Imputato infermo di mente e reati punibili con ergastolo: incostituzionale il divieto di giudizio abbreviato?

31 Marzo 2021

Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., nella parte in cui non consente all'imputato infermo di mente, la cui incapacità di intendere e di volere al momento del fatto sia stata accertata con perizia eseguita in sede di incidente probatorio...
Massima

Non è manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., nella parte in cui non consente all'imputato infermo di mente, la cui incapacità di intendere e di volere al momento del fatto sia stata accertata con perizia eseguita in sede di incidente probatorio, di accedere al giudizio abbreviato per un reato astrattamente punito con la pena dell'ergastolo.

Il caso

Il Pubblico Ministero ha chiesto il rinvio a giudizio di un imputato accusato di omicidio pluriaggravato, reato punito astrattamente con la pena dell'ergastolo.

Prima dell'esercizio dell'azione penale, sono state accertate mediante incidente probatorio l'incapacità di intendere e di volere dell'imputato e la sua capacità di partecipare al processo.

In udienza preliminare il difensore ha chiesto il proscioglimento per vizio totale di mente; in subordine, ha insistito per l'ammissione del giudizio abbreviato, rilevando l'inapplicabilità nel caso di specie dell'articolo 438 comma 1-bis c.p.p., che impedisce di accedere al rito speciale menzionato per i reati puniti con la pena dell'ergastolo.

Il Pubblico Ministero ha chiesto al G.I.P. di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'articolo 438 comma 1-bisc.p.p. per violazione delle norme di cui agli articoli 2, 3 e 27 anche in relazione agli articoli 32 e 111 della Costituzione.

Il Giudice, in accoglimento della richiesta del Pubblico Ministero, ha dichiarato rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata, sospendendo il processo e rimettendo gli atti alla Corte Costituzionale.

In motivazione. Il punto di partenza da cui parte il provvedimento di rimessione del Giudice del Tribunale di Rimini è la considerazione della rilevanza della questione, costituita nel caso di specie dalla considerazione dell'interesse dello Stato alla celebrazione del processo nelle forme del dibattimento innanzi alla Corte di Assise, nonostante sia stata accertata già in fase di indagini preliminari - mediante incidente probatorio – l'incapacità di intendere e di volere dell'imputato.

In merito il Giudice osserva infatti che, “con riferimento al caso di specie, non può negarsi che il fatto commesso dall'imputato sia di estrema gravità, commesso con modalità cruente e ai danni della anziana congiunta che si prendeva cura di lui e che, pertanto, permanga, anche in ipotesi del genere, l'interesse dello Stato, visto l'allarme sociale suscitato dal fatto, alla celebrazione di un processo pubblico, con un giudice collegiale a composizione mista, in ossequio al principio di cui all'art. 102, comma 3, Cost. La considerazione che precede vale anche con riferimento alle ipotesi in cui l'imputato sia stato riconosciuto incapace di intendere e di volere con una perizia espletata in sede di incidente probatorio nel contraddittorio tra le parti, perché il fatto genera allarme sociale a prescindere dalle condizioni soggettive del reo, e quindi è necessario garantire, anche in tal caso, il controllo dell'opinione pubblica.”

Sul punto della non manifesta infondatezza, il Giudice rimettente rileva che la censura relativa al principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111, comma 2, Cost. appare fondata, in quanto l'effetto di dilatazione dei tempi processuali non sembra sorretto da alcuna logica esigenza, sicché “precludere l'accesso al rito abbreviato ad un imputato riconosciuto, con le garanzie del contraddittorio, incapace di intendere di volere, sembra collidere con i principi costituzionali di ragionevolezza, nonché di efficienza del processo penale”.

Nel caso di specie, osserva il giudice sul punto, procedere ad un dibattimento innanzi alla Corte di Assise determina senza dubbio un aumento del carico giudiziario di quest'organo, atteso che i reati puniti con ergastolo ne rappresentano ovviamente la maggior parte di quelli giudicati. E laddove la celebrazione di un processo che incide in maniera rilevante sul carico sia del tutto superfluo, essendo già stato raccolto in precedenza materiale sufficiente a definire il giudizio si verifica un vero e proprio vulnus al principio della efficiente amministrazione della giustizia […] essendo la prova già cristallizzata, non modificabile e determinante per la decisione”.

Deve inoltre essere considerato, si legge in motivazione, che l'esito del processo sarebbe identico, non essendo applicabile alcuna pena, ma soltanto una misura di sicurezza. Misura di sicurezza la cui applicazione è preclusa dal disposto dell'art. 425, comma 4, c.p.p., a norma del quale il giudice non può pronunciare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l'applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca.

