suo libro giornale.

Come minimo il curatore avrà sostenuto le spese per il cespite poi oggetto di derelizione previa autorizzazione del Comitato dei Creditori o del Giudice Delegato, quando addirittura non vi sia stata autorizzazione all'esercizio provvisorio dell'impresa. Il credito gestorio risulta quindi, per tale via, da una moltitudine di elementi documentali, la cui natura appare idonea sia a una documentazione immediata del credito, sia all'eventuale e successiva formazione di un titolo esecutivo.

Né si può assumere che, in questo modo, si finirebbe per riconoscere (ad esempio ai provvedimenti autorizzatori) una valenza fuori dall'ambito concorsuale in cui sono sorti. Ad essi, infatti, viene riconosciuta la semplice veste di documentazione del credito, sul piano storico e documentale, mentre non viene in alcun modo in giuoco la loro efficacia sul piano amministrativo: che è poi, questa sola, la valenza endoconcorsuale di cui potrebbe parlarsi.

In conclusione

Le considerazioni svolte consentono, anche sul piano dell'equità, di ricondurre il sistema ad una sua armonia, evitando in particolare che la decisione della derelizione (spesso dettata da elementi contingenti e della mancanza di mezzi) si trasformi in un ingiusto danno per la massa dei creditori concorrenti e in un altrettanto ingiusto o vantaggio per il creditore che, libero da vincoli di cui all'art. 51 l.fall., intraprenda l'esecuzione individuale. Ed infatti, il recupero delle spese conservative sostenute per il bene derelitto appare, sotto ogni angolo visuale, come il minimo a cui si debba tendere.

Ma questa lettura ha anche il pregio di tracciare una continuità tra la procedura concorsuale e l'esecuzione individuale, dove quest'ultima non potrebbe nemmeno esistere in mancanza di una precedente fase conservativa, poi seguita dalla derelizione per ragioni economiche.

D'altro canto, e veniamo così ad un'ultima considerazione: le spese conservative oggetto di intervento altro non sono, a ben vedere, che quelle spese che anche nell'ambito di una procedura esecutiva ordinaria si sarebbero dovute sostenere, vuoi per la custodia del cespite (artt. 520 e 521 c.p.c.; art. 559 c.p.c.), vuoi per la sua amministrazione medio tempore (art. 592 ss., c.p.c.): spese che nel piano di riparto scremerebbero per definizione l'utile realizzato, prima della distribuzione. E forse, sul piano logico, sarebbe di certo corretto arrivare a questa condizione, in quanto il tempo di maturazione delle spese conservative (in capo al curatore o in seno alla procedura esecutiva) è questione del tutto casuale, dipendente dalla maturazione della decisione, in capo alla procedura concorsuale, di abbandonare il bene.

Fino a questo, tuttavia, non ci spingiamo, ben comprendendo che le spese nella procedura esecutiva ordinaria trovano la loro ragione, quanto alla misura nella quale i creditori concorrenti ne sono onerati, in autonomi provvedimenti del giudice di quel processo, che non possono darsi per scontati. Ma una volta riconosciuto questo, davvero non rinveniamo egualmente validi argomenti per negare al curatore il diritto di intervento nei limiti di cui in premessa; tanto più che lo stesso curatore, fintanto che l'azione esecutiva individuale non sia giunta al suo termine o abbia fatto sorgere diritti di terzi sul bene esecutato, ben potrebbe riapprendere il bene alla massa attiva fallimentare, partecipando al realizzo oltre le spese di conservazione e nell'interesse di tutti i creditori concorrenti. Ovviamente, in questo caso, al netto delle spese amministrative e di conservazione sostenute dal singolo creditore (giusto il principio dell'art. 42, comma 2, l.fall.).

Ed allora, da altra prospettiva, è questa la riprova che anche al curatore si debba riconoscere la legittimazione a intervenire nell'espropriazione ordinaria sul bene oggetto di derelizione.

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