Clausole elastiche di flessibilità oraria e responsabilità contrattuale del datore di lavoro

Luigi Santini
22 Marzo 2021

Va risarcito il danno subìto dal lavoratore a causa della violazione, da parte del datore di lavoro, delle disposizioni di cui ai commi 7 ed 8 del d.lgs. n. 61/2000, per non aver limitato il ricorso ad una clausola elastica di flessibilità oraria ai soli casi di sostituzione di lavoratori assenti e/o di esigenze aziendali urgenti e rilevanti, e per non aver corrisposto le dovute maggiorazioni retributive.
Massima

Va risarcito il danno subìto dal lavoratore a causa della violazione, da parte del datore di lavoro, delle disposizioni di cui ai commi 7 ed 8 del d.lgs. n. 61/2000, per non aver limitato il ricorso ad una clausola elastica di flessibilità oraria ai soli casi di sostituzione di lavoratori assenti e/o di esigenze aziendali urgenti e rilevanti, e per non aver corrisposto le dovute maggiorazioni retributive.

Il caso

La controversia ha ad oggetto una domanda di risarcimento del danno proposta da una lavoratrice, dipendentepart-timedi un esercizio cinematografico, la quale, pur avendo sottoscritto al momento dell'assunzione una clausola elastica di flessibilità oraria, era stata reiteratamente chiamata a svolgere attività lavorativa in turni serali/notturni (anche oltre la mezzanotte), al di fuori dei limiti previsti dall'art.14 del C.C.N.L. di categoria (che circoscrive l'utilizzo delle clausole elastiche ai soli casi di sostituzione di lavoratori assenti e/o di esigenze aziendali urgenti e rilevanti) e senza che fosse corrisposta la prevista maggiorazione retributiva.

La lavoratrice, in particolare, ha dedotto di aver inutilmente esercitato il c.d. “diritto al ripensamento”, previsto in materia di clausole di flessibilità oraria dall'art. 1, comma 20, lett. a) della l. n. 92/2012, e di avere quindi diritto, oltre alla maggiorazione retributiva del 10% prevista dal C.C.N.L., anche al risarcimento del danno non patrimoniale previsto dall'art. 8, comma-bis, del d.lgs. n. 61/2000 ed al ristoro delle sofferenze psico-fisiche subìte, da liquidarsi in via equitativa.

La questione

Come è noto, l'art. 3, comma 7, del d.lgs. n. 61/2000 (come modificato dall'art. 46 d.lgs. n. 276/2003, applicabile ratione temporis alla fattispecie disaminata dal Tribunale di Messina) prevede che le parti del contratto di lavoro a tempo parziale possano concordare “clausole flessibili relative alla variazione della collocazione temporale della prestazione” e, nel solo caso di part-time di tipo verticale o misto, “clausole elastiche relative alla variazione in aumento della durata della prestazione lavorativa”. La predetta disposizione demanda alla contrattazione collettiva l'individuazione delle “condizioni e modalità” in relazione alle quali il datore di lavoro può utilizzare le suddette “clausole elastiche”, nonché i “limiti massimi di variabilità in aumento della durata della prestazione lavorativa” e la concreta disciplina del c.d. “diritto al ripensamento” (che era stato dapprima abrogato dal d.lgs. n. 276/2003, ma poi reintrodotto dalla l. n. 92/2012).

Il successivo ottavo comma prevede altresì che il concreto esercizio del potere datoriale di variare “a comando” la collocazione temporale e/o la durata complessiva della prestazione lavorativa part-time è soggetto ad un termine di preavviso, fatte salve diverse intese tra le parti, di almeno due giorni lavorativi, e comporta il riconoscimento in favore del dipendente di “specifiche compensazioni”, la cui concreta determinazione viene rimessa alla contrattazione collettiva.

Da ultimo, il nono comma stabilisce che la clausola di flessibilità oraria “richiede il consenso del lavoratore formalizzato attraverso uno specifico patto scritto, anche contestuale al contratto di lavoro, reso, su richiesta del lavoratore, con l'assistenza di un componente della rappresentanza sindacale aziendale indicato dal lavoratore medesimo”, escludendo altresì espressamente che l'eventuale rifiuto del lavoratore possa integrare gli estremi del giustificato motivo di licenziamento. Restano ferme eventuali ulteriori condizioni individuate dalle parti sociali.

Nel caso concreto deciso con la sentenza in commento, il contratto collettivo di riferimento (art. 14 C.C.N.L. Esercizi Cinematografici applicabile ratione temporis) prevedeva, sia per le variazioni della collocazione temporale della prestazione che per quelle in aumento della sua durata, un termine di preavviso di giorni due ed una maggiorazione retributiva del 10%, stabilendo altresì che il ricorso alle clausole elastiche di flessibilità oraria fosse consentitoesclusivamente “in caso di cambio di programmazione, per la sostituzione di lavoratori assenti nonché per esigenze aziendali urgenti e rilevanti”.

