Nullità del trasferimento d’azienda e obbligazione retributiva nelle more della riassuzione da parte del cedente
29 Marzo 2021
Massima
A seguito di dichiarazione giudiziale dell'illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda e di condanna dell'(ex) cedente al ripristino del rapporto di lavoro, anche ammettendo che nel periodo intercorrente tra la costituzione in mora e l'effettiva riassunzione il lavoratore abbia diritto, nei confronti del cedente, non al mero risarcimento del danno bensì alla retribuzione, laddove il lavoratore abbia continuato a rendere la prestazione nella medesima organizzazione aziendale e sia stato retribuito per tale prestazione dall'(ex) cessionario, l'adempimento di quest'ultimo è idoneo ad estinguere l'obbligazione retributiva dell'(ex) cedente. Il caso
Con la pronuncia in esame la Corte d'Appello di Trento, ponendosi consapevolmente in contrasto con la più recente giurisprudenza di legittimità, ha confermato integralmente il tenore della sentenza resa dal Giudice trentino di prime cure nell'ormai nota vicenda “Telecom”, tra dichiarazioni giudiziali di nullità del trasferimento di ramo d'azienda ed inadempimento dell'obbligo di ripristino dei rapporti di lavoro.
Ripercorrendo un contenzioso che ha impegnato e continua ad impegnare i giudici di merito di numerose Regioni italiane, anche nel caso di specie è stata accertata, con sentenza passata in giudicato, l'illegittimità del trasferimento del ramo d'azienda operato da Telecom Italia S.p.a. (d'ora in poi, per brevità, Telecom) in favore di Shared Service Center S.r.l., con conseguente inopponibilità della cessione ai lavoratori.
Tuttavia, a fronte dell'accertamento operato dalla sentenza n. 48/2015 del Tribunale di Trento, Telecom non ottemperava all'ordine giudiziale di riassunzione e rifiutava le prestazioni formalmente offerte dai lavoratori, con relativa costituzione in mora dell'(ex) cedente a far data dal 1° aprile 2015.
Soltanto in data 1° gennaio 2017 Telecom Italia S.p.a. tornava ad assumere la qualità di datore di lavoro, incorporando per fusione l'(ex) cessionaria Shared Service Center S.r.l.
Medio tempore, i lavoratori avevano continuato a rendere la propria prestazione lavorativa nell'ambito della medesima organizzazione aziendale ed erano stati retribuiti, per tale prestazione, dall'(ex) cessionaria.
In considerazione della più recente evoluzione giurisprudenziale sul punto, fondata sullo “sdoppiamento” del rapporto intrattenuto dai lavoratori, uno de facto con l'(ex) cessionario e uno de iure con l'(ex) cedente, nel 2019 i lavoratori adivano il Giudice del Lavoro di Trento, per sentire condannare Telecom Italia S.p.a., (ex) cedente, al pagamento di tutte le retribuzioni maturate nel periodo intercorrente tra la formale messa in mora e l'effettiva riassunzione.
Il Tribunale rigettava il ricorso e riteneva insussistenti le ragioni di credito vantate dai lavoratori nei confronti dell'(ex) cedente, dovendo detrarre gli importi già corrisposti nel medesimo periodo a titolo di retribuzione dall'(ex) cessionario, sulla scorta dell'unicità del rapporto di lavoro e del vincolo di solidarietà tra le due aziende.
La pronuncia della Corte d'appello qui in esame ha confermato la statuizione di primo grado, condividendone ed ampliandone le ragioni di discostamento dalla più recente giurisprudenza di legittimità. La questione
Con la sentenza in epigrafe si ha modo di affrontare il secondo atto di un contenzioso seriale, esteso su tutto il territorio nazionale ed originato dall'illegittimità dei trasferimenti di ramo d'azienda Telecom, nonché dall'inadempienza di quest'ultima rispetto al correlativo ordine di ripristino dei rapporti di lavoro.
