L'interpretazione del contratto collettivo provinciale di lavoro è censurabile come errore di diritto?

23 Marzo 2021

E' manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 360, n. 3, c.p.c. nella parte in cui non prevede la deduzione in sede di legittimità del vizio di violazione o falsa applicazione del contratto collettivo provinciale delle Province Autonome di Trento e Bolzano, mancando in tal caso il rilievo nazionale della disciplina della contrattazione collettiva.
Massima

E' manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale dell'art. 360, n. 3, c.p.c. nella parte in cui non prevede la deduzione in sede di legittimità del vizio di violazione o falsa applicazione del contratto collettivo provinciale delle Province Autonome di Trento e Bolzano, mancando in tal caso il rilievo nazionale della disciplina della contrattazione collettiva che costituisce il proprium che giustifica l'intervento nomofilattico e la parificazione alle norme di diritto.

Il caso

Tre tecnici di radiologia dipendenti dell'Azienda Sanitaria della Provincia Autonoma di Bolzano agivano in giudizio per ottenere il pagamento dell'indennità per turni di lavoro ‹«particolarmente logoranti›› di cui all'art. 36 del Contratto Collettivo di Comparto per il Personale del Servizio Sanitario Provinciale. La domanda veniva rigettata in primo grado e in appello, sull'assunto per cui la previsione contrattuale dovesse interpretarsi nel senso di richiedere una periodicità di almeno due turni notturni mensili, presupposto fattuale mancante nel caso di specie.

Con il ricorso in Cassazione, i ricorrenti denunziavano il vizio di violazione e falsa applicazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1371 c.c., contestando la lettura della norma fatta propria dai giudici di merito.

Tale motivo veniva giudicato inammissibile, atteso che con esso i ricorrenti avevano invero contrapposto all'interpretazione censurata un'interpretazione diversa, che assumevano essere corrispondente al tenore letterale delle parole ed all'intenzione delle parti, ma in tal modo piuttosto che denunciare un vizio di violazione di legge, chiedevano alla Corte una non consentita interpretazione diretta di una norma della contrattazione collettiva provinciale.

Da ultimo, gli istanti sollevavano questione di legittimità costituzionale dell'art. 360, n. 3, c.p.c., lamentando l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui non prevede la deduzione in sede di legittimità del vizio di violazione o falsa applicazione del suddetto contratto collettivo provinciale.

La questione

La pronuncia in esame si inserisce nel solco dell'ormai consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui il controllo diretto del giudice di legittimità può operare solo in caso di denunzia di violazione o falsa applicazione di contratti ed accordi collettivi di lavoro aventi respiro nazionale, ed ha il merito di sgombrare il campo da qualunque sospetto di illegittimità costituzionale della previsione in parola, nella parte in cui nega invece tale forma di sindacato in caso di contratti collettivi di portata più circoscritta.

Le soluzioni giuridiche

A partire da Cass. civ., 19 marzo 2014, n. 6335, in discontinuità con il precedente indirizzo, si è affermato in sede di legittimità il principio secondo cui la denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. (come modificato dall'art. 2 del d.lgs. 40/2006) è parificata sul piano processuale a quella delle norme di diritto, sicché, anch'essa comporta, in sede di legittimità, la riconducibilità del motivo di impugnazione all'errore di diritto, direttamente denunciabile per cassazione.

Tale nuovo orientamento, si è consolidato nella successiva giurisprudenza, fino ad assurgere al rango di «diritto vivente» (cfr. Cass. civ., 9 settembre 2014 n. 18946; Cass. civ., 16 settembre 2014, n. 19507; Cass. civ., 17 maggio 2016, n. 10060; Cass. civ., 12 ottobre 2016, n. 20554).

Ciò posto, poiché la norma indicata fa riferimento solo ai contratti collettivi nazionali, le pronunce in questione hanno sottolineato che tale assimilazione non si estende agli atti di autonomia collettiva che non presentino tale requisito.

