Trasferimento d'azienda nelle procedure concorsuali e deroghe all'art. 2112 c.c.

Luigi Andrea Cosattini
02 Aprile 2021

Il trasferimento d'azienda nell'ambito delle procedure concorsuali consente possibilità di deroga alle previsioni di cui all'art. 2112 c.c. a seconda che si tratti di procedure finalizzate alla liquidazione dei beni o alla prosecuzione dell'attività d'impresa.
Trasferimento d'azienda nelle procedure concorsuali: effetti sui rapporti di lavoro

Gli effetti che il trasferimento d'azienda (o di un ramo di essa: nel prosieguo il riferimento all'azienda deve intendersi riferito anche al ramo di essa) posto in essere nell'ambito di una procedura concorsuale produce sui rapporti di lavoro pendenti è da molti anni uno snodo particolarmente critico della normativa che regola la materia, ma negli ultimi anni l'attenzione del legislatore, della giurisprudenza interna ed eurounitaria e della dottrina si è fatta ancor più viva.

La normativa di carattere generale che, nel diritto dell'Unione Europea, disciplina gli effetti del trasferimento d'azienda (intesa, quest'ultima, come “insieme di mezzi organizzati al fine di svolgere un'attività economica, sia essa essenziale o accessoria”) è contenuta della Direttiva 23-2001.

Per quanto assume rilievo in questa sede, l'art. 3 comma 1, stabilisce il principio del trasferimento dal cedente al cessionario dei diritti e degli obblighi relativi ai rapporti di lavoro pendenti e consente agli Stati membri di introdurre norme che prevedano la responsabilità solidale del cedente con il cessionario per le obbligazioni sorte a favore dei lavoratori prima del trasferimento.

L'articolo 4 afferma che il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento né da parte del cedente, né da parte del cessionario, ferma restando la possibilità di dar corso a licenziamenti per (differenti) motivi economici, tecnici o d'organizzazione che comportino variazioni sul piano dell'occupazione.

L'articolo 5 individua i limiti nei quali, nelle ipotesi di trasferimento d'azienda posto in essere nell'ambito delle procedure di insolvenza che si svolgono sotto il controllo dell'autorità pubblica competente, le regole stabilite dagli articoli 3 e 4 sopra menzionati possono costituire oggetto di deroga. Più specificamente, il comma 1 dell'articolo 5 afferma che, salva diversa previsione degli Stati membri (previsione che può però derogare solo in senso più tutelante per i lavorativi) gli articoli 3 e 4 non si applicano (solo) “nel caso in cui il cedente sia oggetto di una procedura fallimentare o di una procedura di insolvenza analoga aperta in vista della liquidazione dei beni del cedente stesso”; per gli altri casi, e quindi per tutti i casi in cui la procedura d'insolvenza non abbia finalità liquidatorie, gli articoli 3 e 4 trovano applicazione, ma gli Stati membri possono prevedere che: (i) in deroga all'art. 3, comma 1, le obbligazioni del cedente nei confronti dei lavoratori, maturate alla data del trasferimento, non siano trasferite al cessionario e (ii) siano pattuite modifiche delle condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell'impresa, dello stabilimento o di parti di imprese o di stabilimenti.

Il diritto dell'Unione, dunque, ha chiaramente distinto, in relazione alla possibilità di derogare alle tutele che gli artt. 3 e 4 della Direttiva approntano a favore dei lavoratori, i casi di imprese delle quali sia stato accertato lo “stato di crisi”, il cui procedimento mira a favorire la prosecuzione dell'attività dell'impresa nella prospettiva di una futura ripresa, dai casi di imprese nei cui confronti siano state avviate procedure concorsuali con finalità liquidatorie, nelle quali la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata. M

entre con riferimento alle prime l'art. 5 Direttiva 23/2001 autorizza gli Stati membri a prevedere che possano essere modificate le "condizioni di lavoro dei lavoratori intese a salvaguardare le opportunità occupazionali garantendo la sopravvivenza dell'impresa", ma senza tuttavia privare i lavoratori dei diritti loro garantiti dagli artt. 3 e 4 della Direttiva 2001/23 (ed in primis il diritto alla prosecuzione del rapporto alle dipendenze del cessionario), con riferimento alle seconde lo stesso articolo consente la disapplicazione delle tutele approntate dagli artt. 3 e 4.