In tale contenzioso, i lavoratori, a seguito della mancata riassunzione presso l'(ex) cedente e la sua formale messa in mora ai sensi dell'art. 1206 c.c., hanno adito le Corti territoriali, chi con ricorso per ingiunzione di pagamento a cui è seguita opposizione, chi con ricorso ordinario (come nel caso che ci impegna), chiedendo la condanna di Telecom Italia S.p.a. al pagamento delle somme maturate dagli stessi per tutto il periodo in cui è perdurata la mora credendi.
Quantomeno sino alla pronuncia della Corte costituzionale n. 29/2019, al fine di stabilire la debenza o meno delle somme rivendicate dai lavoratori, i giudici, sia di merito che di legittimità, ritenevano di dover prendere le mosse dalla natura dell'obbligazione gravante in capo all'(ex) cedente, risarcitoria o retributiva.
Concludere nell'uno o nell'altro senso aveva ricadute immediate sulla detraibilità o meno delle somme medio tempore corrisposte ai lavoratori da parte dell'(ex) cessionario.
La questione della natura dell'obbligazione gravante sull'(ex) cedente moroso è apparsa sin da subito dirimente agli occhi di quella giurisprudenza che, sul presupposto dell'unicità del rapporto intrattenuto dal lavoratore e del principio di corrispettività delle prestazioni ad esso sotteso, non aveva dubbi sul fatto che la mancanza di prestazione lavorativa in favore dell'(ex) cedente escludesse il diritto alla retribuzione e determinasse “a carico del datore di lavoro, che ne è responsabile, l'obbligo di risarcire i danni, eventualmente commisurati alle mancate retribuzioni” (ex plurimis, Cass. n. 18955/2014).
Dalla qualificazione in termini risarcitori della pretesa del lavoratore non poteva che discendere la detraibilità dell'aliunde perceptum - e pertanto della retribuzione corrisposta dall' (ex) cessionario nel periodo di morosità dell'(ex) cedente, spesso con conseguente “azzeramento” della pretesa creditoria azionata – in considerazione della funzione esclusivamente satisfattivo-compensativa tradizionalmente riconosciuta dal nostro ordinamento all'istituto del risarcimento del danno.
È proprio il risultato pratico conseguito da tale orientamento che ha destato più di qualche perplessità e che ha cominciato a far vacillare la solidità dello stesso: di fatto l'(ex) cedente non incorreva in alcuna conseguenza dall'omettere il materiale ripristino dei rapporti di lavoro sancito con pronuncia giudiziale.
In altre parole, i rigidi risvolti della sinallagmaticità del rapporto di lavoro entravano in tensione con l'esigenza di garantire l'effettività delle pronunce di accertamento giudiziale della nullità dei trasferimenti di ramo d'azienda. Tensione confermata ed acuita dalla prassi, laddove numerose (ex) cedenti hanno cominciato ad omettere il ripristino dei rapporti di lavoro in attesa e nella speranza di una riforma in Cassazione delle sentenze dichiarative dell'illegittimità dei trasferimenti, rimanendo sostanzialmente privo di conseguenze il loro inadempimento.
Per porre rimedio alla stortura descritta, si è allora pensato che fosse sufficiente mutare orientamento in merito alla natura dell'obbligazione gravante in capo all'(ex) cedente; in tal senso, la Corte d'appello di Roma, con l'ordinanza del 2 ottobre 2017, stimolava una pronuncia del Giudice delle leggi nel senso dell'incostituzionalità di quel diritto vivente che sino ad allora aveva configurato in termini risarcitori l'obbligazione dell'(ex) cedente moroso.
I medesimi dubbi di costituzionalità sono quelli che portano le Sezioni Unite di Cassazione, in materia di interposizione fittizia di manodopera, a rivedere la posizione della giurisprudenza di legittimità sulla natura risarcitoria dell'obbligazione in capo al committente moroso e a fornire un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 1453 c.c. sui contratti a prestazioni corrispettive, ritenendo necessario “superare gli stretti confini della ritenuta corrispondenza tra la continuità della prestazione e la debenza della relativa obbligazione retributiva” (Cass. SS.UU. n. 2990/2018).
