Le regole per attribuire al curatore la qualifica di “detentore dei rifiuti” e per addossare i connessi oneri economici alla massa fallimentare

Paolo Pizza
23 Marzo 2021

Ricade sulla curatela fallimentare l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all'art. 192 d.lgs. n. 152/2006, mentre i relativi costi gravano sulla massa fallimentare.
Massima

Ricade sulla curatela fallimentare l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all'art. 192 d.lgs. n. 152/2006, mentre i relativi costi gravano sulla massa fallimentare.

Il caso

La sentenza oggetto delle presenti note è stata pronunciata dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con finalità nomofilattica.

Dando, dunque, per scontato che i giudici amministrativi, almeno nell'immediato, tenderanno a riprodurre fedelmente l'itinerario argomentativo che ci si accinge a commentare, pare opportuno, da un lato, verificare quali siano le ricadute pratiche per le curatele fallimentari, e, dall'altro, evidenziare alcune problematiche interpretative derivanti dal necessario “incrocio”, in materia, tra le disposizioni normative di carattere pubblicistico che tutelano l'ambiente, e le disposizioni normative contenute nella legge fallimentare, anch'esse di carattere sostanzialmente pubblicistico.

I profili materiali della fattispecie specifica oggetto della pronuncia sono i seguenti.

Un Comune aveva ingiunto, ai sensi dell'art. 192 d.lgs. n. 152/2006, alla curatrice di un fallimento, di sgomberare un deposito di rifiuti “…costituiti da scarti di demolizione cementizi, bancali rotti, rifiuti di lastre bituminose e polistiroli vari, bidoni metallici arrugginiti, laterizi infranti ed abbandonati disordinatamente in cumuli sul nudo suolo senza alcuna protezione per quest'ultimo”.

Sebbene non sia riportato nella sentenza in commento, è di fondamentale importanza evidenziare che, nell'ordinanza, il Comune aveva, altresì, sottolineato che “trattasi di rifiuti presenti sul sito derivanti dalla produzione dell'impresa Mxxxxx sas in attività, nonché di materiali che, se l'attività fosse continuata, sarebbero rientrati nel ciclo di produzione, ma che, con l'attività cessata sono anch'essi da smaltire”.

Si noti che la società fallita era proprietaria del suolo e che la curatrice aveva effettuato l'inventariazione dello stesso ai sensi e con le modalità individuate dall'art. 88, comma 2, L.fall. cioè mediante trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento nei registri immobiliari.

La curatrice, peraltro, dopo che le era stata notificata la ordinanza, aveva verificato i costi dell'operazione ed aveva comunicato al Comune di non poter provvedere per mancanza di fondi.

Contestualmente, la curatrice aveva impugnato il provvedimento amministrativo notificatole, per contestare la titolarità passiva in capo al curatore degli obblighi di cui all'art. 192 d.lgs. n. 152 del 2006.

Il TAR Veneto aveva accolto il ricorso e la sentenza era poi stata impugnata dal Comune.

La Quarta Sezione del Consiglio di Stato, con ordinanza n. 5454 del 15 settembre 2020 aveva rimesso la questione alla Adunanza Plenaria, chiedendo di chiarire se “…a seguito della dichiarazione di fallimento, perdano giuridica rilevanza gli obblighi cui era tenuta la società fallita ai sensi dell'art. 192 d.lgs. n. 152/2006 (con la ricaduta sulla finanza pubblica e con un corrispondente vantaggio patrimoniale dei creditori della società fallita e sostanzialmente di questa), pur se il curatore fallimentare – in un'ottica di continuità - ‘gestisce' proprio il patrimonio del bene della società fallita e ne ha la disponibilità materiale”.

La questione

Il principio di diritto dichiarato dall'Adunanza Plenaria e gli interrogativi che esso solleva.

A fronte della questione sottopostale dalla Quarta Sezione, l'Adunanza Plenaria ha enunciato il seguente principio di diritto: “ricade sulla curatela fallimentare l'onere di ripristino e di smaltimento dei rifiuti di cui all'art. 192 d.lgs. n. 152/2006 e i relativi costi gravano sulla massa fallimentare”.

La statuizione è categorica, e, se letta isolatamente, la sua portata è assai vasta: essa, infatti, sembra imporre, sempre e comunque, al curatore, per il fatto in sé di essere tale, di ripristinare i luoghi e di smaltire qualunque tipologia di rifiuto, facendo gravare i relativi costi sulla massa.

Gli interrogativi che subito si affollano nella testa del lettore, però, sono molteplici.

In primo luogo, viene da chiedersi perché gli oneri di ripristino ricadano sul curatore (ed i costi sulla massa fallimentare): perché egli è successore del fallito? Perché diventa gestore del patrimonio del fallito? Perché diventa titolare in via non derivativa di una obbligazione ex lege propria?