La norma di carattere generale che, recependo nel diritto interno le regole dettate dalla Direttiva 23-2001, disciplina gli effetti del trasferimento d'azienda (nell'accezione giuslavoristica, e non del tutto coincidente con la nozione “commerciale” di cui all'art. 2555 c.c., che di tale fenomeno ha fornito la giurisprudenza, vale a dire qualunque fattispecie nella quale un complesso organizzato dei beni dell'impresa - nella sua identità obiettiva - passi a un diverso titolare in forza di una vicenda giuridica riconducibile al fenomeno della successione in senso ampio: Cass. civ., 15-03-2017, n. 6770) è l'articolo 2112 c.c., nella sua attuale versione risultante all'esito dei successivi interventi resisi necessari per adeguarne il contenuto alla normativa eurounitaria.

Esso stabilisce (fra l'altro) i seguenti principi fondamentali:

- il rapporto di lavoro continua con il cessionario dell'azienda, senza soluzione di continuità;

- il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano;

- il cedente ed il cessionario sono obbligati in solido per tutti i crediti che il lavoratore aveva al tempo del trasferimento;

- il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento;

- resta ferma la facoltà di intimare il licenziamento, ma per motivi diversi dal trasferimento d'azienda in sé e per sé considerato.

La derogabilità dell'art. 2112 c.c. nell'ambito della procedura di cui all'art. 47 L. 428/1990

Sebbene l'articolo 2112 c.c. abbia subito nel corso del tempo varie modifiche proprio per adeguarne le prescrizioni alla disciplina dettata dal diritto dell'Unione, esso non contiene alcuna previsione specificatamente riferita ai trasferimenti d'azienda posti in essere nell'ambito delle procedure d'insolvenza, ed in particolare alla possibilità di derogare ai principi ivi esposti ove il trasferimento venga posto in essere nell'ambito di una procedura d'insolvenza che si svolge sotto il controllo di un'autorità pubblica; una disciplina organica del fenomeno traslativo non è presente neppure nella legge fallimentare, ove pure sono presenti alcune norme che regolano la materia (in primis, gli artt. 104-bis e 105 l. fall., che peraltro pongono più dubbi di coordinamento con la normativa giuslavoristica di quanti non ne risolvano: basti pensare che l'art. 104-bis menziona l'art. 2112 c.c. solo per l'ipotesi di retrocessione dell'azienda affittata al fallimento, e l'art. 105 non lo menziona affatto).

Le norme che regolano le possibilità di deroga ai principi stabiliti dall'articolo 2112 c.c. sono state invece inserite nell'ambito dell'art. 47 della L. 428/1990, rubricato “Trasferimenti d'azienda”.

Tale scelta del legislatore appare per certi versi sorprendente e per vari motivi fonte di dubbi interpretativi; l'art. 47 nasce infatti non tanto come “norma di disciplina” (e quindi finalizzata a stabilire regole di diritto sostanziale) quanto piuttosto come “norma di procedura”, il cui scopo è quello di imporre alle parti che intendono dar corso ad un trasferimento d'azienda, prima che esso si attui, una procedura di consultazione sindacale (la cui omissione non inficia la validità del trasferimento, per costante giurisprudenza, ma costituisce condotta antisindacale ai sensi dell'art. 28 L. 300/1970) nell'ambito della quale illustrare alle organizzazioni dei lavoratori le caratteristiche dell'operazione e gli effetti che essa comporta per i lavoratori.

Per di più, il primo comma espressamente ne subordina l'applicazione al fatto che il trasferimento riguardi un'azienda che occupi più di quindici dipendenti: con la conseguenza che si è posto il dubbio (sul quale la dottrina ha fornito risposte discordanti) circa l'applicabilità del quinto comma, destinato a disciplinare le possibilità di derogare all'articolo 2112 c.c. in fattispecie di trasferimento nell'ambito di procedure di insolvenza tramite accordo fra le parti raggiunto nell'ambito delle consultazioni “di cui ai precedenti commi”, a tutti i trasferimenti d'azienda, a prescindere dal numero dei dipendenti impiegati, o solo a quelli che abbiano ad oggetto aziende con più di quindici dipendenti.