Segnatamente, è stato affermato innanzitutto con riguardo ai contratti collettivi di lavoro relativi al pubblico impiego privatizzato, che la regola posta dall'art. 63 del d.lgs. 165/2001 - che consente di denunciare direttamente in sede di legittimità la violazione o falsa applicazione dei contratti ed accordi collettivi - deve intendersi limitata ai contratti ed accordi nazionali di cui all'art. 40 del predetto d.lgs., con esclusione quindi dei contratti integrativi contemplati nello stesso articolo. In relazione a tali ultimi contratti il controllo di legittimità è finalizzato esclusivamente alla verifica del rispetto dei canoni legali di interpretazione e dell'assolvimento dell'obbligo di motivazione, nei limiti residui previsti dal vigente art. 360, n. 5, c.p.c. (cfr. Cass. civ., 7 agosto 2019, n. 21167, Cass. civ., 7 dicembre 2020, n. 27932).

Analogamente, la giurisprudenza della Corte è consolidata nel sostenere che la nuova formulazione dell'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. - come modificato dalla riforma del 2006 - che assegna al giudice di legittimità un sindacato in funzione para-nomofilattica è limitata ai contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro, e non è ipotizzabile in relazione ai contratti collettivi di carattere aziendale, rispetto ai quali il sindacato di legittimità può estendersi all'interpretazione di ogni atto negoziale riguardo ai vizi di motivazione della sentenza ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., oppure alla violazione di norme di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 e ss. c.c. ai sensi del n. 3 della citata disposizione (Cass. civ., 1 dicembre 2020, n. 27419).

Stesso dicasi in caso di censure che fanno riferimento direttamente ed indirettamente ad una determinata interpretazione delle norme dei contratti collettivi provinciali che si assume corretta ed in contrasto con l'interpretazione, ritenuta erronea, fatta propria dal giudice di merito; trattandosi di norme di contratto collettivo di ambito territoriale provinciale, non è invero consentito alla Corte di procedere ad un'interpretazione diretta delle clausole contrattuali denunciate, potendo la censura di violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi prevista dal novellato art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. trovare ammissibilità solo in caso di contratti collettivi nazionali (Cass. civ., 29 ottobre 2020, n. 23934).

Fatte queste premesse, l'ordinanza in esame muove dal chiaro tenore letterale della previsione di cui all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. laddove fa esplicita menzione solo dei contratti ed accordi collettivi nazionali, ritenendo che solo la portata nazionale del contratto o accordo collettivo sospettata di essere stato oggetto di violazione o falsa interpretazione può giustificare l'intervento in chiave nomofilattica del giudice di legittimità.

Argomentando in questi termini, la pronuncia in commento conclude allora che in una fattispecie come quella scrutinata - ovvero di denunzia di violazione di una previsione di contratto collettivo provinciale - non si ravvisano i presupposti per l'equiparazione delle previsioni contrattuali alle norme di legge, venendo in rilievo un contesto di disciplina sostanziale del rapporto di lavoro che, lungi dall'assumere portata nazionale, è al più riconducibile alla discrezionalità del legislatore provinciale o regionale, con conseguente venir meno della ratio giustificatrice dell'estensione del sindacato diretto sull'interpretazione ed applicazione dei contratti collettivi.

Osservazioni

Fino al 1998 la violazione o la falsa applicazione delle clausole dei contratti collettivi di lavoro, secondo la giurisprudenza e la dottrina, non costituiva motivo di ricorso per Cassazione e non dava vita ad un sindacato diretto della Suprema Corte, dal momento che, trattandosi di ricercare la volontà delle parti contraenti, si era in presenza di un'indagine su una questione di fatto, riservata al giudice di merito.

