L'obbligo vaccinale nell'alveo applicativo dell'art. 2087 c.c.

Paolo Patrizio
29 Marzo 2021

La permanenza dei ricorrenti nel luogo di lavoro comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. il quale impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei suoi dipendenti...
Massime

La permanenza nel luogo di lavoro (casa di riposo) di personale sanitario che ha rifiutato la somministrazione del vaccino Pfizer comporterebbe per il datore di lavoro la violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c. che impone al datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei suoi dipendenti.

E' ormai notorio che tale vaccino - notoriamente offerto, allo stato, soltanto al personale sanitario e non anche al personale di altre imprese, stante la attuale notoria scarsità per tutta la popolazione - costituisce una misura idonea a tutelare l'integrità fisica degli individui a cui è somministrato, prevenendo l'evoluzione della malattia.

Il datore di lavoro ha legittimamente posto in ferie forzate il personale non vaccinato posto che l'art. 2109 c.c. dispone che il prestatore di lavoro ha "diritto ad un periodo annuale di ferie retribuito, possibilmente continuativo nel tempo, che l'imprenditore stabilisce, tenuto conto delle esigenze dell'impresa e degli interessi del prestatore di lavoro“; nel caso di specie prevale, sull'eventuale interesse del prestatore di lavoro ad usufruire di un diverso periodo di ferie, l'esigenza del datore di lavoro di osservare il disposto di cui all'art. 2087 c.c.

Il caso

La vicenda in esame si articola su di un ricorso cautelare ex art. 700 c.p.c, promosso da alcuni infermieri ed operatori sanitari di una casa di riposo del bellunese in reazione alla decisione, assunta dalla R.S.A datrice di lavoro, di porli in ferie “forzate” a seguito del rifiuto, dai medesimi espresso, di sottoporsi alla somministrazione del vaccino Pfizer.

Il personale interessato, aveva, pertanto, immediatamente sottoposto la questione in via d'urgenza al vaglio della competente Autorità Giudiziaria, lamentando l'illegittimità della decisione datoriale ed invocandone la stigmatizzazione, sul presupposto della incomprimibilità della libertà di scelta vaccinale prevista dall'ordinamento italiano ed, in particolar modo, dalla Carta costituzionale e paventando, al contempo, il pericolo della sospensione dal lavoro senza retribuzione e, finanche, del licenziamento.

A detta della datrice di lavoro, invece, l'adozione di tale misura sarebbe stata necessitata dall'esigenza di correttamente ottemperare al disposto dell'art. 2087 c.c., che pone a carico della parte datoriale l'onere di garantire la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro, essendo elevato il rischio di possibile contrazione del virus Covid-19 da parte degli operatori de quo, in considerazione della peculiarità delle mansioni sanitarie svolte a contatto diretto con altro personale medico e con l'utenza della RSA.

La questione

La decisione in esame riapre il dibattito sulla concreta portata della legislazione estensiva in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ed, in particolare, sull'adeguamento progressivo della posizione di garanzia “aperta” imposta al datore di lavoro dall'art 2087 c.c., in rapporto all'evoluzione medico/scientifica ed in relazione all'analisi di bilanciamento dei valori e principi in gioco.

La soluzione giuridica

Il Tribunale di Belluno, con un provvedimento estremamente sintetico ma dai forti e chiari contenuti motivazionali, ha respinto il ricorso promosso dagli operatori socio sanitari e dal personale infermieristico, legittimando la correttezza della decisione datoriale, siccome assunta in puntuale adempimento dell'obbligo di garanzia posto dall'art. 2087 c.c.

È infatti notorio, scrive il Giudice di prime cure, che il vaccino costituisce misura idonea a tutelare l'integrità fisica degli individui a cui è somministrato prevenendo l'evoluzione della malattia e, posto che i ricorrenti sono operatori sanitari impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro, il rischio di contrarre il virus, in assenza di vaccino, può ritenersi concreto ed elevato, tale per cui la permanenza di tale personale nel luogo di lavoro comporterebbe la violazione dell'obbligo di cui al citato art. 2087 c.c.

Nel caso di specie, inoltre, rispetto all'interesse potenziale del prestatore di lavoro di poter usufruire di un diverso periodo di ferie, prevarrebbe senza meno l'esigenza del datore di lavoro di adempiere alla posizione di garanzia imposta dalla normativa in materia di prevenzione, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, con la conseguente adozione di tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica dei suoi dipendenti.