La revisione del principio di diritto è chiara: accertata l'illegittimità del contratto di somministrazione/appalto, l'omesso ripristino del rapporto di lavoro ad opera del committente determina l'obbligo di quest'ultimo di corrispondere le retribuzioni a decorrere dalla messa in mora. Tuttavia, con specifico riferimento all'interposizione fittizia, vengono comunque fatti salvi gli effetti dell'art. 29, comma 3 bis, d.lgs. 276/2003, dovendo quindi considerare satisfattivi i pagamenti dell'appaltatore rispetto al credito retributivo vantato dai lavoratori nei confronti del committente moroso.
Proprio il risultato pratico conseguito dalla pronuncia delle Sezioni Unite (ovverosia, comunque il rigetto della domanda dei lavoratori) fa emergere come la qualificazione in termini retributivi dell'obbligazione in capo all'(ex) cedente moroso anche nel trasferimento illegittimo di ramo d'azienda non comporti de plano la non detraibilità delle somme corrisposte dall'(ex) cessionario.
Di questo è ben consapevole la Corte costituzionale, che pur condividendo i dubbi di costituzionalità sull'interpretazione risarcitoria (tanto da sposare la lettura costituzionalmente orientata fornita dalle Sezioni Unite nel 2018 ed estenderla all'ipotesi di illegittimità della cessione del ramo d'azienda – dichiarando conseguentemente infondata la questione sollevata dalla C.d.A. di Roma), avverte che, nonostante la definizione in senso retribuivo della natura delle somme dovute dall'(ex) cedente, resta aperta (rectius, si apre) la valutazione sulla detraibilità delle somme già percepite dell'(ex) cessionario; in altre parole, l'ulteriore questione interpretativa che dovrà essere affrontata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità concerne “il diritto del lavoratore ceduto, già retribuito dal cessionario, di rivendicare la retribuzione anche nei confronti del cedente” (Corte cost. n. 29/2019).
Su tale questione, l'approdo a cui sono pervenute le Sezioni semplici di Cassazione non sta raccogliendo i consensi di numerose Corti territoriali, tra cui quella in esame. Le soluzioni giuridiche
A pochi mesi dalla pronuncia della Corte costituzionale è il giudice di legittimità a dover affrontare la questione della detraibilità o meno delle somme corrisposte dall'(ex) cessionario.
In particolare, le Sezioni semplici di Cassazione inaugurano, con le sentenze gemelle n. 17784 e n. 17785 del 3 luglio 2019, una costruzione giuridica della vicenda che la giurisprudenza di merito, sempre più frequentemente, dimostra di non condividere, in quanto “significa pervenire a un'analisi parcellizzata e astratta non aderente alla realtà dei rapporti giuridici” (per usare le parole della sentenza della Corte d'Appello trentina).
Pertanto, una piena comprensione delle argomentazioni spese dalla pronuncia qui in esame presuppone una conoscenza, seppur sommaria, dei contenuti enunciati dalla giurisprudenza di legittimità.
Ebbene, la Sezione Lavoro della Corte di cassazione, ferma la natura retributiva dell'obbligazione in capo all'(ex) cedente moroso, ritiene di dover dipanare la questione della detraibilità o meno delle somme corrisposte dall'(ex) cessionario ponendosi in continuità e, pertanto, muovendo necessariamente dagli esiti interpretativi delle Sezioni Unite del 2018 e della Corte costituzionale n. 29/2019.
Pertanto, la costruzione giuridica offerta da Cass., sez. lav., n. 17784/2019 e n. 17785/2019 risulta guidata da quella specifica finalità che aveva condotto le Sezioni Unite prima, il Giudice delle leggi poi, a rivedere la natura risarcitoria dell'obbligazione in capo all'(ex) cedente moroso, ovverosia garantire l'effettività della tutela giurisdizionale chiesta ed ottenuta dai lavoratori con l'accertamento dell'illegittimità del trasferimento del ramo d'azienda.