In secondo luogo, viene da chiedersi da quale momento l'onere di ripristino e di smaltimento ricada sulla Curatela: dal momento in cui viene pubblicata la sentenza dichiarativa di fallimento? Dal momento in cui il curatore accetta l'incarico? Dal momento in cui vengono apposti dal curatore i sigilli ai sensi dell'art. 84 della legge fallimentare? Dal momento in cui viene redatto l'inventario, ai sensi degli artt. 87 e ss.? E in quest'ultimo caso, da quando viene redatto l'inventario dei beni mobili qualificabili come rifiuti o da quando vengono inventariati i beni immobili presso i quali sono collocati i rifiuti?

In terzo luogo, viene da chiedersi rispetto a quali rifiuti sorga l'obbligo del curatore: rispetto a tutti i rifiuti rinvenuti, chiunque ne sia stato il produttore? Oppure soltanto rispetto ai rifiuti che siano stati prodotti dall'imprenditore fallito?

Le risposte a tali quesiti, ovviamente, vanno cercate nella motivazione della sentenza.

Osservazioni

Le ragioni per le quali, alla luce dell'apparato motivazionale della sentenza, il curatore ha l'onere di ripristinare i luoghi e di smaltire i rifiuti addossando i costi alla massa fallimentare.

Cominciando dal primo interrogativo, secondo l'Adunanza Plenaria, “poiché l'abbandono di rifiuti e, più in generale, l'inquinamento, costituiscono ‘diseconomie esterne' generate dall'attività di impresa (cd. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell'imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell'ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento. Seguendo invece la tesi contraria, i costi della bonifica finirebbero per ricadere sulla collettività incolpevole, in antitesi non solo con il principio comunitario "chi inquina paga", ma anche in contrasto con la realtà economica sottesa alla relazione che intercorre tra il patrimonio dell'imprenditore e la massa fallimentare di cui il curatore ha la responsabilitàche, sotto il profilo economico, si pone in continuità con detto patrimonio”.

Le ricadute di queste affermazioni sono assai rilevanti ai fini dell'interpretazione complessiva della sentenza. L'Adunanza Plenaria, se non si erra, sembra sostenere che:

a) i rifiuti prodotti dalla attività di impresa sono parte integrante di tale attività, nel senso che ne costituiscono un residuo e sono da essa direttamente generate;

b) l'obbligo giuridico di gestire i rifiuti prodotti dalla attività di impresa “nasce” ex lege, come obbligo di facere che implica dei costi, nel patrimonio dell'imprenditore nel momento i cui i rifiuti vengono prodotti.

c) la massa fallimentare si pone in continuità con il patrimonio dell'imprenditore, sicché l'obbligo, già presente all'interno di tale patrimonio prima del fallimento, di ripristinare i luoghi e smaltire i rifiuti prodotti nell'esercizio dell'attività di impresa, permane tal quale anche dopo il fallimento, e così come avrebbe dovuto essere eseguito prima del fallimento con denaro rientrante nel patrimonio dell'imprenditore, allo stesso modo, dopo il fallimento, deve essere eseguito con denaro ricavato dalla vendita dei beni appartenenti al patrimonio dell'imprenditore, alla stessa stregua di ciò che accade per le altre obbligazioni nei confronti dei creditori dell'impresa fallita.

Si noti che la Adunanza Plenaria precisa, altresì, che. “…deve escludersi che il curatore possa qualificarsi come avente causa del fallito nel trattamento di rifiuti, salve, ovviamente le ipotesi in cui la produzione dei rifiuti sia ascrivibile specificamente all'operato del curatore, non dando vita il Fallimento ad alcun fenomeno successorio sul piano giuridico. Sempre in via preliminare va evidenziato che, per risolvere la questione in esame, non appare pertinente il richiamo al principio di diritto enunciato dalla sentenza di questa Adunanza plenaria n. 10 del 2019, che ha riguardato una ben diversa fattispecie, in cui vi era stata la successione di un ‘distinto soggetto giuridico' a quello su cui precedentemente gravava l'onere della bonifica, con l'affermazione del principio per cui l'acquirente del bene – anche nel caso di fusione per incorporazione – subentra negli obblighi gravanti sul precedente titolare. Nel caso in esame, come si è detto, non si verifica un fenomeno successorio. Sotto i profili appena evidenziati deve ritenersi, pertanto, esclusa una responsabilità del curatore del fallimento, non essendo il curatore né l'autore della condotta di abbandono incontrollato dei rifiuti, né l'avente causa a titolo universale del soggetto inquinatore, posto che la società dichiarata fallita conserva la propria soggettività giuridica e rimane titolare del proprio patrimonio, attribuendosene la facoltà di gestione e di disposizione al medesimo curatore”.