Conseguentemente, conclude il rimettente, “la dichiarazione illegittimità costituzionale dell'art. 438, comma 1-bis, c.p.p., nella parte in cui non consente all'imputato infermo di mente, la cui incapacità di intendere e di volere al momento del fatto sia stata accertata con perizia eseguita in sede di incidente probatorio, al giudizio abbreviato per un reato astrattamente punito con la pena dell'ergastolo, consentirebbe di definire il processo in tempi brevi senza inutile dispendio di preziose risorse organizzative, con l'applicazione, in via definitiva, di una misura di sicurezza e senza nessuna compressione del diritto di difesa”.

La questione

La questione in esame è la seguente: se sia legittimo costituzionalmente inibire all'imputato la cui incapacità di intendere e di volere sia stata accertata con perizia eseguita in sede di incidente probatorio, la possibilità di accedere al giudizio abbreviato, se il reato di cui è accusato è astrattamente punito con la pena dell'ergastolo.

Le soluzioni giuridiche

Trattandosi di questione di legittimità costituzionale, non vi è contrasto tra due opposte ricostruzioni di uno stesso istituto giuridico rinvenibile negli atti del processo.

Invero, come già evidenziato in precedenza, la necessità di sollevare questione è stata sollevata dalla difesa e fatta propria dal Pubblico Ministero; infine, la prospettazione delle parti è stata accolta dal giudice che ha sollevato la questione.

Né si ravvisa sul punto alcun contrasto in giurisprudenza, poiché non risulta che la norma, nel brevissimo termine della sua vigenza, sia stata interpretata in modo contrastante dai giudici di merito né ha ancora dato origine a questioni in diritto davanti alla Corte di Cassazione.

Le soluzioni giuridiche possibili sono dunque due: l'accoglimento della questione di legittimità costituzionale da parte della Corte Costituzionale o il suo rigetto.

La prima soluzione postula la illegittimità della nuova norma, aggiunta all'art. 438 c.p.p. come limite alla possibilità di chiedere il giudizio abbreviato nei casi in cui il delitto di cui si tratta sia punito in astratto con la pena dell'ergastolo, nella parte in cui non prevede un'eccezione nell'ipotesi in cui l'imputato sia già stato dichiarato incapace di intendere e di volere.

Accogliendo tale tesi, nel caso specificato verrebbe ripristinata la situazione esistente prima dell'introduzione del comma 1-bis dell'art. 438 c.p.p., con possibilità di accedere al giudizio abbreviato senza alcun limite relativo al tipo di reato contestato.

La soluzione opposta, che si realizzerebbe qualora la Corte Costituzionale decidesse per il rigetto della questione sollevata, comporterebbe il permanere della situazione attuale, con conseguente applicazione del divieto introdotto dall'art. 438 comma 1-bisc.p.p. a tutte le ipotesi di contestazione di reati puniti astrattamente con la pena dell'ergastolo, senza alcuna eccezione riferibile alla inimputabilità già acclarata dell'imputato.

Anche in questi casi dunque si dovrebbe procedere al giudizio dibattimentale innanzi alla Corte di Assise e, in caso di prova della riconducibilità del fatto contestato all'imputato, dichiarare il suo proscioglimento per inimputabilità, salva l'applicazione di misura di sicurezza.

Osservazioni

Come noto, l'art. 5 c.p.p. stabilisce la competenza della Corte di Assise per i processi che riguardano i reati di maggiore allarme sociale, per assicurare la diretta partecipazione a questo tipo di processi di alcuni rappresentanti del popolo nel cui nome è amministrata la giustizia dalla magistratura.

La categoria di gran lunga prevalente dei delitti di competenza della Corte di Assise è quella dei delitti puniti con la pena dell'ergastolo: si è ritenuto infatti che di fronte alla possibilità di una condanna sostanzialmente perpetua – salvi futuri ed eventuali benefici di legge – occorresse un vaglio massimamente partecipato al livello decisionale, con conseguente composizione del collegio giudicante allargata oltre ai due componenti togati di sei giudici popolari, cittadini comuni non forniti di preparazione giuridica ed estratti a sorte.

Tale assetto, risalente al dopoguerra, è stato adottato anche nel Codice di procedura penale del 1989, ponendo però immediatamente problemi di compatibilità con le norme che disciplinano il giudizio abbreviato, l'unico tra i cosiddetti procedimenti speciali premiali ad essere applicabile a tutti i reati senza limite di pena.