Nella fattispecie in esame, pacifico l'avvenuto rispetto del termine di preavviso e ritenuto inapplicabile ratione temporis il c.d. “diritto al ripensamento” (che all'epoca dei fatti di causa non era in vigore), il Tribunale di Messina ha constatato, in punto di fatto, l'insussistenza delle necessarie condizioni legittimanti (sostituzione di lavoratori assenti e/o esigenze aziendali urgenti e rilevanti) e la mancata corresponsione della prevista maggiorazione retributiva.

Ne è conseguito, essendo stato constatato in punto di fatto il raggiungimento della relativa prova, il riconoscimento del diritto della lavoratrice al risarcimento del danno previsto dall'art. 8, comma 2-bis, del d.lgs. n. 61/2000 (a norma del quale “Lo svolgimento di prestazioni elastiche o flessibili di cui all'articolo 3, comma 7, senza il rispetto di quanto stabilito dall' articolo 3, commi 7, 8, 9 comporta a favore del prestatore di lavoro il diritto, in aggiunta alla retribuzione dovuta, alla corresponsione di un ulteriore emolumento a titolo di risarcimento del danno”), nonché il riconoscimento del diritto al ristoro della lesione alla integrità psico-fisica conseguente alla maggiore penosità ed onerosità della prestazione lavorativa, illegittimamente resa in orario diverso da quello previamente convenuto.

Le soluzioni giuridiche

Come ben evidenziato nella sentenza in commento, siamo in presenza di una disciplina tesa a contemperare, da un lato, le esigenze datoriali di utilizzo flessibile della forza lavoro e, dall'altro, il diritto del prestatore a non vedere eccessivamente dilatati i suoi tempi di disponibilità alla “chiamata” del datore di lavoro. In tal senso, viene puntualmente richiamato in sentenza il consolidato orientamento giurisprudenziale, sorto addirittura anteriormente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 61/2000 (v. Cass., sez. lav., 26 marzo 1997, n. 2691), secondo cui “dall'accertata illegittimità delle clausole elastiche nel contratto part - time non consegue l'invalidità del contratto, nè la trasformazione in contratto a tempo indeterminato, ma solo l'integrazione del trattamento economico ex art. 36 Cost. e art. 2099 c.c., comma 2, atteso che la disponibilità alla chiamata del datore di lavoro, di fatto richiesta al lavoratore, pur non potendo essere equiparata a lavoro effettivo, deve comunque trovare adeguato compenso, in considerazione della maggiore penosità ed onerosità che di fatto viene ad assumere la prestazione lavorativa per la messa a disposizione delle energie lavorative per un tempo maggiore di quello effettivamente lavorato. A tal fine rilevano la difficoltà di programmazione di altre attività, l'esistenza e la durata di un termine di preavviso, la percentuale delle prestazioni a comando rispetto all'intera prestazione” (v. Cass., sez. lav., 25 luglio 2019, n. 20209; Cass., sez. lav., ord. 20 marzo 2018, n. 6900; Cass., sez. lav., 8 giugno 2011, n. 12467; Cass., sez. lav., 23 gennaio 2009, n. 1721).

La Suprema Corte ha altresì chiarito che “Sul versante processuale incombe al lavoratore, al fine di pervenire ad un bilanciamento delle prestazioni effettuate, dimostrare la maggiore penosità ed onerosità della prestazione effettuata in ragione degli effetti pregiudizievoli prodotti dalla disponibilità richiesta, salva sempre la possibilità, da parte del datore di lavoro, di contestare i fatti addotti da controparte, dimostrandone l'infondatezza. In siffatto contesto il ricorso alla determinazione equitativa del danno ex art. 432 c.p.c., si configura come rimedio utilizzabile solo in caso di impossibilità o di estrema difficoltà, di prova sull'effettiva entità del danno subito dal lavoratore" (Cass., sez. lav., 8 giugno 2011, n. 12467).

Nella fattispecie concreta decisa dal Tribunale di Messina, la prova del pregiudizio concretamente sofferto è stata ritenuta raggiunta sulla base della constatazione della ricorrenza di una serie di concordanti ed inequivoci elementi presuntivi, quali l'alto numero dei turni serali/notturni assegnati alla lavoratrice, le numerose richieste di modifica del turno disattese dal datore di lavoro, la non infrequente incongruenza della distribuzione dei turni programmati rispetto alle originarie previsioni contrattuali e l'estrema variabilità dei turni assegnati di settimana in settimana alla prestatrice, con le correlate difficoltà di programmazione di altre attività.