Gli istituti giuridici che vengono richiamati conducono ad una duplicità dei rapporti intrattenuti dal lavoratore. Da un lato, la dichiarazione di nullità della cessione del ramo d'azienda non determina alcuna vicenda traslativa del rapporto di lavoro, che rimane unico e resta nella titolarità dell'originario cedente; tuttavia, l'inadempienza di quest'ultimo rispetto al materiale ripristino determina una prosecuzione del rapporto di lavoro soltanto “di diritto”. Nell'ambito di questo rapporto “de iure” intercorrente tra lavoratore ed (ex) cedente, l'applicazione della disciplina della mora credendi (artt. 1206, 1207, 1217 c.c.) impone di equiparare la messa a disposizione delle energie lavorative del dipendente all'utilizzazione effettiva, con conseguente obbligo per il datore di lavoro moroso di pagare la controprestazione retributiva.
D'altra parte il lavoratore, nel periodo di morosità dell'(ex) cedente, rende materialmente una prestazione lavorativa in favore dell'(ex) cessionario: trattasi di un rapporto de facto, autonomo e distinto da quello intercorrente di diritto tra il medesimo lavoratore e l'(ex) cedente. Nel rapporto di fatto l'attività lavorativa viene resa esclusivamente a vantaggio dell'(ex) cessionario, che, infatti, la retribuisce.
In altre parole, due rapporti distinti, due diverse prestazioni in capo al lavoratore (una resa de iure una de facto), due diverse controprestazioni retributive.
Ad avviso della giurisprudenza di legittimità non è possibile individuare alcun contatto o punto di incontro tra i due rapporti intrattenuti dal lavoratore, l'uno con l'(ex) cedente e l'altro con l'(ex) cessionario. Ne consegue che le retribuzioni corrisposte dal destinatario della cessione, dopo la dichiarazione giudiziale di illegittimità, non producono alcun effetto estintivo dell'obbligazione retributiva gravante sul datore di lavoro moroso.
La non detraibilità della retribuzione corrisposta dall'(ex) cessionario funge allora da inevitabile deterrente rispetto al protrarsi del mancato ripristino dei rapporti di lavoro, così garantendo l'effettività della pronuncia giudiziale di nullità del trasferimento del ramo d'azienda.
Nonostante la coerenza tra le finalità, le premesse ed il risultato conseguito, la costruzione giuridica offerta dalle Sezioni semplici della Cassazione in merito alla questione detraibilità o meno delle somme corrisposte dall'(ex) cessionario non convince numerosi giudici di merito, chiamati anch'essi a decidere la medesima questione all'indomani della definizione retributiva dell'obbligazione in capo all'(ex) cedente moroso.
Una delle prime pronunce di merito a prendere le distanze da Cass. n. 17785/2019 (e successive) è proprio la sentenza del Tribunale di Trento n. 86/2020, le cui argomentazioni sono state pienamente sposate (ed ampliate) dalla relativa pronuncia di appello, qui in esame.
Con il presente contributo non si vuole tornare sulla prima battuta della querelle, ovverosia quella concernente la natura del diritto del lavoratore nei confronti del datore di lavoro moroso (risarcitoria o retributiva), anche se sul punto la Corte d'appello di Trento tiene a ribadire (sino a pagina 17 della sentenza) il proprio dissenso rispetto all'interpretazione “costituzionalmente orientata” delle Sezioni Unite, “non ravvisando nelle disposizioni costituzionali ragioni per mutare il titolo di reintegrazione patrimoniale che si costituisce in capo al datore di lavoro inadempiente agli obblighi di collaborazione, costituito in mora ex art. 1207 c.c.”.
Pur intimamente convinta della natura risarcitoria, la Corte d'appello di Trento si sforza comunque di ragionare sulla detraibilità o meno delle somme corrisposte dall'(ex) cessionario prendendo come dato di partenza la natura retributiva dell'obbligazione dell'(ex) cedente moroso.
Nel prendere in considerazione la costruzione giuridica operata dalle Sezioni semplici di Cassazione (con la configurazione di un rapporto de iure accanto ad uno de facto), la Corte distrettuale manifesta in più punti le difficoltà ad aderire alla soluzione offerta dalla più recente giurisprudenza di legittimità a causa del carattere eccessivamente astratto della stessa.