L'attuale formulazione dell'art. 47 L. 428/1990, anch'esso a più riprese modificato dal legislatore per adeguarlo (non sempre correttamente, come si dirà) alla normativa dell'Unione, dedica alla derogabilità dell'articolo 2112 c.c. tramite accordi raggiunti nell'ambito della procedura di consultazione sindacale, ove il trasferimento d'azienda avvenga nell'ambito di una procedura di insolvenza, due commi.

Il comma 4-bis è riferito ai casi di crisi aziendale accertata ai sensi della L. 675/1977, di amministrazione straordinaria ai sensi del d.lgs.270/1999 con continuazione o di mancata cessazione dell'attività, di concordato preventivo e di accordo di ristrutturazione dei debiti, e stabilisce che, in tali ipotesi, l'art. 2112 c.c. trova applicazione “nei termini e con le limitazioni” previste dall'accordo collettivo che riguardi “il mantenimento, anche parziale, dell'occupazione”.

Il comma 5 è riferito invece alle ipotesi di imprese nei confronti delle quali vi sia stata dichiarazione di fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all'amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata. In tali ipotesi, qualora nel corso della consultazione sindacale sia stato raggiunto un accordo che contempli il mantenimento anche parziale dell'occupazione, la norma prevede che, ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente, non trovi applicazione l'articolo 2112 c.c., salvo che dall'accordo stesso risultino condizioni di miglior favore per i lavoratori; tale accordo può altresì “prevedere che il trasferimento non riguardi il personale eccedentario e che quest'ultimo continui a rimanere, in tutto o in parte, alle dipendenze dell'alienante”.

Dalla struttura della norma appare evidente l'intenzione del legislatore nazionale di adeguare il diritto interno alle previsioni della Direttiva 23/2001, distinguendo le fattispecie di trasferimento d'azienda posto in essere nell'ambito di procedure di insolvenza con finalità liquidatorie da quelle di trasferimento posto in essere nell'ambito di procedure finalizzate alla continuità aziendale.

Il tentativo non è però compiutamente riuscito, posto che la formulazione adottata presta il fianco ad alcune serie accuse di contrasto con i principi stabiliti dall'articolo 5 della Direttiva.

Due le più evidenti:

- anziché utilizzare, sulla scia della previsione indicata dalla Direttiva 23/2001, una descrizione “finalistica” delle procedure (e distinguendole quindi ellitticamente fra “procedure con finalità liquidatorie” e “procedure con finalità di continuazione dell'attività d'impresa”), il Legislatore italiano ha preferito elencare una serie di procedure concorsuali “nominate”, perdendo così di vista il criterio discretivo fondamentale imposto dalla normativa eurounitaria: in tal senso, il richiamo alle procedure di “fallimento, omologazione di concordato preventivo consistente nella cessione dei beni, emanazione del provvedimento di liquidazione coatta amministrativa ovvero di sottoposizione all'amministrazione straordinaria, nel caso in cui la continuazione dell'attività non sia stata disposta o sia cessata” non risulta infatti appagante, posto che (come si dirà infra) non è detto che esse abbiano sempre finalità liquidatoria, nell'accezione fornitane dalla giurisprudenza dell'Unione;

- permane, nel corpus del comma 4 bis, un elemento di evidente contrasto con le regole imposte dalla Direttiva 23/2001 e quindi fuorviante nell'interpretazione della norma nazionale: si legge infatti che l'accordo sindacale può prevedere il mantenimento “anche parziale” dell'occupazione, mentre ai sensi dell'art. 5 della Direttiva è chiaro che, ove si tratti di procedure che non hanno finalità liquidatorie, non è consentito alle parti sociali derogare al principio della continuità dei rapporti di lavoro in occasione del trasferimento (Cass. 1.6.2020, n. 10414 e Cass. 1.6.2020, n. 10415).

Procedure con finalità liquidatorie e procedure in continuità alla luce dell'evoluzione giurisprudenziale

Il criterio in base al quale distinguere procedure nell'ambito delle quali, in caso di trasferimento d'azienda, l'articolo 2112 c.c. può essere integralmente disapplicato (e quindi la regola di default, in caso di conclusione dell'accordo sindacale,è che non tutti i rapporti di lavoro debbano proseguire alle dipendenze del cessionario), da quelle nell'ambito delle quali l'articolo 2112 c.c. trova piena applicazione salva la possibilità per le parti sociali di concordare deroghe alle “condizioni di lavoro” (fra le quali non rientra la possibilità di escludere o limitare la continuità dei rapporti) ruota attorno alla finalità della procedura di insolvenza: liquidazione dei beni o prosecuzione dell'attività.

