La Redazione
02 Aprile 2021

Le disposizioni penalistiche contenute nel codice della crisi di impresa (d.lgs. n. 14/2019) si pongono in evidente continuità con le norme previste dalla legge fallimentare (r.d. n. 267/1942). Non può dunque essere invocata l'abolitio criminis da parte dell'imputato condannato per bancarotta fraudolenta.

Le disposizioni penalistiche contenute nel codice della crisi di impresa (d.lgs. n. 14/2019) si pongono in evidente continuità con le norme previste dalla legge fallimentare (r.d. n. 267/1942). Non può dunque essere invocata l'abolitio criminis da parte dell'imputato condannato per bancarotta fraudolenta.

Così la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12056/21, che ha rigettato il ricorso avverso la decisione di condanna di un imputato per il reato di bancarotta fraudolenta pluriaggravata, patrimoniale e documentale, in qualità di amministratore unico di una s.r.l..

Tra le diverse censure proposte, il ricorrente ha lamentato la ritenuta ultrattività dei reati fallimentari a seguito dell'introduzione del d.lgs. n. 14/2019, il c.d. codice della crisi di impresa e dell'insolvenza. Secondo il Collegio tale censura non rileva nel caso in esame.

L'art. 389 d.lgs. n. 14 cit. prevedeva l'entrata in vigore decorsi 18 mesi dalla data di pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, quindi il 15 agosto 2020. Il termine ha però subito diverse proroghe, difettano quindi i presupposti per l'applicazione dell'art. 2, comma 2, c.p. invocato dal ricorrente.

Ciò posto, la Corte sottolinea comunque che la riforma del codice della crisi di impresa non spiega alcun effetto sui reati fallimentari, essendo in presenza di un'evidente continuità normativa che connota i profili penalistici del nuovo impianto normativo.

L'art. 329 c.c.i. riprende infatti la lettera delle norme incriminatrici del r.d. n. 267/1942. Sotto la rubrica “Fatti di bancarotta fraudolenta” è infatti previsto che:

«1. Si applicano le pene stabilite nell'articolo 322 agli amministratori, ai direttori generali, ai sindaci e ai liquidatori di società in liquidazione giudiziale, i quali hanno commesso alcuno dei fatti preveduti nel suddetto articolo.
2. Si applica alle persone suddette la pena prevista dall'articolo 322, comma 1, se:
a) hanno cagionato, o concorso a cagionare, il dissesto della società, commettendo alcuno dei fatti previsti dagli articoli 2621,2622,2626,2627,2628,2629,2632,2633 e 2634 del codice civile.

b) hanno cagionato con dolo o per effetto di operazioni dolose il dissesto della società».

Anche con riferimento alle norme civilistiche in tema di presupposti e procedura di liquidazione dell'impresa, già entrate in vigore con la sostituzione del termine “fallimento” con “liquidazione”, non sussistono elementi concerti tali da mutare il presupposto dello stato di insolvenza in cui versa l'impresa e che costituisce presupposto delle fattispecie penali.

Diverso è il discorso relativo all'esplicita abrogazione dell'istituto dell'amministrazione controllata e di ogni riferimento ad esso contenuto nella legge fallimentare. In questo caso, si è correttamente riscontrata l'abolitio criminis con la soppressione del reato di bancarotta societaria connessa alla suddetta procedura (art. 236, comma 2, r.d. n. 276/1942).

In conclusione, la Corte ritiene complessivamente infondato il ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

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