Infatti, i Giudici trentini ritengono che, pur considerando l'obbligo di natura retributiva in capo al datore di lavoro moroso, “in ogni caso le conseguenze non possono essere quelle ricavate dalle sezioni semplici, con pronunce reiterate, che costruiscono su quelle delle Sezioni Unite e della Corte Costituzionale fattispecie astratte”, pervenendo appunto ad un'analisi “astratta non aderente alla realtà dei rapporti giuridici”.
In altre parole, la Corte evidenzia le difficoltà applicative della costruzione giuridica offerta dalla Cassazione (fondata sulla duplicità dei rapporti intrattenuti dal lavoratore) da parte di un giudice del merito, che rimane necessariamente ancorato al quadro fattuale così come dedotto ed accertato in causa.
Ecco allora che la Corte distrettuale non trova verosimile configurare una sorta di “sdoppiamento” dei rapporti e delle prestazioni in capo al lavoratore (una resa soltanto di diritto nei confronti del datore di lavoro moroso, una resa di fatto nei confronti dell'(ex) cessionario) laddove “nella fattispecie concreta in esame non vi è mai stata una estromissione dall'azienda e i lavoratori hanno continuato a rendere la prestazione nella stessa organizzazione aziendale sia prima che dopo la cessione, sia, infine, dopo la re-incorporazione della cessionaria da parte della cedente”.
In altre parole, la costruzione giuridica dei giudici di legittimità parrebbe stridere con la materialità dei fatti, sostanzialmente rimasti immutati lungo tutte le vicende traslative e le successive vicende giudiziarie di illegittimità del trasferimento operato.
I giudici trentini, pertanto, rifiutano “una scissione del tutto astratta, sul piano giuridico, della imputabilità a due rapporti distinti dell'unica relazione materiale della prestazione di lavoro nell'ambito di una identica organizzazione aziendale”.
Vi è allora un unico rapporto di lavoro, quello intercorrente tra lavoratore ed (ex) cedente, con un'unica prestazione materiale resa dal lavoratore ed un'unica controprestazione retributiva gravante sull'(ex) cedente, adempiuta da un terzo, l'(ex) cessionario. Quest'ultimo, stante l'illegittimità della cessione, non intrattiene alcun rapporto con il lavoratore, tanto da porsi come “terzo” rispetto all'unico rapporto di lavoro intercorrente tra lavoratore ed (ex) cedente.
L'unica relazione che l'(ex) cessionario continua ad intrattenere, ed in ragione della quale adempie all'obbligazione retributiva altrui, è quella con l'(ex) cedente, non rimanendo tale rapporto travolto dalla pronuncia giudiziale di illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda resa tra cedente e lavoratore.
Pertanto, in considerazione dell'adempimento del terzo ex art. 1180 c.c., la pretesa retributiva avanzata dai lavoratori nei confronti dell'(ex) cedente moroso è infondata, in quanto già pienamente soddisfatta dalla retribuzione corrisposta dall'(ex) cessionario.
Dalle ultime righe della pronuncia in esame emerge, seppur rapidamente, un'ulteriore preoccupazione che avrebbe spinto la Corte distrettuale a discostarsi dalla costruzione offerta dalle Sezioni semplici di Cassazione (oltre a quella di fornire una costruzione maggiormente aderente al dato fattuale): l'introduzione, ad opera della giurisprudenza, di un danno punitivo, che si verrebbe a celare dietro all'asserita natura retributiva dell'obbligazione in capo all'(ex) cedente moroso ed alla non detraibilità delle somme corrisposte dall'(ex) cessionario. Uno strumento che la Corte d'appello non ritiene utilizzabile nemmeno al fine di perseguire e garantire l'effettività della pronuncia giudiziale.
Ebbene, a fronte della nuova questione da dipanare (detraibilità o meno delle somme corrisposte dell'ex cessionario, data la natura retributiva dell'obbligazione in capo all'ex cedente moroso), si rinnova la frammentazione del tessuto giurisprudenziale italiano, nell'ambito di una vicenda estesa sull'intero territorio nazionale, che meriterebbe invece una certa uniformità di trattamento. Frammentazione che si riscontra non solo tra giudici di Regioni diverse, ma addirittura tra giudici di primo e secondo grado della medesima città.