Il problema sorge perché, soprattutto nella giurisprudenza nazionale, al quesito sulla finalità liquidatoria o meno della procedura d'insolvenza si è data spesso una risposta astrattamente legata alla tipologia di procedura adottata, secondo lo schema normativo a tal fine approntato dalla legislazione nazionale, anziché una risposta fondata sulla concreta finalità perseguita, nel caso specifico, dall'impresa che accede alla procedura di insolvenza.

E così si ritiene tradizionalmente che il fallimento sia sempre e comunque una procedura liquidatoria (ancora recentemente in tal senso Cass. 22.6.2020, n. 12045), mentre, con riferimento al concordato preventivo, il dibattito in merito alla qualificazione liquidatoria o meno della procedura, soprattutto con riferimento al tema della continuità “diretta” (e quindi gestita dall'imprenditore che accede alla procedura concordataria) o “indiretta” (tramite affitto o vendita dell'azienda) è veramente esploso solo a seguito dell'introduzione nell'ambito della l. fall., ad opera D.L. 83/ 2012 convertito con modificazioni dalla L. 134/2012, dell'art. 186-bis.

In tale contesto, ancora recentemente, la Cassazione (Cass. 6.12.2019, n. 31946) ha avuto modo di affermare genericamente (con sentenza che non a caso ha formato oggetto di censure da parte di autorevoli commentatori) che “in materia di trasferimento di imprese assoggettate a procedura concorsuale o di rami di esse, la L. n. 428 del 1990, art. 47, comma 5, ha previsto ampia facoltà, per l'impresa subentrante, di concordare condizioni contrattuali per l'assunzione ex novo dei lavoratori, in deroga a quanto dettato dall'art. 2112 c.c., nonché la possibilità di escludere parte del personale eccedentario dal passaggio”, obliterando ogni indagine sulla finalità liquidatoria o meno della procedura ed anzi giungendo ad affermarla sebbene nel caso in discussione si trattasse di un concordato preventivo chiaramente finalizzato alla prosecuzione dell'attività aziendale tramite la cessione ad un terzo.

Il limite di tali prospettazioni risiede nel fatto che riconducono prevalentemente il concetto della “prosecuzione” (e specularmente della finalità liquidatoria o meno) all'impresa in quanto esercitata dal soggetto che ne è titolare, anziché all'impresa intesa come entità economica organizzata ed idonea alla produzione di beni o di servizi, a prescindere da chi ne sia titolare o ne eserciti l'attività. In tale contesto, non sembra decisiva la circostanza (che pure alcuni autori hanno preso in considerazione) se sia stato disposto o meno l'esercizio provvisorio, essendo esso comunque una fase interna alla procedura che non risulta decisiva al fine di valutare se il preminente obiettivo finale di essa è la (pura) liquidazione dei beni ovvero la sopravvivenza dell'impresa al di fuori della procedura.

L'insegnamento della Corte di Giustizia dell'Unione Europea è invece orientato a valorizzare, con un approccio “sostanzialista” che prescinde dalla tipologia astratta della procedura adottata dall'imprenditore insolvente, la prosecuzione o meno dell'attività d'impresa, a prescindere da chi ne sia titolare. Se ne trova una chiara indicazione nella sentenza CGUE C-126/16 del 22.6.2017, ove si afferma che:

- la deroga agli artt. 3 e 4 della Direttiva 23/2001 è consentita solo ove la procedura d'insolvenza sia aperta al fine di liquidare i beni del cedente, e tale non può essere una procedura che miri al proseguimento dell'attività dell'impresa interessata (par. 47);

- ove, come nel caso oggetto di decisione, si tratti di “un'operazione di pre-pack” che “mira a preparare la cessione dell'impresa nei minimi dettagli per permettere la ripresa rapida delle unità economicamente sostenibili dell'impresa dopo la pronuncia di fallimento, al fine di evitare così l'interruzione che risulterebbe dalla brusca cessazione delle attività di tale impresa alla data di pronuncia del fallimento, in modo da preservare il valore di detta impresa e l'occupazione”, essa non mira alla liquidazione dell'impresa (parr. 49 e 50);

- in particolare, il solo fatto che l'operazione strutturata in forma pre-pack possa anche mirare a massimizzare la soddisfazione dei creditori (com'è tipico delle procedure con finalità liquidatorie) non è sufficiente a considerarla una procedura aperta al fine di liquidare i beni del cedente ai sensi dell'articolo 5, paragrafo 1, della direttiva 2001/23 (par. 51);

- in relazione ad essa, quindi, i lavoratori non possono essere privati dei diritti ad essi riconosciuti dalla direttiva 2001/23.