Sia l'applicazione della pena su richiesta delle parti che la cosiddetta messa alla prova sono infatti procedimenti riservati a reati puniti fino ad un massimo edittale stabilito dalla legge e non è possibile accedervi per la fascia dei delitti ritenuti più gravi dal legislatore e dunque puniti più severamente.

Non esiste dunque per questi procedimenti il contrasto che si pone invece nel caso del giudizio abbreviato, tra le ragioni che spingono all'adozione del procedimento speciale e quelle che impongono la speciale ponderazione affidata alla Corte di Assise di cui si è detto.

Per una migliore comprensione delle ragioni di questo contrasto, occorre partire dalla considerazione che il nostro processo è stato concepito per dare il massimo spazio alla partecipazione di tutti i soggetti nella fase dibattimentale, sede ideale per l'esaltazione del confronto tra le parti.

Tuttavia, una scelta siffatta comporta fatalmente una diminuzione dell'efficienza del processo: prevedere che ogni elemento raccolto in fase di indagine debba essere ripetuto e vagliato da tutte le parti prima di assumere al rango di prova - e che prima di iniziare la fase del dibattimento occorra un'altra fase processuale dedicata alla verifica delle condizioni per iniziare il dibattimento - comporta un inevitabile allungamento dei tempi di definizione del processo stesso, con conseguente rallentamento della risposta dello Stato alla domanda di giustizia.

La soluzione escogitata per recuperare efficienza al sistema è di prevedere una serie di riti alternativi al dibattimento, ciascuno caratterizzato dalla compressione di alcune delle garanzie del processo, con conseguente recupero dell'efficienza.

Si può dunque immaginare una sorta di diagramma in cui vi sia ad un estremo il massimo possibile delle garanzie e del contraddittorio, rappresentato dal dibattimento, e dall'altra il massimo dell'efficienza, con proporzionale compressione o elisione del contraddittorio.

L'adozione di uno di questi riti conviene dunque in primo luogo allo Stato, poiché velocizzare è attualmente l'imperativo del settore della giustizia, in una fase storica in cui il problema cruciale del processo penale è dato dalle difficoltà di smaltimento dell'arretrato, per cause diverse.

Per evitare di uscire dai binari della legittimità costituzionale del processo, ed in definitiva per mantenere i caratteri di “giusto processo” anche ai riti speciali, il modo più semplice e meno problematico, anche a livello di compatibilità con il dettato costituzionale, è che sia l'imputato a rinunciare a qualcuna delle garanzie previste a sua tutela.

L'unico motivo per indurre l'imputato a questo tipo di scelta è prevedere per chi la compia una diminuzione sulla pena prevista all'esito del giudizio: da qui l'effetto premiale di alcuni dei procedimenti speciali.

È quanto avviene, tra gli altri, nel giudizio abbreviato: l'imputato chiede formalmente di rinunciare al vaglio dibattimentale in cambio di una consistente riduzione di pena in caso di condanna.

Questo tipo di scelta, a differenza del patteggiamento, l'altro rito premiale previsto dal nostro sistema processuale attivabile su impulso di parte, era stato previsto inizialmente come universale, applicabile dunque a tutti i tipi di reato a prescindere dalla gravità.

Per questo motivo, originariamente, anche per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo era possibile scegliere di essere giudicati con il rito abbreviato, con conseguente competenza del giudice dell'udienza preliminare ad irrogare la massima sanzione.

Era stata infatti considerato dirimente che il giudizio abbreviato è richiesto dall'imputato, “il quale - nella logica del processo accusatorio - può anche rinunziare alla garanzia rappresentata dalla partecipazione popolare nei giudizi di Corte di assise” (Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e delle norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, 24 ottobre 1988, n. 250, supplemento ordinario n. 93, sub Libro VI, Titolo I, Premessa).

Dopo pochi mesi dall'entrata in vigore del Codice di Procedura penale, tuttavia, la Corte Costituzionale è intervenuta sulla norma in esame, escludendo la possibilità di poter accedere al giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo.

Con la sentenza n. 176/1991, è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 442 c.p.p.

Nella motivazione, la Corte Costituzionale ha rilevato che il legislatore non avrebbe potuto prevedere una diminuzione di pena laddove la pena non era espressa in termini definiti numericamente, sostituendo all'ergastolo la pena detentiva da ventiquattro a trent'anni, poiché la legge delega aveva previsto per questo tipo di procedimento la sola possibilità di prevedere una diminuzione quantitativa della pena (meno un terzo) e non qualitativa (alla pena dell'ergastolo è sostituita quella di trenta anni di reclusione).