Infatti, se nel distretto trentino il discostamento dalla giurisprudenza di legittimità inaugurato dal Tribunale è stato accolto ed ampliato dalla relativa Corte d'appello, nella Capitale a pronunce della Corte distrettuale in linea con le Sezioni semplici di Cassazione (cfr. Corte d'appello di Roma, sez. lav., 22 giugno 2020, n. 1284) sono seguite ben presto pronunce del Tribunale aderenti al contrapposto orientamento trentino (cfr. Tribunale di Roma, sez. II lav., 14 gennaio 2021, n. 113). Quest'ultimo risulta accolto di buon grado anche dal Tribunale di Milano, 12 gennaio 2020, n. 2535 che argomenta addirittura per relationem, riproponendo il testo della pronuncia della Corte d'appello trentina qui in esame. Osservazioni
Ebbene, pur disponendo di un autorevole arresto delle Sezioni Unite di Cassazione, avallato peraltro dal Giudice delle leggi, si apre una nuova frammentazione giurisprudenziale; ricercare e comprendere le cause di questo rinato contrasto risulta fondamentale, al fine di ricomporlo una volta per tutte, nell'ambito di una vicenda che la Costituzione impone di definire in modo uniforme al fine di evitare discriminazioni (art. 3 Cost.).
Occorre prendere le mosse dal mutamento di orientamento registratosi in merito alla natura dell'obbligazione gravante sull'(ex) cedente. Quel mutamento è stato generato da un'esigenza ben precisa, avvertita nel contenzioso apertosi, in modo massiccio e seriale, tra i lavoratori e l'(ex) cedente posto in mora: garantire l'effettività della pronuncia giudiziale dichiarativa dell'illegittimità del trasferimento di ramo d'azienda, che si traduce in effettività di quella tutela giurisdizionale chiesta dal lavoratore ed accordata allo stesso.
In altre parole, lasciare e permettere che il datore di lavoro non adempia alle prescrizioni del Giudice priva di qualsiasi significato la domanda giudiziale di accertamento dell'illegittimità della cessione avanzata dal lavoratore. Nel ricordare l'ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale della Corte d'appello romana, ben scrive il prof. Carlo Cester: “Si renderebbe, poi, di fatto inutile lo stesso accertamento della illegittimità della cessione (per il quale non si è mai negata la permanenza dell'interesse ad agire in capo al lavoratore), e si consentirebbe di procrastinare sine die le conseguenze di una cessione di azienda ritenuta inidonea a produrre effetti nei confronti del contraente ceduto” (Cester C., Dopo la sentenza su trasferimento d'azienda o appalto illegittimi: risarcimento del danno o retribuzione? in ADL n. 3/2018 p. 774).
Guidate da questa precisa finalità, le Sezioni semplici di Cassazione sviluppano, e forse portano alle estreme conseguenze, le riflessioni svolte dalle Sezioni Unite in materia di interposizione fittizia di manodopera, laddove queste ultime avevano avvertito una tensione tra la rigida sinallagmaticità del rapporto di lavoro e l'esigenza di assicurare effettività alla pronuncia giudiziale.
I giudici di legittimità ricavano allora una costruzione giuridica (un rapporto de iure accanto ad un rapporto de facto) che vorrebbe riportare ad equilibrio i principi in contrasto, ma che, agli occhi di alcuni giudici di merito, per propria forma mentis maggiormente legati al concreto quadro fattuale, appare troppo astratta e squilibrata nel senso opposto, al punto di utilizzare un (celato) danno punitivo per garantire l'effettività della pronuncia giudiziale.
Ma se si vuole rimproverare un eccesso (garantistico) ai giudici di Cassazione, altrettanto si deve fare con quella giurisprudenza di merito che si sta discostando dalla giurisprudenza delle Sezioni semplici senza nulla salvare di essa. Infatti, giungendo ad un esito radicalmente opposto (effetto satisfattivo dei pagamenti dell'ex cessionario) viene nuovamente frustrata l'esigenza di garantire effettività all'accertamento giudiziale di illegittimità della cessione d'azienda.
