La confessione resa nella fase delle indagini preliminari può essere utilizzata ai fini della decisione in sede civile

30 Marzo 2021

...atteso che la mancanza, nel nostro ordinamento processuale, di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova consente al giudice di porre, alla base del proprio convincimento, anche prove c.d. atipiche, quali, per l'appunto, le risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari.
Massima

Le dichiarazioni, a sé sfavorevoli, rese dalla persona offesa alla P.G. ed al P.M. nella fase delle indagini preliminari possono essere ricondotte nel novero della confessione stragiudiziale ed utilizzate ai fini della decisione in sede civile, atteso che la mancanza, nel nostro ordinamento processuale, di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova consente al giudice di porre, alla base del proprio convincimento, anche prove c.d. atipiche, quali, per l'appunto, le risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari.

Il caso

Tizio otteneva dal Tribunale di Bari un decreto ingiuntivo nei confronti di Caio, Sempronio e Mevia, avente ad oggetto la condanna in solido di questi ultimi al pagamento della somma di € 100.767,91, di cui € 72.694,41 per capitale ed il residuo per interessi legali, sulla base di 28 vaglia cambiari emessi dai coniugi Sempronio e Mevia in favore di Caio, e da questi girati a Tizio.

Gli ingiunti proponevano opposizione, che veniva accolta con conseguente revoca del decreto ingiuntivo. Tizio impugnava la sentenza di primo grado, ma la Corte d'appello di Bari rigettava il gravame.

Con i primi quattro motivi del ricorso per Cassazione Tizio deduceva: 1) la violazione o falsa applicazione degli artt. 2733, 1813, 1815 e 2697 c.c., in quanto la sentenza gravata, pur dando atto della confessione resa in giudizio da Sempronio quanto alla ricezione a titolo di prestito della somma di £ 100.000.000, aveva negato il diritto del ricorrente alla restituzione della stessa; 2) la nullità della sentenza impugnata per contraddittorietà della motivazione, in quanto il giudice d'appello aveva ritenuto che la predetta confessione non documentasse anche l'entità del prestito, solo in ragione dell'incerta classificazione della somma di £ 30.000.000 come capitale o interessi; 3) la nullità della sentenza in quanto la domanda di restituzione era stata rigettata interamente, nonostante fosse emersa la prova di un credito di entità inferiore a quello azionato in giudizio; 4) l'erronea valutazione delle emergenze delle indagini preliminari espletate in sede penale, ed in particolare delle dichiarazioni rese da Sempronio agli inquirenti, con cui il predetto aveva ammesso di aver ricevuto un prestito di £ 100.000.000.

La questione

La pronuncia in esame offre lo spunto per ripercorrere gli orientamenti della giurisprudenza di legittimità in ordine alla rilevanza probatoria che, nel giudizio civile, assumono le risultanze degli atti di indagini preliminari, in particolare con riguardo alle dichiarazioni confessorie rese dalla persona offesa.

Le soluzioni giuridiche

La Suprema Corte ha ritenuto fondate le doglianze del ricorrente, in quanto, diversamente da quanto sostenuto nella gravata sentenza, non sussisteva alcuna incertezza in ordine alla quantificazione del credito vantato da Tizio. Infatti, dagli atti dei giudizi di merito era emerso che Sempronio aveva confessato, in sede di interrogatorio formale, di essere debitore della somma di cento milioni di lire, che era interamente dovuta, come risultava dalle precisazioni dallo stesso rese alla Polizia Giudiziaria ed al Pubblico Ministero, a titolo di sorte capitale, e non anche di interessi ultra-legali.

In ordine alla valenza probatoria delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari, va richiamato il costante orientamento secondo cui nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice, potendo porre a base del proprio convincimento anche prove c.d. atipiche, è legittimato ad avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, così come delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali (Cass. civ., 20 gennaio 2017, n. 1593). In particolare, il giudice civile, ai fini del proprio convincimento, può autonomamente valutare, nel contraddittorio tra le parti, ogni elemento dotato di efficacia probatoria e, dunque, anche le prove raccolte in un processo penale, come le dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali, e ciò anche se sia mancato il vaglio critico del dibattimento in quanto il procedimento penale è stato definito ai sensi dell'art. 444 c.p.c., potendo la parte, del resto, contestare, nell'ambito del giudizio civile, i fatti così acquisiti in sede penale (Cass. civ., sez. lav., 30 gennaio 2013, n. 2168; parz. diff. Cass. civ., sez. lav., 9 ottobre 2014, n. 21299, secondo cui il giudice civile, salvo che le parti non gliene facciano concorde richiesta, non può avvalersi del materiale probatorio acquisito senza contraddittorio in sede penale, a meno che il dibattimento non sia mancato per scelta di un rito alternativo da parte dell'imputato). Si è, altresì, precisato che le sommarie informazioni assunte durante la fase delle indagini preliminari, ritualmente acquisite nel contraddittorio delle parti, sono liberamente valutabili nel giudizio civile ai sensi dell'art. 116 c.p.c., non essendo a tal fine necessario che i dichiaranti abbiano prestato giuramento (Cass. civ., 4 luglio 2019, n. 18025).