Ora, pare evidente che un ragionamento di tal genere, suscita ulteriori interrogativi che ci si limita in questa sede ad evidenziare.

L'Adunanza Plenaria sembra affermare che l'obbligo di gestione dei rifiuti che sussiste in capo al curatore non derivi né da un fenomeno successorio, ne dà un “acquisto” a titolo originario, susseguente ad una condotta propria del curatore.

Tale obbligo deriverebbe, invece, dalla facoltà di gestione e di disposizione del patrimonio del fallito che la legge fallimentare attribuisce al curatore (v. art. 31 L.fall.), alla quale si accompagna la correlativa perdita di tale facoltà da parte del fallito (v. art. 42 L. fall.).

In altre parole, l'obbligo in questione sussiste già prima della dichiarazione di fallimento nel patrimonio dell'imprenditore ed andrebbe eseguito con mezzi presenti nel medesimo patrimonio, da ciò derivando che la facoltà di gestione di tale patrimonio implicherebbe in automatico che il curatore, in quanto gestore di quel patrimonio, debba eseguire l'obbligo di gestione dei rifiuti con quel patrimonio (cosa che l'imprenditore non può fare più, in quanto spossessato).

Se così è, gli interrogativi che si pongono sono i seguenti:

1) fermo restando che trattasi di obbligazione nata da fatti precedenti alla dichiarazione di fallimento ed essendo i costi per eseguirla a carico della massa, il curatore deve sostenere questi ultimi a prescindere dalla irrogazione della sanzione ex art. 192 L.fall.?

Parrebbe di sì.

2) se il curatore deve eseguire l'obbligazione di facere in questione a prescindere dalla irrogazione della sanzione ex art. 192 L.fall., le spese connesse all'esecuzione dell'obbligo di gestione dei rifiuti devono esser pagate in prededuzione in quanto sostenute in occasione della procedura?

Trattandosi di un'obbligazione ex lege che vede come necessario esecutore il curatore, parrebbe di sì.

3) se le spese connesse all'esecuzione dell'obbligo di gestione dei rifiuti devono essere pagate in prededuzione, esse possono essere soddisfatte pro quota su tutte le masse attive (mobiliari ed immobiliari)? Oppure solo sulle masse attive mobiliari? Oppure solo sulle masse attive immobiliari?

Se vale il discorso del legame necessario tra attività di impresa e produzione dei rifiuti da essa derivanti, parrebbe che le spese debbano essere soddisfatte pro quota su tutte le masse attive.

In definitiva, ritenere, come sembra fare l'Adunanza Plenaria, che la massa fallimentare debba sostenere in prededuzione i costi di gestione dei rifiuti prodotti dall'imprenditore anteriormente alla dichiarazione di fallimento, a discapito di tutti coloro che trovano il titolo del loro credito nei confronti dell'imprenditore in fatti anteriori alla medesima dichiarazione, significa, di fatto, affermare che questi ultimi, cioè i creditori dell'imprenditore fallito, sono, assieme a quest'ultimo, co – produttori dei rifiuti da gestire, perché è anche nel loro interesse che l'imprenditore, esercitando la propria attività, ha prodotto i rifiuti.

Questo ragionamento, che potrebbe apparire eccessivamente “sostanzialista”, sembra, però, trovare, almeno potenzialmente, una sponda nella enigmatica definizione di produttore del rifiuto – che non viene, peraltro, menzionata dall'Adunanza Plenaria - che si rinviene nell'art. 183, comma 1,lett. f) d.lgs. n. 152 del 2006, a mente del quale è produttore del rifiuto “..il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile tale produzione (produttore iniziale)”: in altre parole, l'argomento del giudice di Palazzo Spada secondo cui “poiché l'abbandono di rifiuti e, più in generale, l'inquinamento, costituiscono ‘diseconomie esterne' generate dall'attività di impresa (cd. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell'imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell'ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento” sembra evocare l'idea per cui, se da un lato l'imprenditore è il soggetto la cui attività materiale produce rifiuti, dall'altro i creditori dell'imprenditore che esercita tale attività materiale potrebbero essere qualificati come soggetti a cui tale produzione è – quantomeno in via mediata - “giuridicamente riferibile”.

Il momento dal quale, alla luce dell'apparato motivazionale della sentenza, il curatore ha l'onere di ripristinare i luoghi e di smaltire i rifiuti addossando i costi alla massa fallimentare.