Un'evidente impasse generata da fronti contrapposti che vorrebbero ripristinare l'equilibrio sposando soluzioni troppo radicali nell'uno e nell'altro senso. Banalizzando, o si detrae tutto o non si detrae nulla; o l'(ex) cedente paga l'intera retribuzione per il periodo in cui è stato in mora o non paga nulla.
Si fa apprezzare per uno sforzo di composizione tra i due fronti la pronuncia del Tribunale di Siena n. 89 del 6 luglio 2020, che, raccogliendo le perplessità del giudice trentino (e condividendole), non dimentica tuttavia la finalità precipua che ispira la giurisprudenza di legittimità (garantire l'effettività della tutela giurisdizionale): “appare possibile proporre una giusta soluzione del caso, che senza favorire una doppia retribuzione non dovuta, mantenga una portata dissuasivo sanzionatoria”.
Il Giudice, pur ritenendo di non dover condannare al pagamento di tutte le retribuzioni maturate nel periodo di mora, ritiene comunque di dover sanzionare “legittimamente un comportamento, nella specie datoriale, in quanto il comportamento realizzi un disvalore per l'ordinamento, nella fattispecie evidente sul piano non patrimoniale e sul piano patrimoniale solo potenziale [ndr. eventuali differenze retributive se il lavoratore fosse stato ripristinato alle dipendenze del cedente]”. Non riscontrando nel caso specifico un danno patrimoniale, il Tribunale ha provveduto a condannare l'(ex) cedente moroso al pagamento in favore di ciascun lavoratore di 5 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto.
Un interessante spunto in tal senso viene dalla stessa pronuncia della Corte d'appello di Trento del 14 dicembre 2020, laddove a pagina 15 svolge una riflessione sull'art. 41, secondo comma, Cost. e invita a considerare “il rapporto di lavoro sotto un diverso profilo, non strettamente patrimoniale” in modo che “un deterrente forte, idoneo a indurre il datore di lavoro alla collaborazione necessaria per rendere effettiva la pronuncia giurisdizionale, sarebbe quello del riconoscimento del diritto a svolgere il lavoro contrattualmente pattuito come diritto della persona, di natura non patrimoniale, autonomamente risarcibile, fondato sugli artt. 4 e 2 della Costituzione”.
Insomma, nella giurisprudenza di merito potrebbe profilarsi una terza via, forse idonea a comporre i dissidi nuovamente insorti: a fronte del mancato ripristino del rapporto da parte dell'(ex) cedente, il riconoscimento del danno non patrimoniale (in re ipsa) patito dal lavoratore. - Scognamiglio C., Principio di effettività, tutela civile dei diritti e danni punitivi, in Responsabilità Civile e Previdenza, n. 4/2016, p. 1120B; - Marasco F., Sulla funzione sanzionatoria del risarcimento del “danno da discriminazione”, in GiustiziaCivile.com, 15 giugno 2020; - Cester C., Dopo la sentenza su trasferimento d'azienda o appalto illegittimi: risarcimento del danno o retribuzione? in ADL n. 3/2018 p. 769; - Lucchetti G., Il “diritto vivente” sulla natura dei compensi da mancata ricostituzione del rapporto, in Giurisprudenza Italiana, n. 10/2018, p. 2181; - Fabozzi R., Ripristino del rapporto di lavoro e natura retributiva delle somme spettanti, in Giurisprudenza Costituzionale, n. 1/2019, p. 0357B; - Di Paola L., Trasferimento d'azienda invalido: la retribuzione corrisposta dal cessionario non libera il cedente in presenza di “mora accipiendi”, in Ilgiuslavorista, 1 agosto 2019; - Falco W., Trasferimento d'azienda illegittimo: cosa accade se il cedente non riammette il dipendente?, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, n. 1/2020, p. 38; - Speziale V., Trasferimento d'azienda illegittimo e “doppia retribuzione”, in Rivista Italiana di Diritto del Lavoro, n. 2/2020, p. 161. |