Conclude, infine, il Tribunale Bellunese, evidenziando, l'insussistenza finanche del periculum in mora, ricondotto da parte ricorrente alla possibilità di sospensione dal lavoro senza retribuzione e di licenziamento, non essendo stato allegato alcun elemento da cui poter desumere l'intenzione del datore di lavoro di procedere all'adozione di siffatti, ulteriori provvedimenti.

Osservazioni

La pronuncia in esame rappresenta, senza dubbio, uno dei primi interventi di analisi sul tema della concreta portata ed attuazione della legislazione estensiva in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro ed, in particolare, sull'adeguamento progressivo della posizione di garanzia “aperta” imposta al datore di lavoro dall'art 2087 c.c., in rapporto all'evoluzione medico/scientifica, all'intervenuta disponibilità vaccinale ed all'analisi di bilanciamento dei valori e principi in gioco, in considerazione delle differenti disposizioni normative involte e del profilo dei “pesi e contrappesi” che vengono in rilievo.

Il nodo gordiano dell'arresto giurisprudenziale in commento si cristallizza, infatti, sulla sintetica disamina del sostanziale obbligo di prevenzione e protezione che incombe sul datore di lavoro in base alla complessiva normativa posta a sostegno della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro e che trova, nell'alveo dell'art. 2087 c.c., una vera e propria previsione in bianco di chiusura del sistema.

Per espressa disposizione legislativa, invero, “...l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.

Evidente, dunque, la ratio sottesa a detto approccio estensivo della posizione di garanzia imposta a parte datoriale, caratterizzata dalla rigerenerazione evolutiva dei propri ambiti applicativi in stringente e diretta derivazione rispetto ai costanti progressi tecnologici, scientifici, medici ed esperienziali, che via via intervengono a veicolare nuove e migliori tecniche di tutela, prevenzione e sicurezza.

Il fine è chiaramente quello di dotare l'ordinamento di un meccanismo che possa fungere da raccordo rispetto alla complessiva produzione regolamentare e normativa in tema di salvaguardia e prevenzione nel contesto lavorativo, ma che sappia anche (e soprattutto) comportare ex sé l'adeguamento automatico della propria portata operativa rispetto al diverso incedere dell'innovazione e del progresso nei vari comparti e settori del mondo produttivo, consentendo al sistema di garanzia di beneficiare costantemente di una normazione di protezione, che rappresenti il “collo d'imbuto” di ogni considerazione ed analisi in materia.

Ed è così, pertanto, che l'obbligo e l'ambito di intervento datoriale in funzione tutelante è costretto ad articolarsi e destreggiarsi nel combinato disposto della richiamata previsione di chiusura (o forse sarebbe meglio dire di apertura) del sistema sancita dall'art 2087 c.c. ed una stratificazione normativa di settore che, ad alterne velocità, nondimeno interviene a disciplinare con rigore l'assetto di prevenzione, protezione e salvaguardia della salute e sicurezza suoi luoghi di lavoro.

Si pensi, ad esempio (e senza alcuna presunzione di esaustività) alla stringente normativa dettata dal d.lgs. n. 81/2008 meglio noto come Testo Unico sulla sicurezza sui luoghi di lavoro (che, tra le tante, all'art. 28 stabilisce che la valutazione "deve riguardare tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari"; all'art. 20 prevede che ogni lavoratore deve prendersi cura della salute e sicurezza propria, nonché di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, sulle quali ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni ed è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dal datore di lavoro aventi ad oggetto la protezione collettiva ed individuale; mentre agli artt. 266 e ss. si concentra sui rischi di esposizione ad agenti biologici e sulla necessità di disporre l'allontanamento temporaneo del lavoratore per inidoneità alla mansione) piuttosto che al Documento di valutazione dei rischi aziendale ed alla sorveglianza sanitaria del medico del lavoro, sino ad approdare alla normazione di matrice pandemica attuata con il Protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus Covid-19 negli ambienti di lavoro.

Ebbene, tutta la normativa succintamente richiamata, per questioni di contenimento della trattazione, lascia nondimeno intonsa la facoltà/obbligo del datore di lavoro di prevedere ed applicare ulteriori misure migliorative che dovessero rendersi necessarie, in adempimento di quella diligenza continuativa che trova nell'art. 2087 c.c. il proprio corollario e che si traduce in permanente ricerca di ogni misura di prevenzione che l'esperienza, la scienza e la tecnica nel tempo suggeriscono.