Appurato che il curatore, secondo l'Adunanza Plenaria, è soggetto all'obbligo di ripristino dei luoghi e di smaltimento dei rifiuti, occorre, come si è detto, chiedersi da quale specifico momento l'esecuzione di tale obbligo da parte del curatore diviene esigibile.

Al riguardo, il passaggio più rilevante rinvenibile nella sentenza pare essere il seguente: “….Ritiene l'Adunanza che la presenza dei rifiuti in un sito industriale e la posizione di detentore degli stessi, acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell'impresa, tramite l'inventario dei beni dell'impresa medesima ex artt. 87 ss. L.fall., comportino la sua legittimazione passiva all'ordine di rimozione. Nella predetta situazione, infatti, la responsabilità alla rimozione è connessa alla qualifica di detentore acquisita dal curatore fallimentare non in riferimento ai rifiuti (che sotto il profilo economico a seconda dei casi talvolta si possono considerare ‘beni negativi'), ma in virtù della detenzione del bene immobile inquinato (normalmente un fondo già di proprietà dell'imprenditore) su cui i rifiuti insistono e che, per esigenze di tutela ambientale e di rispetto della normativa nazionale e comunitaria, devono essere smaltiti). Conseguentemente, ad avviso dell'Adunanza, l'unica lettura del d.lgs. n. 152 del 2006 compatibile con il diritto europeo, ispirati entrambi ai principi di prevenzione e di responsabilità, è quella che consente all'Amministrazione di disporre misure appropriate nei confronti dei curatori che gestiscono i beni immobili su cui i rifiuti prodotti dall'impresa cessata sono collocati e necessitano di smaltimento”.

Le affermazioni appena riportate sembrano chiare: l'obbligo/onere di gestire i rifiuti nasce in capo al curatore nel momento in cui costui diviene detentore dei rifiuti.

Si noti che tale detenzione, secondo l'Adunanza Plenaria, è mediata dalla detenzione dell'immobile presso il quale i rifiuti si trovano: in altre parole, per affermare che il curatore è detentore dei rifiuti è sufficiente provare che egli è detentore dell'immobile presso il quale essi sono ubicati.

Il Consiglio di Stato, dunque, sembra individuare in via interpretativa un vero e proprio “onere reale” collegato alla mera detenzione dell'immobile e riguardante la gestione dei rifiuti ivi ubicati.

Ad essere meno chiaro, tuttavia, è il momento nel quale, a parere della Adunanza Plenaria, il curatore diviene detentore dell'immobile presso cui sono ubicati i rifiuti.

Occorre, infatti, tenere presente che, secondo quanto previsto dalla legge fallimentare, il Tribunale, nell'emanare la sentenza dichiarativa di fallimento, provvede alla nomina del curatore fallimentare (art. 27 L.fall.), il quale acquisisce i poteri previsti dalla legge fallimentare al momento della accettazione della nomina (art. 29), che è atto (del curatore) successivo, dal punto di vista logico e temporale, alla pubblicazione della sentenza di fallimento. Il primo compito che il curatore ha, dopo aver accettato la nomina, è, ai sensi dell'art. 84 L.f, quello di procedere alla apposizione dei sigilli sui beni che si trovano nella sede principale dell'impresa e sugli altri beni del debitore. L'inventario dei beni dell'impresa viene effettuato - dal curatore con l'ausilio del cancelliere - solo successivamente, ai sensi dell'art. 87 e ss., ed è atto che presuppone sia la dichiarazione di fallimento da parte del Tribunale, sia la accettazione del curatore, sia l'apposizione dei sigilli.

Pertanto, l'affermazione, rinvenibile nella sentenza in commento, secondo cui la posizione di detentore dei rifiuti (rectius, dell'immobile presso il quale sono ubicati i rifiuti) è “…acquisita dal curatore dal momento della dichiarazione del fallimento dell'impresa, tramite l'inventario dei beni dell'impresa medesima ex artt. 87 e ss. L.fall.” pare poco comprensibile e rischia di ingenerare incertezza.

Ed infatti, al di là della impossibile sovrapposizione temporale tra sentenza dichiarativa di fallimento, accettazione del curatore ed inventariazione dell'immobile ex art. 87 L.fall. , l'enunciato appena riportato potrebbe indurre l'interprete a ritenere alternativamente:

1) o che, fintantoché non si proceda all'inventariazione dell'immobile ex art. 87 ss., il curatore non abbia la detenzione dell'immobile su cui sono ubicati i rifiuti e, di conseguenza, non detenendo questi ultimi non abbia alcun obbligo di gestirli;

2) o che il curatore sia qualificabile come detentore dell'immobile fin dal momento della dichiarazione di fallimento, e che, pertanto, da tale momento egli abbia l'obbligo di gestire i rifiuti ivi ubicati.