A tali considerazioni è conseguito il riconoscimento del diritto al risarcimento del danno non patrimoniale previsto dall'art. 8, comma 2-bis, del d.lgs. n. 61/2000, cui si è aggiunta, sulla base di un accertamento peritale di parte, anche la liquidazione del pregiudizio all'integrità psico-fisica “conseguente all'illegittimo e vessatorio comportamento datoriale”.

Tale duplice liquidazione non ha comportato alcuna indebita sovrapposizione delle medesime voci di danno, risultando evidente che le due poste risarcitorie hanno natura ontologicamente diversa, atteso che il pregiudizio risarcito ex art. 8, comma 2-bis, d.lgs. n. 61/2000 può essere ritenuto sussistente anche in re ipsa, essendo suscettibile di essere liquidato equitativamente “senza necessità della prova del danno procurato - che deriva dall'obbiettivo disagio subito dal lavoratore per l'unilaterale determinazione del datore di lavoro delle modalità temporali di svolgimento della prestazione - trattandosi di misura di natura sanzionatoria” (così Cass., sez. lav., 4 maggio 2015, n. 8882), laddove il ristoro della lesione all'integrità psico-fisica deve invece necessariamente conseguire ad una specifica allegazione e prova della sussistenza di una condizione patologica eziologicamente riconducibile all'illegittima condotta datoriale, che nella fattispecie è stata ritenuta sussistente (forse in modo un po' troppo sbrigativo) sulla sola base di una certificazione sanitaria di una struttura pubblica prodotta dalla stessa lavoratrice.

Osservazioni

Siamo in presenza di una tematica di particolare delicatezza, ove si osservi che l'adozione di un orario part-time con clausole di flessibilità, deve consentire al lavoratore di poter mantenere a disposizione il tempo libero necessario per poter eventualmente svolgere un'altra attività (lavorativa ovvero extra-lavorativa) ed al datore di lavoro di poter conformare in modo flessibile l'estensione o la collocazione oraria della prestazione lavorativa alle mutevoli esigenze aziendali. In un simile contesto, deve tenersi sempre presente l'esigenza di assicurare che la maggiore onerosità della prestazione derivante dalla più ampia disponibilità offerta dal lavoratore sia adeguatamente compensata in termini retributivi, nel rispetto del principio di corrispettività che è alla base del rapporto di lavoro e che trova la sua tutela imperativa nell'art. 36 Cost., e sia tale da consentire al lavoratore di fare affidamento sul proprio tempo libero, per poter programmare quelle altre attività (di lavoro o di tempo libero) cui l'adozione dell'orario part-time era funzionalmente preordinata (Cass., sez. lav.,8 settembre 2003, n. 13107). In altri termini, come la Cassazione ha ripetutamente sottolineato, l'elasticità della clausola è in grado “di incidere in concreto sulla autonoma disponibilità dei tempi di lavoro da parte dei dipendenti, comprimendo, in misura non poco significativa, il discrimine, che non può che restare rigoroso, fra tempi di vita e tempi di lavoro, fra condizione di autonomia e situazione di soggezione ad un altrui potere di intervento e di organizzazione” (così Cass., sez. lav., 8 giugno 2011, n. 12467).

Non vi è dubbio che si tratti di un contemperamento non facile da realizzare, come dimostrato dalla altalenante evoluzione normativa, sviluppatasi in subiecta materia, dal d.lgs. n. 61/2000 in poi, attraverso una serie di interventi del legislatore tesi ad individuare il giusto punto di equilibrio tra le due opposte esigenze sopra descritte.

La possibilità di introdurre clausole elastiche di variazione unilaterale dell'orario era stata originariamente introdotta dall'art. 3, comma 7 e ss., d.lgs. n. 61/2000, con cui era stato disciplinato tale potere datoriale in termini piuttosto restrittivi, prevedendosi esclusivamente che i contratti collettivi potessero prevedere “clausole elastiche in ordine alla sola collocazione temporale della prestazione lavorativa, determinando le condizioni e le modalità a fronte delle quali il datore di lavoro può variare detta collocazione, rispetto a quella inizialmente concordata col lavoratore”. Veniva altresì stabilito il diritto del lavoratore ad un preavviso di dieci giorni e ad una maggiorazione retributiva, nonché all'eventuale “ripensamento” sulla clausola sottoscritta, limitato però a documentati motivi familiari e/o, di salute ovvero a necessità di attendere ad altra attività lavorativa subordinata o autonoma.