La giurisprudenza si è soffermata, soprattutto, sulla pretesa confessione resa in sede penale dall'imputato, essendosi, in proposito, rilevato che le dichiarazioni rese dall'imputato nel dibattimento penale sono soggette al libero apprezzamento del giudice civile e non possono integrare una confessione giudiziale nel giudizio civile, atteso che questa ricorre, ai sensi dell'art. 228 c.p.c., soltanto nei casi in cui sia spontanea o provocata in sede di interrogatorio formale, quindi all'interno del giudizio civile medesimo (Cass. civ., 25 luglio 2019, n. 20255; Cass. civ., 20 giugno 2013, n. 15464). Pertanto, quando sia stata resa nel giudizio penale, la confessione, di norma, vale soltanto a fornire elementi indiziari, salvo che nel caso in cui, all'atto del compimento delle relative dichiarazioni, l'avversario non si sia già costituito parte civile, nella qual ipotesi produce l'efficacia di confessione piena, con la conseguenza di impedire nel successivo giudizio civile l'ammissione dell'interrogatorio formale sui medesimi fatti che ne hanno formato oggetto (Cass. civ., 6 aprile 2006, n. 8096).

Nel caso di specie, tuttavia, a venire in rilievo era l'asserita confessione resa, in sede di indagini preliminari, dalla persona offesa dal reato. In proposito, nella pronuncia in commento, dopo aver richiamato il principio del libero convincimento - in base al quale il giudice civile può trarre elementi di prova, con adeguato vaglio critico, dalle dichiarazioni «auto-indizianti» rese nel procedimento penale, atteso che la sanzione d'inutilizzabilità, posta dall'art. 63 c.p.p. a tutela dei diritti di difesa in quella sede, non ha effetti fuori di essa (Cass. civ., 4 giugno 2014, n. 12577) -, si assume che tale principio deve trovare applicazione anche nel caso in cui a rendere dichiarazioni sfavorevoli sia la persona offesa, come si desume da quanto sostenuto da Cass. civ., 5 febbraio 2002, n. 1513, secondo cui la confessione stragiudiziale fatta ad un terzo (nella specie si trattava di dichiarazioni contenute in una querela) non costituisce una prova legale, come la confessione giudiziale e stragiudiziale fatta alla parte o a chi la rappresenta, e, pertanto, può essere liberamente apprezzata dal giudice.

La Suprema Corte ha, quindi, concluso che le dichiarazioni a sé sfavorevoli rese dal preteso debitore alla P.G. ed al P.M. possono essere ricondotte nel novero della confessione stragiudiziale, e quindi vanno utilizzate ai fini della decisione.

Nel caso in esame, la sentenza impugnata, senza operare una valutazione combinata delle prove assunte in sede civile e degli elementi raccolti nel diverso procedimento penale, non aveva attribuito alle dichiarazioni rese dal mutuatario Sempronio, in sede di indagini preliminari, la predetta valenza probatoria, sicchè tale sentenza è stata cassata con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte d'appello di Bari.

Osservazioni

Con il termine «prove atipiche» si suole far riferimento ad ogni prova non prevista dalla legge, di cui il giudice può avvalersi, ponendola a base del proprio convincimento, sulla base dei poteri ampiamente discrezionali che l'art. 116 c.p.c. gli conferisce, purché tali prove innominate siano idonee a fornire elementi di giudizio sufficienti, se ed in quanto non smentite dal raffronto critico con le altre risultanze del processo, con il solo limite di dare congrua motivazione dei criteri adottati per la loro valutazione (Cass. civ., 24 febbraio 2004,n. 3642; Cass., sez. lav., 27 marzo 2003, n. 4666), attesa altresì la mancanza, nel nostro ordinamento processuale, di una norma di chiusura sulla tassatività tipologica dei mezzi di prova (Cass. civ., 25 marzo 2004, n. 5965).

Anche una parte della dottrina (Ricci, Principi di diritto processuale generale, Torino, 1998, 364 ss.) è favorevole all'ammissibilità delle stesse (specie dopo la loro espressa previsione nell'art. 189 c.p.p.), salvi soltanto i casi in cui la legge espressamente le vieti o non le consenta.

