Il licenziamento per inidoneità alla mansione rientra nel blocco dei licenziamenti Covid 19

Giovanni Guarini
17 Marzo 2021

Il licenziamento per sopravvenuta inabilità ricompreso nell'ambito applicativo del blocco dei licenziamenti per g.m.o. di cui all'art. 46 d.l. n. 18 del 17 marzo 2020, perché tale motivo di licenziamento è indubbiamente oggettivo (non è disciplinare)...
Massime

Il licenziamento per sopravvenuta inabilità ricompreso nell'ambito applicativo del blocco dei licenziamenti per g.m.o. di cui all'art. 46 d.l. n. 18 del 17 marzo 2020, perché tale motivo di licenziamento è indubbiamente oggettivo (non è disciplinare) nella dicotomia dell'art. 3 della l. n. 604/1966, ma anche perché, in concreto, per tale licenziamento valgono le stesse ragioni di tutela economica e sociale che stanno alla base di tutte le altre ipotesi di licenziamento per G.M.O. che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire.

Il licenziamento irrogato in violazione dell'art. 46 d.l. n. 18 del 17 marzo 2020 è nullo, in quanto contrario a norme imperative, il rimedio conseguente va individuato nell'art. 2, comma 1, d.lgs. n. 23/2015, che prevede la massima sanzione (reintegra e risarcimento) indipendentemente dal numero dei dipendenti occupati presso il datore di lavoro.

Il caso

La sentenza in commento riguarda il caso di un lavoratore che veniva dichiarato inidoneo permanente allo svolgimento della mansione e veniva licenziato per sopravvenuta inabilità, tutto ciò durante la vigenza dell'art. 46 d.l. 18 del 17 marzo 2020, che ha previsto un blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, durante il cd periodo Covid 19.

La sentenza in commento ha accolto il ricorso del lavoratore ritenendo nullo il licenziamento irrogato durante tale periodo.

Le questioni

Le questioni che sono state poste dinanzi al Giudice del Lavoro di Ravenna sono due. In primo luogo si chiedeva se il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta rientrasse nel blocco dei licenziamenti previsto dall'art. art. 46 d.l. 18 del 17 marzo 2020.

In seconda analisi il Tribunale di Ravenna è stato chiamato a decidere sul tipo di sanzione prevista nel caso avesse valutato il provvedimento espulsivo irrogato in violazione della disciplina sul blocco dei licenziamenti.

Il d.l. 18 del 17 marzo 2020 (convertito con modificazioni dalla l. 24 aprile2020, n. 27) all'art. 46 prevedeva un blocco dei licenziamenti per giustificato motivo oggettivo: «1. A decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto l'avvio delle procedure di cui agli articoli 4, 5 e 24, della legge 23 luglio 1991, n. 223 è precluso per cinque mesi e nel medesimo periodo sono sospese le procedure pendenti avviate successivamente alla data del 23 febbraio 2020, fatte salve le ipotesi in cui il personale interessato dal recesso, già impiegato nell'appalto, sia riassunto a seguito di subentro di nuovo appaltatore in forza di legge, di contratto collettivo nazionale di lavoro o di clausola del contratto d'appalto. Sino alla scadenza del suddetto termine, il datore di lavoro, indipendentemente dal numero dei dipendenti, non può recedere dal contratto per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604. Sono altresì sospese le procedure di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in corso di cui all'articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604».

A tal riguardo il divieto di licenziamento interessava il licenziamento per giustificato motivo oggettivo di cui all'articolo 3, della legge 15 luglio 1966, n. 604, per tale intendendosi quello determinato da ragioni «inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». Così, integrano senza dubbio tali ragioni quelle che determinano un effettivo ridimensionamento delle unità di personale impiegate in una ben individuata posizione lavorativa, a prescindere dalla ricorrenza di situazioni economiche sfavorevoli o di crisi aziendali (in tal senso Cass., sez. lav. Sent., 20/10/2017, n. 24882 (rv. 646618-01) Cass., sez. lav. ord. 20 luglio 2020, n. 15401 (rv. 658574-01).

Si è discusso, invece, se in tale divieto di licenziamento rientrasse il licenziamento per inidoneità fisico psichica del lavoratore, ossia quel provvedimento espulsivo determinato dall'impossibilità per il lavoratore di svolgere la prestazione lavorativa per infermità permanente, certificata dal medico competente. In tale ipotesi, così come in generale negli atti di recesso per motivi economici, a fronte di tale impossibilità di prosecuzione della mansione il datore di lavoro doveva assolvere il c.d. onere di ripescaggio, ossia doveva dimostrare che nel complesso aziendale non vi era la possibilità di assegnare il lavoratore a mansioni equivalenti o inferiori compatibili in posti vacanti (Cass., sez. unite, 7 agosto 1998, n. 7755) e salvo possibilità di cd accomodamenti ragionevoli (Cass., sez. lav., 19 marzo 2018, n. 6798).