Ed è allora su tale contesto di riferimento che va necessariamente analizzata la pronuncia in commento e la sottesa condotta datoriale di valutazione del rischio concreto di contagio sul luogo di lavoro e di individuazione della copertura vaccinale quale misura di tutela approntata dal progresso medico/scientifico per garantire la salute e la sicurezza degli operatori sociosanitari e dei terzi sul luogo di lavoro, con conseguente decisione di porre in ferie forzate il personale rifiutatosi di sottoporsi al vaccino, per allontanare il rischio di contrazione del virus in RSA.

A ben vedere, infatti, il punto nodale nell'analisi della vicenda in commento, non attiene alla censura della condotta datoriale per assenza di una espressa previsione normativa impositiva dell'obbligo vaccinale, quanto piuttosto alla valutazione della corretta osservanza della posizione di garanzia posta a carico del datore di lavoro, nel rispetto della richiamata normativa a tutela della salute e sicurezza dei luoghi di lavoro e delle obbligazioni di condotta a carico di tutti i protagonisti della vicenda lavorativa stricto sensu.

Come rilevato dal Tribunale bellunese, è infatti noto che il vaccino costituisce misura idonea a tutelare l'integrità fisica degli individui a cui è somministrato prevenendo l'evoluzione della malattia e, posto che i ricorrenti sono operatori sanitari impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro, il rischio di contrarre il virus, in assenza di vaccino, può ritenersi concreto ed elevato, tanto da inserire il comparto nel novero dei destinatari prioritari delle dosi vaccinali, ragion per cui la permanenza di tale personale nel luogo di lavoro comporterebbe la violazione dell'obbligo di cui al citato art. 2087 c.c.

In tale prospettiva, dunque, si potrebbe giocoforza ritenere non solo che la scelta assunta dalla datrice di lavoro risulti conforme alla evidenziata legislazione codicistica e primaria diffusamente indicata, ma che la stessa appaia addirittura sussumibile nell'alveo di copertura dello stesso art. 32 della Costituzione, sotto forma di condotta di protezione della salute collettiva, intesa in senso non limitato ai lavoratori interessati dal provvedimento ma, anche e (forse) soprattutto, ai terzi in diretto contatto con gli stessi, in attuazione del noto principio del neminem laedere di sempreverde attuazione.

Appare allora altresì evidente che, come correttamente rilevato dal Giudice di prime cure, dinanzi ad una scelta di tutela così pregnante, estesa e giustificata, l'interesse degli operatori sociosanitari alla libera determinazione alternativa di un diverso periodo di ferie ai sensi dell'art 2109 c.c., risulta certamente non prevalente rispetto all'esigenza datoriale di adempiere alla posizione di garanzia impostagli dalla normativa in materia di prevenzione, salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, fermo restando, in ogni caso, il non secondario profilo di permanenza della valutazione di fruibilità del periodo feriale rispetto alle esigenze produttive ed organizzative dell'azienda.

Nulla, invece, da osservare in merito alla rilevata insussistenza del periculum in mora, in relazione alla possibilità di sospensione dal lavoro senza retribuzione e di licenziamento, per insufficienza deduttiva e probatoria ad opera di parte ricorrente, nondimeno evidenziando l'importanza di una eventuale siffatta opzione decisionale ad appannaggio datoriale, quale argomento di evidente correlazione e sviluppo connettivo delle considerazioni di commento oggetto della presente trattazione, come tale meritevole di un'analisi a sé, di impossibile realizzazione odierna per le esigenze di contingenza della narrazione.

Il caso in esame, in conclusione, ci consegna una prima ipotesi “pilota” e circostanziale di concreta modalità gestionale dell'obbligazione vaccinale nel contesto lavorativo e che, lungi dal rappresentare un caso di compressione del diritto alla salute sotto forma di imposizione vaccinale ingiustificata e normativamente non prevista, parrebbe integrare, a buon titolo, una dimostrazione di corretta applicazione della normativa di garanzia posta a presidio della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, oltre che di simultanea attuazione espansiva della tutela e della portata dell'art 32 della Cost. in ottica ultraindividuale ed a beneficio collettivo.

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