Si tratta, più precisamente, di fattispecie ricollegabili al concetto di presunzioni semplici, che la legge stessa (art. 2729 c.c.) disciplina come elemento di integrazione probatoria fondato sui c.d. «indizi» (Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 1998, 166-167).

Deve, tuttavia, escludersi che le c.d. prove atipiche possano valere ad aggirare divieti o preclusioni dettati da disposizioni, sostanziali o processuali, così introducendo surrettiziamente elementi di prova che non sarebbero altrimenti ammessi o la cui ammissione richieda adeguate garanzie formali (Cass. civ, 5 marzo 2010, n. 5440). In proposito, si è di recente statuito che la categoria dell'inutilizzabilità prevista ex art. 191 c.p.p. in ambito penale non rileva in quello civile, nel quale le prove atipiche sono comunque ammissibili, nonostante siano state assunte in un diverso processo in violazione delle regole a quello esclusivamente applicabili, poiché il contraddittorio è assicurato dalle modalità tipizzate di introduzione della prova nel giudizio. Resta precluso, invece, anche in sede civile, l'accesso alle prove la cui acquisizione concreti una diretta lesione di interessi costituzionalmente garantiti della parte contro la quale esse siano usate (Cass. civ., 5 maggio 2020, n. 8459).

In sostanza, quindi, l'orientamento della dottrina (Ricci, Grasso) e della giurisprudenza, e che trova parziale conferma anche nell'art. 310, comma 3, c.p.c., è nel senso che tali prove atipiche possono essere valutate liberamente come indizi (Cass. civ., 17 gennaio 1995, n. 478). In tal senso, il giudice di merito può, ad es., tener conto, ai fini della sua decisione, delle risultanze di una consulenza tecnica acquisita in un diverso processo, ancorché quest'ultimo sia stato dichiarato nullo per vizio di costituzione del giudice (ad es., perché trattasi di controversia di competenza del giudice collegiale decisa dal giudice monocratico), atteso che ciò che rileva è che l'accertamento peritale sia stato ritualmente acquisito nel successivo giudizio e che su di esso vi sia stato il contraddittorio tra le parti (Cass. civ., 21 giugno 2018, n. 16315).

Secondo l'ormai consolidata giurisprudenza di legittimità, quindi, in mancanza di qualsiasi divieto di legge, è consentito al giudice di merito, oltre che utilizzare prove raccolte in diverso giudizio tra le stesse o altre parti (Cass. civ., 20 gennaio 2015, n. 840; Cass. civ., sez. un., 8 aprile 2008, n. 9040), sempre che siano ritualmente acquisite al giudizio della cui cognizione il giudice è investito (Cass. civ., 25 maggio 2016, n. 10825; Cass. civ., 14 maggio 2013, n. 11555), anche avvalersi delle risultanze derivanti da atti di indagini preliminari (ad es., una consulenza tecnica disposta dal P.M. o sommarie informazioni testimoniali, che sono liberamente valutabili ex art. 116 c.p.c.: Cass. civ., 4 luglio 2019, n. 18025) svolte in sede penale, le quali siano idonee a fornire utili e concorrenti elementi di giudizio, di tipo indiziario, nella loro convergenza globale (Cass. civ., 4 giugno 2014, n. 12577), nonché delle risultanze di una sentenza penale di condanna non definitiva (essendo possibile utilizzare le prove raccolte e gli elementi di fatto acquisiti in tale giudizio, purchè il procedimento di formazione del libero convincimento del giudice civile sia esplicitato nella motivazione della sentenza, attraverso l'indicazione degli elementi di prova e delle circostanze sui quali esso si fonda, non essendo sufficiente il generico richiamo alla pronuncia penale: Cass. civ., 27 aprile 2010, n. 10055) o di una sentenza definitiva di non doversi procedere essendosi il reato estinto per prescrizione (Cass., sez. lav. 5 agosto 2005, n. 16559, secondo cui non è vietato al giudice civile ripercorrere lo stesso iter argomentativo del giudice penale e giungere alle medesime conclusioni; Cass. civ., 16 giugno 2014, n. 13656).

Ad es., anche la sentenza penale di patteggiamento ex art. 444 c.p.p. - pur non contenendo un accertamento capace di fare stato nel giudizio civile - contiene pur sempre una ipotesi di responsabilità di cui il giudice di merito non può escludere il rilievo senza adeguatamente motivare sulle ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (Cass. civ., 19 giugno 2019, n. 16505; Cass. civ., 1 febbraio 2018, n. 2500; Cass. civ., 24 maggio 2017, n. 13034).

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