Ebbene, secondo il difensore del datore di lavoro nella sentenza in commento, il recesso per inidoneità del lavoratore non rientrerebbe nel “blocco” poichè non avrebbe natura di licenziamento economico in senso stretto e, perché non occasionato dai fatti del periodo Covid 19, che è quello ostacolato dal divieto invocato dal ricorrente, introdotto in via eccezionale e temporanea al fine di impedire il recesso unilaterale dal rapporto di lavoro per motivi legati ad assenza di lavoro, soppressione del posto di lavoro o ridimensionamento della società come conseguenza alle misure restrittive adottate dal Governo per fronteggiare l'epidemia in corso. Con la conseguenza che non rientrerebbe nel menzionato divieto.

Al contrario il Giudice del Lavoro, nella sentenza commentata, ha ritenuto che: «non possono esservi dubbi sulla ricomprensione nell'ambito applicativo del blocco dei licenziamenti per g.m.o. di cui all'art. 46 anche del licenziamento per sopravvenuta inabilità. Non solo perché tale motivo di licenziamento è indubbiamente oggettivo (non è disciplinare) nella dicotomia dell'art. 3 della l. n. 604/1966. Ma anche perché, in concreto, per tale licenziamento valgono le stesse ragioni di tutela economica e sociale, che stanno alla base di tutte le altre ipotesi di licenziamento per G.M.O. che la normativa emergenziale ha inteso espressamente impedire…Ragionevolmente, in una situazione di contrazione economica … in una pluralità di settori produttivi …, la scelta del congelamento dei licenziamenti dei dipendenti (il cui costo di mantenimento senza svolgimento della prestazione veniva correlativamente assunto dall'INPS) andava a rimandare alla fase successiva all'emergenza ogni valutazione aziendale circa l'esistenza (a quella data) di giustificati motivi oggettivi di licenziamento. Tali ragioni valgono all'evidenza anche per il licenziamento per inidoneità permanente alla mansione specifica, posto che (nell'ottica del legislatore) solo all'esito del superamento della crisi potrà esservi una attuale e concreta (relativa alla specifica azienda coinvolta) scelta in punto a organizzazione o riorganizzazione aziendale e, dunque, anche in punto al ripescaggio del lavoratore in questione (si tratta proprio dell'adozione della misure organizzative come detto previste dall'art. 42 del d.lgs. n. 81/2008)».

Si tratta di un criterio ermeneutico che è stato condiviso già in passato dall'Ispettorato Nazionale del Lavoro (INL) nella nota n. 298 del 24 giugno 2020, che ha asserito che anche l'ipotesi del licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione deve ritenersi ricompresa tra le fattispecie del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell'art. 3 della legge n. 604/1966, in considerazione del fatto che l'inidoneità sopravvenuta alla mansione impone al datore di lavoro la verifica in ordine alla possibilità di ricollocare il lavoratore in attività diverse riconducibili a mansioni equivalenti o inferiori, anche attraverso un adeguamento dell'organizzazione aziendale, con la conseguenza che ad esso si applica la disciplina sul blocco dei licenziamenti.

Certo già in passato il licenziamento per inidoneità fisica sopravvenuta era stato ricondotto dalla giurisprudenza a motivo oggettivo (categoria frammentaria e che comprende tutto ciò che non è disciplinare) di licenziamento: Cass. 21 maggio 2019, n. 13649; Cass. 22 gennaio 2019, n. 6678; Cass. 6 dicembre 2017, n. 29250; Cass. 4 ottobre 2016, n. 19774. Ad analoghe conclusioni era giunta la Circolare del Ministero del Lavoro, n. 3 del 16 gennaio 2013, con la quale era stata eseguita una disamina delle fattispecie di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, pur se ai fini dell'applicazione della procedura obbligatoria di conciliazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, di cui all'art. 7 l. n. 604/1966 come modificato dall''art. 1 comma 40 della l. n. 92/2012.

Ora, quanto alle conseguenze derivanti da tale violazione della legge sul blocco dei licenziamenti, era da appurare se fosse foriera di una mera illegittimità, oppure ci si trovasse di fronte ad una nullità. La differenza non è di poco conto, visto ai sensi del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 nel primo caso la sanzione sarebbe, meramente indennitaria e varierebbe a seconda delle dimensioni aziendali, mentre nel secondo caso la sanzione sarebbe quella massima, reintegratoria e risarcitoria a prescindere dal numero dei dipendenti in forza presso il datore di lavoro.