Successivamente, l'art. 46 del d.lgs. n. 276/2003 (Legge “Biagi”) ha introdotto la distinzione tra le “clausole elastiche” (che dispongono cioè una variazione in aumento dell'orario) e le “clausole flessibili” (che prevedono invece una variazione della collocazione temporale della prestazione) ed ha previsto alcune altre rilevanti modifiche (riduzione a giorni due del termine di preavviso, abrogazione del c.d. “diritto al ripensamento” e rimessione alle parti sociali dell'individuazione delle “condizioni e modalità” e dei “limiti massimi di variabilità in aumento della durata della prestazione lavorativa”, nonché della previsione in favore del dipendente di “specifiche compensazioni” in termini retributivi).

Ulteriori modifiche sono state poi previste dall'art. 1, comma 44, della l. n. 247/2007 (c.d. “Protocollo sul Welfare”), che ha demandato ai “contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale” la possibilità di sottoscrivere le clausole elastiche e flessibili. Tale intervento normativo è stato tuttavia integralmente abrogato dall'art. 22, comma 4, della l. n. 183/2011 (Legge di Stabilità 2011), con conseguente ripristino del testo previgente.

L'art. 1, comma 20, lett. a) della l. n. 92/2012 (c.d. Legge “Fornero”) ha poi reintrodotto il c.d. “diritto al ripensamento”, limitandolo tuttavia ad alcune ipotesi ben determinate (lavoratori affetti da gravi patologie, lavoratori che assistano congiunti portatori di handicap in condizione di gravità, lavoratori studenti, etc.), salvo diversa disciplina demandata alla contrattazione collettiva.

Una nuova disciplina organica della materia è stata infine introdotta dall'art. 6, commi 4 e ss., del d.lgs. n. 81/2015 (c.d. “Jobs Act”), che ha accomunato sotto l'unica definizione di “clausole elastiche” sia le variazioni della collocazione temporale della prestazione lavorativa, che quelle in aumento della sua durata, confermando sia il divieto di introduzione unilaterale delle stesse, sia la necessità della forma scritta “ad probationem”, sia l'obbligo di preavviso di due giorni lavorativi, sia il diritto del lavoratore a “specifiche compensazioni, nella misura ovvero nelle forme determinate dai contratti collettivi”. Si prevede altresì, per il caso in cui il C.C.N.L. non contenga una disciplina specifica, che le clausole elastiche possano essere pattuite per iscritto dalle parti in sede protetta, dinanzi alle Commissioni di certificazione, con facoltà del lavoratore di farsi assistere. Viene altresì stabilito che le clausole elastiche prevedano, a pena di nullità, le condizioni e le modalità attraverso cui il datore di lavoro, con preavviso di due giorni lavorativi, possa modificare la collocazione temporale della prestazione e variarne in aumento la durata, nonché la misura massima dell'aumento, che non può in ogni caso eccedere il limite massimo del 25% della normale prestazione annua a tempo parziale. Vengono infine riconosciuti, in assenza di una diversa disciplina pattizia, “il diritto del lavoratore ad una maggiorazione del 15 per cento della retribuzione oraria globale di fatto, comprensiva dell'incidenza della retribuzione sugli istituti retributivi indiretti e differiti”, nonché, negli stessi casi già precedentemente previsti, la facoltà di revocare il consenso prestato alla clausola elastica (c.d. “diritto al ripensamento”). Si precisa, da ultimo, che “il rifiuto del lavoratore di concordare variazioni dell'orario di lavoro non costituisce giustificato motivo di licenziamento”.

La nuova normativa non chiarisce cosa accade nel caso in cui la contrattazione collettiva preveda una disciplina peggiorativa rispetto a quella legale, per cui in tale ipotesi potranno porsi nell'applicazione pratica delicati problemi interpretativi, essendo verosimile che ad un orientamento teso a valorizzare il principio del favor lavoratoris possa contrapporsene un altro, fondato invece sulla prevalenza sempre e comunque della disciplina pattizia, anche se di minor favore per il prestatore.

Pur non essendo stata prevista una disposizione analoga a quella di cui all'-art. 8, comma 2-bis, del d.lgs. n. 61/2000, deve ritenersi tuttora configurabile, per l'ipotesi di illegittimo ricorso a clausole elastiche al di fuori delle modalità e dei limiti previsti dalla legge e/o dalla contrattazione collettiva, il diritto del lavoratore ad essere risarcito del danno non patrimoniale conseguente alla maggiore penosità ed onerosità della prestazione lavorativa resa in orario diverso da quello contrattualmente stabilito, in aggiunta alle previste maggiorazioni retributive, configurandosi in ogni caso una ordinaria responsabilità contrattuale del datore di lavoro, con conseguente onere della prova liberatoria a carico di quest'ultimo, quale parte inadempiente.

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