1) Ove si propendesse per la prima lettura, si potrebbe pensare che il Curatore possa evitare di diventare detentore dell'immobile non inventariandolo, con la conseguenza che egli non diventerebbe detentore neanche dei rifiuti presenti nell'immobile.

In effetti - se si tiene presente, da un lato, che l'inventariazione dei beni immobili soggetti a pubblica registrazione si effettua per il tramite della trascrizione della sentenza dichiarativa di fallimento, e, dall'altro, che 104 ter, comma 8, L.fall. prevede che “…il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può non acquisire all'attivo o rinunciare a liquidare uno o più beni, se l'attività di liquidazione appaia manifestamente non conveniente. In questo caso, il curatore ne dà comunicazione ai creditori, i quali in deroga a quanto previsto nell'art. 51, possono iniziare azioni esecutive e cautelari rimessi nella disponibilità del debitore” – sembrerebbe che, per lo meno astrattamente, una lettura di tal genere della sentenza in commento sia in qualche modo plausibile.

Tuttavia, pare a chi scrive che l'Adunanza Plenaria non intendesse dire questo.

Ragionando nel senso prospettato, infatti, il curatore avrebbe uno strumento per evitare che i costi connessi alla gestione dei rifiuti prodotti dall'attività di impresa vengano sostenuti dalla massa, e questo stravolgerebbe quanto la medesima Adunanza sostiene in termini generali, e cioè che “poiché l'abbandono di rifiuti e, più in generale, l'inquinamento, costituiscono ‘diseconomie esterne' generate dall'attività di impresa (cd. “esternalità negative di produzione”), appare giustificato e coerente con tale impostazione ritenere che i costi derivanti da tali esternalità di impresa ricadano sulla massa dei creditori dell'imprenditore stesso che, per contro, beneficiano degli effetti dell'ufficio fallimentare della curatela in termini di ripartizione degli eventuali utili del fallimento”.

Si noti, in questa prospettiva, che, sebbene nella sentenza in commento non si faccia alcun cenno all'art. 104 ter, comma 8, L. fall. , assai significativi nel senso di negare che il Fallimento possa “liberarsi” dall'obbligo di gestione dei rifiuti di cui si discorre sono le seguenti affermazioni dell'Adunanza Plenaria: “La difesa del Fallimento deduce poi che il curatore potrebbe sempre avvalersi della facoltà riconosciuta dall'art. 42, comma 3, secondo cui “il curatore, previa autorizzazione del comitato dei creditori, può rinunciare ad acquisire i beni che pervengono al fallito durante la procedura fallimentare qualora i costi da sostenere per il loro acquisto e la loro conservazione risultino superiori al presumibile valore di realizzo dei beni stessi”. Il curatore potrebbe, così, rinunciare ad acquisire il fondo su cui grava un eventuale onere di bonifica, frustrando gli intenti del Comune.

Tali considerazioni non sono condivisibili, sulla base di due distinte considerazioni. In primo luogo, l'evenienza prevista da tale art. 42, comma 3, costituisce una mera eventualità di fatto, riguardante la gestione della procedura fallimentare e il ventaglio di scelte accordate dal legislatore al curatore e non incide sul rapporto amministrativo e sui principi in materia di bonifica come sopra rappresentati. In secondo luogo, e soprattutto, il medesimo comma 3 si riferisce ai beni – quali ad esempio quelli derivanti da eredità o in forza di donazioni, le vincite ai giochi, i diritti d'autore – che entrano a diverso titolo nel patrimonio dell'imprenditore dopo la dichiarazione di fallimento e che sono oggetto di spossessamento: esso comunque comporta che, a seguito della rinuncia del creditore, l'imprenditore stesso gestisca i medesimi beni che restano suoi e comunque non si applica ai casi – quale quello all'esame del Collegio – in cui il bene, cioè l'immobile inquinato, risulti di proprietà dell'imprenditore al momento della dichiarazione del fallimento”.

D'altra parte, deve tenersi presente che, se è vero che per gli immobili di proprietà del fallito o sui quali costui vanti un diritto reale vi è, nella legge fallimentare, una disposizione ad hoc che individua le specifiche modalità con le quali il curatore deve procedere all'inventariazione (si allude all'art. 88 L.fall., comma 2), nel caso in cui, invece, l'immobile sia detenuto dall'imprenditore sulla base di un contratto di locazione o di affitto di azienda, l'inventariazione non avviene secondo le modalità previste dagli artt. 87 e ss., posto che la dichiarazione di fallimento non scioglie tali contratti e che in essi il curatore subentra automaticamente.