In sostanza, il fatto che si trattasse di una procedura fallimentare di per sé non è stato ritenuto sufficiente, alla luce del complessivo progetto (ed in particolare dell'accordo per l'immediata cessione del compendio aziendale subito dopo la dichiarazione di fallimento) a farla ritenere “liquidatoria”, con conseguente possibilità di deroga al principio della continuità dei rapporti di lavoro.

Ha poi aggiunto CGUE 16.5.2019, C-509/17, che i casi in cui, ai sensi dell'art. 5, comma 1, della Direttiva 23/2001, è consentita la deroga al regime di tutele apprestate dagli artt. 3 e 4 devono intendersi come eccezionali rispetto alle finalità della direttiva stessa, e quindi oggetto di una interpretazione restrittiva (par. 38).

Tali insegnamenti della CGUE hanno trovato eco recentemente nelle due sentenze “gemelle” della S.C. sopra menzionate, le nn. 10414 e 10415 dell'1.6.2020, nell'ambito delle quali è stata chiaramente recepita la distinzione fra procedure con finalità liquidatorie (per le quali trova applicazione il comma 5 dell'art. 47 L. 428/1990, con conseguente possibilità di totale disapplicazione dell'art. 2112 c.c.) e procedure con finalità di prosecuzione dell'attività d'impresa, per le quali trova applicazione il comma 4 bis; con la precisazione, in relazione ad esse, che l'inciso “mantenimento anche parziale dell'occupazione” non consente di ritenere derogabile il principio della continuità di tutti i rapporti di lavoro.

Uno sguardo al Codice della Crisi

La travagliata storia della normativa in materia di trasferimenti d'azienda nell'ambito delle procedure concorsuali avrebbe dovuto indurre il legislatore, a parere di chi scrive, a dettare in proposito una disciplina chiara ed inequivocabile nel corpus del Codice della Crisi. Così non è stato, posto che la scelta è stata (ancora una volta) quella di mantenere la disciplina in materia di deroghe all'art. 2112 c.c. nell'ambito dell'art. 47 L. 428/1990, modificandone parzialmente il testo (v. in proposito l'art. 368, comma 4, lett. b, del D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14).

Per quanto assume maggior rilievo in questa sede, le modifiche all'art. 47 (ed in particolare, ai commi 4-bis, 5, 5-bis e 5-ter) prevedono:

- che il comma 4-bis si applichi qualora il trasferimento riguardi aziende per le quali vi sia stata la dichiarazione di apertura della procedura di concordato preventivo in regime di continuità indiretta (il che è ragionevole, posto che in caso di continuità diretta non vi è alcun trasferimento d'azienda), ovvero l'omologazione degli accordi di ristrutturazione dei debiti che non abbiano carattere liquidatorio, ovvero per le quali è stata disposta l'amministrazione straordinaria con continuazione dell'attività;

- che gli accordi sindacali conclusi in tali ipotesi possano stabilire i termini ed i limiti di applicazione dell'art. 2112 c.c., ma solo per ciò che riguarda le condizioni di lavoro e fermo il trasferimento al cessionario di tutti i rapporti di lavoro pendenti;

- che in caso di liquidazione giudiziale, di concordato preventivo liquidatorio o di liquidazione coatta amministrativa senza continuazione dell'attività, i rapporti di lavoro continuano con il cessionario a meno che gli accordi collettivi stipulati dalle parti sociali non prevedano una deroga a tale principio, che è quindi consentita;

- in tali ipotesi non opera, in deroga al comma 2 dell'art. 2112 c.c., il regime della solidarietà del cessionario per le obbligazioni maturate alla data del trasferimento;

- in caso amministrazione straordinaria senza continuazione dell'attività sono possibili accordi che prevedano il mantenimento solo parziale dell'occupazione;

- in tali ipotesi ai lavoratori il cui rapporto di lavoro continua con l'acquirente non trova applicazione l'articolo 2112 del codice civile, salvo che dall'accordo risultino condizioni di miglior favore.