Conseguentemente, come chiarito poco dopo dalla Corte di Cassazione (Cass. pen., Sez. Un., n. 2977/1992) per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo non si poteva procedere con il giudizio abbreviato.

Qualche anno dopo, il legislatore ha ripristinato questa facoltà (con la cosiddetta “legge Carotti”, n. 479/1999), prevedendo esplicitamente che in caso di definizione del processo con il rito abbreviato la pena dell'ergastolo fosse sostituita con la pena di anni trenta di reclusione.

Erano dunque nuovamente prevalse le esigenze di deflazione del carico di lavoro e di celerità ed efficienza nella risposta alla domanda di giustizia su quelle di garantire massima ponderazione e un processo pubblico nei casi di maggiore gravità.

Il nuovo assetto ha retto per venti anni, fino al nuovo - e per il momento ultimo - intervento legislativo operato con la l.n.33/2019, che introducendo il nuovocomma 1-bis all'art. 438 c.p.p. ha ancora una volta stabilito che “non è ammesso il giudizio abbreviato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo”.

La scelta nasce, come rilevato recentemente dalla Corte Costituzionale, dall'intento “di conseguire un generale inasprimento delle pene concretamente inflitte per reati punibili con l'ergastolo, precludendo la possibilità per i relativi imputati di accedere al giudizio abbreviato e al conseguente sconto di pena” (Corte Cost. n. 260/2020).

Ed invero, prima dell'introduzione dell'art. 438 comma 1-bisc.p.p. i processi definiti con la pena dell'ergastolo erano sensibilmente diminuiti, proprio perché molti imputati, per evitare la possibilità di essere condannati alla pena perpetua, sceglievano di essere giudicati con il rito abbreviato.

Precludere l'accesso a questo rito per reati puniti con ergastolo vuol dire dunque, secondo la ratio legis evidenziata dalla Corte Costituzionale, che il legislatore ha scelto di aumentare sensibilmente i condannati all'ergastolo, non consentendo in caso di accertamento della responsabilità per i reati più gravi che il reo possa ottenere alcuna condanna al di sotto di quella massima (salva naturalmente l'applicazione di eventuali circostanze attenuanti).

Oltre a questo fine, giova ribadire, l'introduzione della norma in esame risponde a due ulteriori scopi:

- imporre per i reati di maggiore allarme sociale la celebrazione di un dibattimento pubblico, sia per ragioni di maggiore impatto sulla collettività e dunque per rafforzare l'effetto general-preventivo della eventuale sanzione, sia per ristoro morale della persona offesa;

- consentire la massima ponderazione del caso da parte dell'organo giurisdizionale, effetto che si ottiene affiancando alla componente togata quella laica, in luogo della decisione affidata ad un solo giudice come avverrebbe in caso di processo celebrato con rito abbreviato (anche se appare discutibile stabilire a priori una equiparazione matematica tra il numero dei giudici e la qualità dell'approfondimento del thema decidendum).

Tali essendo gli obiettivi perseguiti dal limite introdotto all'accesso al giudizio abbreviato, essi appaiono difficilmente perseguibili nel caso in cui l'imputato sia affetto da vizio di mente.

Va ricordato che il delitto commesso da chi è in stato di incapacità d intendere e di volere comporta l'inapplicabilità di sanzioni penali per difetto del necessario requisito dell'imputabilità: imprescindibile “condizione perché un fatto possa essere oggetto di un rimprovero “personale” è che l'autore, al momento della commissione del fatto, fosse imputabile, cioè capace di […] comprendere il significato sociale e le conseguenze dei propri atti (capacità di intendere), nonché di autodeterminarsi liberamente (capacità di volere” (Dolcini – Gatta).

Conseguentemente, la persona riconosciuta affetta da vizio totale di mente, a norma dell'art. 88 c.p., non sarà condannata ma prosciolta ancorché riconosciuta come autrice del fatto di reato per cui si procede.

La celebrazione di processi a carico di soggetti inimputabili non può in nessun caso comportare, dunque, alcun aumento delle pronunce di condanna alla pena dell'ergastolo, rendendo vana la voluntas legis alla base dell'introduzione dell'art. 438 comma 1-bis c.p.p.

Naturalmente, perché si arrivi alla certezza legale della sussistenza della menzionata inimputabilità occorrerà uno specifico accertamento della incapacità di intendere e di volere dell'imputato, con caratteristiche tali da poter avere valore di prova.

L'accertamento dovrà dunque eseguito nel contraddittorio delle parti o accettato dall'imputato – attraverso il suo difensore – come atto utilizzabile nei suoi confronti.