Si produrrebbe, pertanto, il seguente paradosso: il curatore di un fallimento che fosse conduttore di un immobile nel quale sono ubicati rifiuti risultanti dall'esercizio dell'attività di impresa non potrebbe evitare di diventare detentore dello stesso - e, dunque, secondo la impostazione dell'Adunanza Plenaria, dei rifiuti - mentre tale facoltà sarebbe data, mediante la non inventariazione, al curatore di un fallimento che dell'immobile in cui sono ubicati i rifiuti fosse proprietario.

2) Delle parole dell'Adunanza Plenaria è però prospettabile, come si è detto, una seconda lettura, in virtù della quale dovrebbe ritenersi che il Curatore sia qualificabile come detentore dell'immobile fin dal momento della pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, e che, pertanto, da tale momento egli abbia l'obbligo di gestire i rifiuti ivi ubicati.

Questa impostazione è senza dubbio più aderente a quella che sembra essere la ratio decidendi della sentenza (cioè che il curatore diviene titolare dell'obbligo di gestione dei rifiuti in quanto amministratore del patrimonio del fallito), con la precisazione che, alla luce del combinato disposto degli artt.27, 29, 31, 42, 84 e 87 L.fall., deve ritenersi che l'obbligo in questione nasca in capo al curatore al momento dell'accettazione dell'incarico.

Si noti che questa interpretazione è coerente con quanto l'Adunanza Plenaria afferma in altri importanti passaggi della sentenza in commento.

Si allude, in particolare, alla parte in cui si legge quanto segue: “nell'ottica del diritto europeo (che non pone alcuna norma esimente per i curatori), i rifiuti devono comunque essere rimossi, pur quando cessa l'attività, o dallo stesso imprenditore che non sia fallito, o in alternativa da chi amministra il patrimonio fallimentare dopo la dichiarazione del fallimento. L'art. 3, par. 1 punto 6, della direttiva n. 2008/98/CE definisce, infatti, il detentore, in contrapposizione al produttore, come la persona fisica o giuridica che è in possesso dei rifiuti (rectius: dei beni immobili sui quali i rifiuti insistono). Non sono pertanto in materia rilevanti le nozioni nazionali sulla distinzione tra il possesso e la detenzione: ciò che conta è la disponibilità materiale dei beni, la titolarità di un titolo giuridico che consenta (o imponga) l'amministrazione di un patrimonio nel quale sono compresi i beni immobili inquinati. Del resto, come ben precisa l'ordinanza di rimessione, neppure rileva un approfondimento della nozione della detenzione, se si ritiene sufficiente la sussistenza di un rapporto gestorio, inteso come ‘amministrazione del patrimonio altrui', ciò che certamente caratterizza l'attività del curatore fallimentare con riferimento ai beni oggetto della procedura. Per le finalità perseguite dal diritto comunitario, quindi, è sufficiente distinguere il soggetto che ha prodotto i rifiuti dal soggetto che ne abbia materialmente acquisito la detenzione o la disponibilità giuridica, senza necessità di indagare sulla natura del titolo giuridico sottostante”.

E ancora: “4. Peraltro, per la disciplina comunitaria (art. 14, par. 1, Direttiva n. 2008/98/CE), i costi della gestione dei rifiuti sono sostenuti dal produttore iniziale o dai detentori del momento o ancora dai detentori precedenti dei rifiuti. Questa regola costituisce un'applicazione del principio "chi inquina paga" (v. il ‘considerando' n. 1 della citata direttiva n. 2008/98/CE), nel cui ambito solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in definitiva, invocare la cd. ‘esimente interna' prevista dall'art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006. La curatela fallimentare, che ha la custodia dei beni del fallito, tuttavia, anche quando non prosegue l'attività imprenditoriale, non può evidentemente avvantaggiarsi dell'esimente di cui all'art. 192, abbandonando i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata. Nella qualità di detentore dei rifiuti, sia secondo il diritto interno, ma anche secondo il diritto comunitario (quale gestore dei beni immobili inquinati), il curatore fallimentare è perciò senz'altro obbligato a metterli in sicurezza e a rimuoverli, avviandoli allo smaltimento o al recupero”.

La tipologia di rifiuti rispetto ai quali, alla luce dell'apparato motivazionale della sentenza, sorge l'obbligo del curatore.

L'ulteriore questione che pare importante esaminare riguarda l'individuazione della tipologia di rifiuti rispetto a quali sorge l'obbligo del curatore.

Occorre, infatti, chiedersi, come s'è detto, se l'obbligo del curatore, rispetto a quanto accaduto prima della dichiarazione di fallimento, riguardi tutti i rifiuti ubicati presso l'immobile, chiunque ne sia stato il produttore, oppure soltanto i rifiuti che siano stati prodotti dall'imprenditore fallito.