Senza volerci addentrare in una disamina completa della nuova disciplina, è possibile evidenziare in questa sede che la normativa di futura applicazione, pur chiarendo molti dei punti oscuri di quella ancor oggi vigente, lascia ancora spazio alla discussione.

Ad esempio, continua a considerare soggette tout court alla disciplina derogatoria “forte” del comma 5 le procedure di liquidazione giudiziale senza considerare che, come argomentato da CGUE C-126/16, anch'esse possono essere in concreto strutturate in modo tale da avere come finalità preminente la prosecuzione dell'attività d'impresa.

E per ciò che riguarda il concordato in continuità indiretta, al quale trova applicazione il regime di derogabilità “limitata” del comma 4-bis, fa espresso richiamo alla nozione che di esso fornisce l'art. 84 comma 2 del Codice: il che significa che non è consentito derogare al principio della prosecuzione di tutti i rapporti di lavoro ove sia previsto “il mantenimento o la riassunzione di un numero di lavoratori pari ad almeno la metà della media di quelli in forza nei due esercizi antecedenti il deposito del ricorso, per un anno dall'omologazione”: se si intende evitare gli oneri che il comma 4 dell'art. 84 impone in ipotesi di concordato liquidatorio ed accedere invece ad un concordato in continuità, quindi, il prezzo da pagare sarà quello di non poter derogare, in occasione del trasferimento dell'azienda a terzi, al principio secondo il quale i rapporti di lavoro pendenti al momento del trasferimento devono tutti proseguire senza soluzione di continuità alle dipendenze del cessionario (salvi diversi accordi individuali o cause di cessazione diverse dal trasferimento in sé e per sé considerato, ovviamente).

In conclusione

L'interpretazione che la giurisprudenza interna e quella dell'Unione forniscono agli operatori del settore impongono un approccio al tema meno astratto e più pragmatico.

Il tema della possibilità di concordare, in sede di consultazione sindacale, deroghe al principio della continuazione dei rapporti di lavoro in occasione del trasferimento dell'azienda non può e non deve essere affrontato sulla base di schemi precostituiti (come quello secondo il quale il fallimento, o in futuro la liquidazione giudiziale, sono sempre procedure con finalità liquidatorie); è necessario invece valutare caso per caso, prendendo in considerazione il complessivo programma dell'operazione (anche nella fase successiva all'apertura di essa), se, ferma restando la necessità di perseguire la migliore soddisfazione del ceto creditorio, essa ha come obiettivo (anche) la prosecuzione dell'attività d'impresa, ancorché ad opera di un soggetto diverso. Ove sia così, l'indicazione proveniente dalla normativa e dalla giurisprudenza dell'Unione è chiara: gli accordi raggiunti dalle parti sociali nell'ambito della consultazione di cui all'art. 47 L. 428/1990 possono sì comportare modifiche alle condizioni di lavoro (e quindi alle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa da parte del lavoratore, ad esempio in materia di articolazione dell'orario di lavoro), ma non possono consentire che solo alcuni dei dipendenti addetti all'azienda trasferita proseguano il loro rapporto di lavoro alle dipendenze del cessionario.

Guida all'approfondimento

Tullini, Tutela del lavoro nella crisi d'impresa di impresa e assetto delle procedure concorsuali, in Riv. It. Dir. Lav., 2014, I, 232 ss.;

Marazza-Garofalo, Insolvenza del datore di lavoro e tutele del lavoratore, Torino, 2015, in particolare 43 ss.;

Novella, Diritti dei lavoratori e trasferimento d'azienda nel codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza. Vecchie e nuove questioni, in Riv. Giur. Lav., 2019, I, 638 ss.;

Gragnoli, La nuova disciplina del concordato preventivo, ivi, 623 ss.;

Lambertucci, La disciplina dei rapporti di lavoro nel trasferimento dell'impresa sottoposta a procedure concorsuali: prime note sul codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza del 2019, in Riv. It. Dir. Lav., 2019, I, 149 ss.

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