Ma, come noto, perché ciò avvenga non è necessario che la prova si formi nell'agone dibattimentale: in particolare, come sovente avviene in questo tipo di processi, l'incapacità di intendere e di volere può essere accertata già in fase di indagini preliminari – o in udienza preliminare – mediante le forme dell'incidente probatorio.

In questo modo si può arrivare ad avere, prima dell'apertura della fase processuale, la prova dell'inimputabilità del soggetto accusato e la conseguente, matematica certezza della mancata irrogazione di una sentenza di condanna.

L'inutilità di una celebrazione del dibattimento, nonostante la espressa volontà di rinunciarvi da parte dell'imputato, appare in ipotesi simili evidente, se si considera il dichiarato fine di non sottrarre il reo alla pena dell'ergastolo.

È pur vero che, nel caso non infrequente in cui all'accertamento della commissione del reato si accompagni una prognosi di pericolosità sociale che lasci prevede la probabile commissione di ulteriori reati (art. 203 c.p.), al proscioglimento per inimputabilità consegue l'applicazione di una misura di sicurezza personale.

E tale misura di sicurezza non può essere applicata dal giudice dell'udienza preliminare con sentenza di non luogo a procedere in quanto si tratta pur sempre di una misura limitativa della libertà personale, che postula l'instaurazione di una corretta e completa instaurazione del contraddittorio.

Ma a tali garanzie, come si è già rilevato in precedenza, l'imputato può rinunciare proprio chiedendo di essere giudicato con il rito abbreviato, per diverse motivazioni comunque insindacabili.

Nessuno dubita, per altro verso, che all'esito del giudizio abbreviato, in caso di siano applicabili le misure di sicurezza personali, trovando piena applicazione il disposto dell'art. 530, comma 4,c.p.p.

Conclusivamente, nel caso di imputati inimputabili, la norma che ha reintrodotto il divieto di accesso al procedimento speciale menzionato per i delitti puniti con la pena dell'ergastolo sembra un ostacolo inutile, per di più non sorretto da alcuna esigenza dello Stato.

Né si giunge a risultati diversi considerando le altre finalità del divieto sopra rappresentate.

L'esigenza di ponderazione che si raggiungerebbe aggiungendo alla componente togata la presenza dei giurati popolari, nel caso di imputato inimputabile non sembra avere alcun fondamento.

Il processo a carico del reo affetto da vizio di mente è infatti destinato sostanzialmente a prendere atto dell'inimputabilità già accertata in fase di indagini preliminari e a dichiarare sentenza di proscioglimento, con applicazione della misura di sicurezza in caso di pericolosità risultante dalla perizia.

Un percorso sostanzialmente obbligato, che non pare meritare il necessario coinvolgimento della Corte di Assise né la partecipazione diretta del popolo, trattandosi di decisione eminentemente tecnica.

Infine, quanto al ristoro morale che deriverebbe alla persona offesa dalla celebrazione di un dibattimento in luogo di un giudizio abbreviato, valgono le medesime considerazioni, non essendo all'evidenza di alcuna utilità anche dal punto di vista della persona offesa la celebrazione innanzi alla Corte di Assise di un processo destinato al solo fine tecnico di prendere atto della inimputabilità già accertata in precedenza e procedere al proscioglimento.

Anzi, può concordarsi sul punto con quanto espresso dal Pubblico Ministero che ha sollevato la questione di costituzionalità, laddove questi ha rilevato che la persona offesa ha presumibilmente in casi del genere interesse a non rivivere fatti dolorosi, ben sapendo che tale esperienza non servirà comunque ad altro scopo che quello di applicazione di una misura contenitiva della pericolosità del reo, risultato ottenibile senza dover rivivere in aula la tragica esperienza alla base del processo.

L'unica esigenza chiaramente meritevole di tutela in queste ipotesi appare quella di arrivare il più velocemente possibile alla irrogazione della misura di sicurezza definitiva in luogo di quella provvisoria (o peggio della misura cautelare personale, come spesso accade), anche nell'interesse dello stesso imputato, che ha bisogno di cure mediche adeguate e non di precarietà.

Su questi profili la Corte Costituzionale è dunque nuovamente chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità della disciplina del giudizio abbreviato nel caso di reati puniti con la pena dell'ergastolo.

Anche in caso di accoglimento della questione sollevata, il divieto introdotto dalla legge del 2019 rimarrà comunque in vigore; ma la sua portata potrebbe subire un'erosione almeno nei casi in cui esso non appare sorretto da ragioni logiche né di sistema.

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