Analizzando con attenzione la sentenza, sembra che si debba propendere per la seconda lettura.

Sebbene, infatti, nel principio di diritto enucleato dall'Adunanza Plenaria si faccia riferimento, genericamente, ai “rifiuti”, ed in alcuni passaggi della pronuncia, alla “presenza di rifiuti in un sito industriale”, sono numericamente preponderanti i passi nei quali il Giudice si riferisce a “rifiuti prodotti dall'impresa”, a “rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa cessata”, a “rifiuti risultanti dall'attività produttiva pregressa”, a rifiuti che costituiscono “diseconomie esterne generate dall'attività di impresa”.

D'altra parte, non potrebbe che essere così, se è vero che, in applicazione del principio “chi inquina, paga”, il patrimonio dell'impresa deve sostenere i costi derivanti dall'esercizio dell'impresa stessa, tra i quali vi è quello di gestione dei rifiuti generati dall'attività concretamente esercitata.

La questione potrebbe apparire di lana caprina, ma non lo è per nulla.

Occorre, infatti, tenere ben presente che, assai spesso, nelle aree immobiliari ove giacciono i rifiuti prodotti dall'imprenditore che le detiene, capita che vengano abbandonati da terzi ignoti quantitativi a volte elevatissimi di rifiuti di tutti i tipi, urbani e speciali, pericolosi e non pericolosi, venendosi di frequente a creare delle vere e proprie discariche.

Evidentemente, tali rifiuti non possono considerarsi prodotti dall'imprenditore che detiene l'area.

Se, dunque, le regole individuate dalla sentenza in commento valgono esclusivamente con riferimento ai rifiuti prodotti dall'imprenditore che detiene le aree nelle quali essi sono ubicati, si tratta di comprendere quale sia, invece, il regime a cui sono sottoposti i rifiuti che, pur trovandosi nell'immobile detenuto dall'imprenditore fallito, non sono stati da costui prodotti.

Anche in questo caso, se non si erra, la sentenza dell' Adunanza Plenaria fornisce uno spunto importante nella parte in cui si legge che la regola secondo la quale il curatore deve sostenere i costi di gestione dei rifiuti prodotti nell'esercizio dell'impresa dall'imprenditore fallito “…costituisce un'applicazione del principio "chi inquina paga" (v. il ‘considerando' n. 1 della citata direttiva n. 2008/98/CE), nel cui ambito solo chi non è detentore dei rifiuti, come il proprietario incolpevole del terreno su cui gli stessi siano collocati, può, in definitiva, invocare la cd. ‘esimente interna' prevista dall'art. 192, comma 3, d.lgs. n. 152 del 2006”.

A contrario, per ciò che attiene alla gestione dei rifiuti prodotti da terzi ed ubicati nell'immobile detenuto dal curatore, quest'ultimo non avrà alcun obbligo di gestione “automatico” e non dovrà sostenere i connessi costi, non essendo egli qualificabile come detentore di tali rifiuti.

In tal caso, infatti, gli oneri di gestione dei rifiuti prodotti da terzi potrebbero essere addossati al Fallimento soltanto laddove al curatore, in quanto detentore dell'immobile, fosse imputabile - a titolo di dolo o di colpa – la violazione, da parte di terzi, degli obblighi previsti dall'art. 192.

A quest'ultimo proposito, giova evidenziare che, secondo la giurisprudenza maggioritaria, il detentore dell'immobile nel quale siano presenti rifiuti prodotti da terzi può essere considerato esente da colpa se abbia prontamente segnalato all'autorità tale presenza.

Alla luce delle considerazioni sopra svolte, dunque, pare evidente che, non appena abbia accettato la nomina, il curatore di un fallimento dovrà procedere senza indugio alla classificazione dei rifiuti presenti presso gli immobili detenuti dall'imprenditore fallito, distinguendo, da un lato, i rifiuti ivi presenti prodotti dall'impresa e, dall'altro, i rifiuti ivi presenti prodotti dai terzi.

Si tratta di un'operazione senz'altro non facile, che sembra richiedere necessariamente l'ausilio di un esperto.

In linea di massima, si può dire che per individuare quali siano i rifiuti prodotti dall'impresa, il curatore dovrà:

- tenere presente che la attuale nozione di “produttore di rifiuti” è contemplata dall'art. 183, comma 1, lett. f), d.lgs. n. 152 del 2006, a mente del quale è produttore del rifiuto “..il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile tale produzione (produttore iniziale)”.