Il quadro normativo è mutato significativamente con il d.lgs. 80/1998, allorquando venne modificato l'art. 68 del d.lgs. 29/1993, tra l'altro con l'introduzione del comma 5 che così dispone: «nelle controversie di cui ai commi 1 e 3 e nel caso di cui al comma 3 dell'art. 68-bis, il ricorso per Cassazione può essere proposto anche per violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di cui all'art. 45».

Premesso che tale previsione trova applicazione soltanto relativamente ai contratti collettivi nazionali di lavoro e non anche agli altri contratti collettivi o individuali di lavoro, come ad esempio i contratti integrativi di cui all'art. 45, la ragione della previsione in esame è stata individuata nelle peculiarità che contrassegnano il contratto collettivo nazionale di lavoro dei pubblici dipendenti e nell'obbligo che incombe sulla pubblica amministrazione di osservare lo stesso (art. 45, comma 5), obbligo che viene a realizzare sia pure indirettamente una sorta di estensione erga omnes della disciplina pattuita.

Con la novella del 1998 si era venuta, tuttavia, a creare una palese disparità di trattamento rispetto ai contratti collettivi nazionali di lavoro privato, tanto da sollecitare un intervento legislativo per estendere la portata della norma anche al lavoro privato.

Ed invero, con il d.lgs. 40/2006, il legislatore ha introdotto nel n. 3 dell'art. 360, comma 1, c.p.c. la previsione che il ricorso diretto in Cassazione può essere proposto anche «per violazione o falsa applicazione […] dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro».

Ebbene, proprio in considerazione della circostanza che le clausole dei contratti e degli accordi nazionali collettivi di lavoro hanno una portata generale e che quindi si applicano ad una moltitudine di soggetti, da un lato, e che la poca chiarezza delle clausole contenute nei contratti siffatti può dare vita ad un alto numero di controversie seriali, dall'altro, hanno evidentemente giustificato l'introduzione della previsione suindicata, affinché la funzione nomofilattica propria della Cassazione potesse esplicarsi in quei casi nei quali vengono in discussione clausole aventi portata generale e riguardanti un alto numero di soggetti, finendo così per garantire la certezza interpretativa e per limitare il contenzioso.

Ciò comporta, quali immediate conseguenze sul piano strettamente operativo, che dovendosi l'esame della Corte svolgere sui contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro sui quali si fonda il ricorso, detti contratti o accordi che devono essere specificamente indicati nel ricorso a pena di inammissibilità ex art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. e depositati a pena di improcedibilità ai sensi dell'art. 369, comma 2, n. 4, c.p.c.; poiché l'indagine istruttoria è svolta dal giudice di merito e stante la natura e la struttura del giudizio di Cassazione, la Corte non può infatti assumere iniziative istruttorie ed acquisire d'ufficio altri contratti o accordi collettivi nazionali di lavoro, dovendo decidere unicamente sul materiale probatorio prodotto.

Ne consegue, ancora, che il giudice di legittimità, allorché viene denunciata la violazione della norma di un contratto o di un accordo collettivo nazionale, deve procedere autonomamente alla diretta interpretazione del contenuto del contratto o dell'accordo collettivo senza essere vincolato ad una lettura interpretativa prospettata nella formulazione del motivo. Ciò significa che la Cassazione ben può ricercare all'interno del contratto o dell'accordo collettivo ciascuna clausola, anche non oggetto dell'esame delle parti e del primo giudice, ma che comunque venga ritenuta utile all'interpretazione e alla soluzione del caso concreto.

Ed infine, pertanto, una pronuncia per violazione o falsa applicazione di norme di contratti collettivi può dar luogo all'enunciazione del principio di diritto ex art. 384, comma 1, c.p.c. in quei casi in cui la controversia si esaurisca nell'interpretazione resa dal giudice di legittimità e non sussista un residuo ambito di intervento da affidare al giudice del rinvio, laddove la stessa Cassazione, in base all'art. 384, comma 2, c.p.c., può decidere la causa nel merito allorquando non siano necessari ulteriori accertamenti in fatto.

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