Ebbene, il Tribunale di Ravenna nella sentenza in commento ritiene che il licenziamento intimato in violazione del blocco anti Covid 19 sia nullo ex art. 1418 cc, in quanto irrogato in violazione di una norma imperativa, che mira a tutelare «fondamentali interessi sociali, financo teso alla tenuta del “contratto sociale” stesso, minacciata dall'emergenza causata dal COVID-19». Da ciò consegue la nullità del licenziamento nullo ai sensi dell'art. 2, comma 1 del d.lgs. n. 23/2015: «che prevede la massima sanzione (reintegra e risarcimento) in relazione ai casi di nullità del licenziamento perchè discriminatorio a norma dell'articolo 15 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, ovvero perchè riconducibile agli altri casi di nullità espressamente previsti dalla legge… indipendentemente dal numero dei dipendenti» occupati presso la datrice.

Osservazioni

Ora, se il Tribunale di Ravenna ricomprende il licenziamento per inidoneità alla mansione nell'alveo dei licenziamenti per g.m.o. perché tale motivo di licenziamento è indubbiamente oggettivo (non è disciplinare) nella dicotomia dell'art. 3 della l. n. 604/1966, allora tale criterio è destinato ad estendersi ad altre tipologie di licenziamento. Infatti, se si considera tale dicotomia, allora il dictum della sentenza pare possa estendersi a tutti i licenziamenti che non sono determinati «da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro» e fra questi anche il licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Il licenziamento per superamento del periodo di comporto può ricondursi, sul piano sostanziale, ad esigenze connesse «all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa» come ebbe ad affermare in un recente arresto la Corte di Cassazione (Cass., sez. lav., 7 dicembre 2018, n. 31763; Cass., sez. lav., 10 gennaio 2017, n. 284). Infatti, si pensi ad un lavoratore licenziato per essere stato assente per malattia per lungo tempo, tale da superare il periodo di comporto contrattualmente previsto, e pur tuttavia capace di ritornare a lavoro, dopo l'astensione temporanea, in perfetta idoneità. E' evidente che in questi casi la scelta del datore di lavoro è meramente discrezionale e postula un bilanciamento fra la possibilità di reinserire il lavoratore dopo tale lasso di tempo e la volontà nell'interesse aziendale di trovare una soluzione che assicuri maggiore efficienza. Ma è evidente che, come per il lavoratore permanentemente inidoneo, solo all'esito del superamento della crisi potrà esservi una attuale e concreta (relativa alla specifica azienda coinvolta) scelta in punto a organizzazione o riorganizzazione aziendale, considerato che durante la crisi il costo di mantenimento senza svolgimento della prestazione verrebbe correlativamente assunto dall'INPS.

Tuttavia, militerebbe in senso contrario a tale tesi Cass., sez. unite, 22 maggio 2018, n. 12568, che ha affermato che: «ai sensi dell'art. 2110 c.c. il licenziamento per superamento del periodo di comporto costituisce una fattispecie autonoma di licenziamento, vale a dire una situazione di per sé idonea a consentirlo, diversa da quelle riconducibili ai concetti di giusta causa o giustificato motivo di cui all'art. 2119 c.c. e agli artt. 1 e 3 l. n. 604 del 1966. assunto secondo cui quella in esame è un'autonoma fattispecie di licenziamento non è smentito dalla giurisprudenza (v. Cass. n. 284/2017; Cass. n. 8707/2016; Cass. n. 23920/2010; Cass. n. 23312/2010; Cass. n. 11092/2005) che ritiene tale recesso assimilabile ad uno per giustificato motivo oggettivo anziché per motivi disciplinari: si tratta d'una mera "assimilazione" (e non "identificazione") affermata al solo fine di escludere la necessità d'una previa completa contestazione (indispensabile, invece, in tema di responsabilità disciplinare), da parte datoriale, delle circostanze di fatto (le assenze per malattia) relative alla causale e di cui il lavoratore ha conoscenza personale e diretta (fermo restando – ovviamente – l'onere del datore di lavoro di allegare e provare l'avvenuto superamento del periodo di non recedibilità)». E sempre sulla base del dedotto rapporto di autonomia del licenziamento per superamento di comporto rispetto al licenziamento per g.m.o. che la Circolare del Ministero del Lavoro, n. 3 del 16 gennaio 2013, aveva escluso l'applicazione della procedura obbligatoria di conciliazione per i licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, di cui all'art. 7 l. n. 604/1966 come modificato dall''art. 1 comma 40 della l. n. 92/2012 al licenziamento per superamento del periodo di comporto.

Solo l'evoluzione giurisprudenziale permetterà di trovare un punto di approdo, nel delicato equilibrio fra la necessità di rimandare ad un periodo successivo alla pandemia la risoluzione di rapporti di lavoro per ragioni organizzative e la necessità di tutelare la libertà d'impresa.