- analizzare, in concreto, la conformazione dei cicli produttivi dell'imprenditore fallito (cioè, dell'organizzazione materiale con la quale viene esercitata l'attività che produce rifiuti) e i luoghi presso i quali essi sono ubicati, per verificare quali siano gli scarti da ciascuno di essi originati;

- verificare se tali residui siano presenti in loco;

- valutare se essi siano qualificabili come rifiuti oppure come sottoprodotti.

Così individuati i rifiuti risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa fallita - dei quali il curatore dovrà considerarsi detentore in quanto detentore dell'immobile ove essi sono ubicati, con i conseguenti oneri di gestione -, risulteranno individuati, a contrario, anche quelli non risultanti dall'attività imprenditoriale dell'impresa fallita, dei quali il curatore non dovrà considerarsi detentore.

La distinzione così operata avrà rilievo anche per ciò che attiene all'eventuale irrogazione della sanzione ex art. 192 L.fall.

Infatti, nel caso in cui l'ordinanza abbia ad oggetto rifiuti prodotti dall'imprenditore fallito, essa potrà legittimamente avere come proprio destinatario anche il curatore, senza che sia necessaria alcuna valutazione circa l'elemento soggettivo: come si legge nella pronuncia dell'Adunanza Plenaria, infatti, “il principio"chi inquina paga" non richiede, nella sua accezione comunitaria, anche la prova dell'elemento soggettivo, né l'intervenuta successione. Pertanto, la responsabilità della curatela fallimentare può analogamente prescindere dall'accertamento dell'esistenza di un nesso di causalità tra la condotta e il danno constatato”.

Viceversa, nel caso in cui l'ordinanza abbia ad oggetto rifiuti prodotti da soggetti terzi, diversi dall'imprenditore fallito, essa potrà legittimamente avere come proprio destinatario il curatore soltanto nel caso in cui la presenza di tali rifiuti sia imputabile a dolo o colpa del curatore stesso, nel qual caso ci si dovrà interrogare sulla possibilità di addossare o meno alla massa i relativi costi.

In definitiva, comunque, per evitare rischi, conviene che il curatore, non appena abbia avuto accesso agli immobili detenuti dal fallito, segnali immediatamente all'autorità la presenza di rifiuti, siano essi stati prodotti o meno dall'imprenditore fallito.

Ciò anche, e forse soprattutto, considerando che l'eventuale mancata menzione, nell'inventario dei beni mobili, dei rifiuti derivanti dall'attività di impresa e/o la mancata inventariazione degli immobili ai sensi degli art. 87 ss. L.fall., non consentono, secondo la Adunanza Plenaria, di evitare la sottoposizione degli stessi alla detenzione del curatore, detenzione che è ciò che rileva ai fini della individuazione del soggetto su cui gravano gli obblighi di gestione previsti dal d.lgs. n. 152 del 2006.

Conclusioni

La sentenza in commento solleva numerose questioni problematiche, che si è cercato, in parte, di individuare ed illustrare, per sommi capi, nelle pagine precedenti.

Altre ve ne sarebbero, alle quali si può, in questa, sede soltanto accennare: si pensi per esempio, alla mancata considerazione di come giochi sull0intera vicenda la facoltà di derelizione di cui all'art. 104 ter, comma 8, L. fall.; alle ipotesi in cui, nell'attivo del fallimento, non vi è la liquidità necessaria per “sopportare” immediatamente i costi connessi alla gestione dei rifiuti, ma essa potrebbe essere reperita proprio liquidando l'immobile – ove esso sia di proprietà dell'imprenditore - la cui detenzione costituisce il presupposto dell'obbligo del curatore: come inciderà l'esistenza di tale obbligo sulla valutazione dell'immobile in sede di stima? I costi di gestione dei rifiuti potranno essere “interiorizzati” nella stima, prevedendosi l'obbligo dell'acquirente di sostenerli, così come eventualmente quantificati nella perizia? Il passaggio della detenzione dell'immobile all'acquirente, libererà il Fallimento dall'obbligo di sostenere i costi di gestione dei rifiuti, laddove l'acquirente stesso, successivamente, non provveda?

E poi ancora: quali ricadute avrà la lettura dell'Adunanza Plenaria sulla individuazione delle responsabilità addossabili all'imprenditore fallito in sede civile e penale?

In definitiva, se sul fronte della giustizia amministrativa la questione è, forse, risolta, il contenzioso sembra, invece, destinato ad aumentare in sede civile/fallimentare.

Guida all'approfondimento

G. Vivoli, Le responsabilità del curatore in caso di abbandono dei rifiuti, in Riv. Giur. Ambientediritto.it, 2020, in www.rgaonline.it;

L'D'Orazio, Il curatore fallimentare e lo smaltimento dei rifiuti. Un sospiro di sollievo, in Il Fallimento, 2018, 593 – 601.

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