Prime notazioni sul d.l. 1° aprile 2021 n. 44 sull'obbligo di vaccino del personale sanitarioFonte: DL 1 aprile 2021 n. 44
06 Aprile 2021
Il decreto legge n. 44 del 2021
Tanto tuonò che piovve. Ha visto finalmente la luce il tanto atteso decreto legge che, tra le altre norme, all'art. 4 contiene quelle sull'obbligo di vaccinazione per il personale sanitario.
A questo risultato hanno concorso diversi fattori.
Lo stallo della dottrina maggioritaria, secondo cui il contrasto tra l'obbligo di sicurezza del datore di lavoro e la libertà di vaccinazione è irrisolvibile dall'interprete senza un intervento attuativo della riserva di legge di cui all'art. 32 Costituzione (P. ALBI, Dibattito istantaneo su vaccini anti-Covid e rapporto di lavoro: l'opinione di Pasqualino Albi, in Labor, 2 febbraio 2021), per il quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge.
La pressione dell'opinione pubblica, attraverso i mezzi di informazione, stampata e televisiva, che negli ultimi tempi ha fatto da cassa di risonanza ad episodi infettivi in strutture dove erano presenti sanitari che avevano rifiutato il vaccino, sollecitando un intervento risolutivo con voci sempre più insistenti ed autorevoli.
I primi interventi della giurisprudenza di merito (vedi l'ordinanza del Tribunale di Belluno di cui al par. 7) nel senso della necessità dell'allontanamento dei sanitari che rifiutino il vaccino.
Il Governo del Paese, ispirato ad una cultura del risultato, ed attrezzato con competenze anche giuridiche di primissimo piano.
Così il nostro Paese, unico per ora in Europa, ha una legislazione sull' obbligo di vaccino contro il Covid 19. La platea delle persone obbligate alla vaccinazione anti-Covid
Scopo dichiarato dell'intervento legislativo è tutelare la salute pubblica, nozione che comprende tutte le persone presenti sul territorio nazionale. Dall'inizio della pandemia si sono moltiplicati gli interventi normativi diretti a contenere il fenomeno e a lenirne gli effetti, con un ventaglio di misure che affettano anche le libertà individuali: limitazioni alla libertà di movimento, obbligo di adottare i dispositivi di protezione individuale, chiusura di attività economiche; una volta apparso e disponibile il vaccino adozione di un piano nazionale di vaccinazione di massa; sul piano delle misure lenitive, indennizzi per la riduzione di reddito e tutela infortunistica per i lavoratori. Per questi ultimi vi è una doppia correlazione: a causa del carattere pandemico e delle modalità di trasmissione interpersonale del virus, più alto è il rischio di contagio in occasione di lavoro, a causa delle mansioni che comportano contatti con l'ambiente esterno, più alta è la possibilità bidirezionale che il virus sia trasmesso dal lavoratore al soggetto esterno; più forte l'intervento di tutela a favore delle distinte categorie professionali, grazie all'adozione del criterio probabilistico di contagio, più alta è la responsabilità individuale e l' obbligo di adozione delle misure di sicurezza verso i colleghi e gli esterni. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, è stato percepito come particolarmente odioso l'atteggiamento dei sanitari che rifiutano il vaccino, ritenuto la misura risolutiva per sconfiggere il virus, a causa della loro funzione che è di curare i malati e non di infettarli.
Per questo il decreto è intervenuto sulla categoria di lavoratori più emblematica, i sanitari.
L'art. 4 sottopone ad obbligo di vaccinazione gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, farmacie, parafarmacie e studi professionali.
Le professioni sanitarie sono riconosciute e definite da specifiche leggi, e comprendono sia le professioni che richiedono una laurea magistrale (dai medici chirurghi agli psicologi, passando per i veterinari, biologi, chimici, fisici etc.), sia le professioni sanitarie infermieristiche per le quali è ora richiesto il diploma di laurea triennale, e comprende una gamma amplissima di specialità, dall'area infermieristica classica, ostetricia, riabilitazione, tecnico diagnostica, tecnico assistenziale, prevenzione, indicate nella legge 10 agosto 2000, n. 251. Gli operatori di interesse sanitario, menzionati dall'art. 1, comma 2, legge1° febbraio 2006, n. 43, sono dei profili minori di competenza regionale, quali ad esempio il massofisioterapista che, a differenza dei più qualificati fisioterapisti, operatori sanitari, è un operatore ausiliario che applica tecniche di massaggio manuale dietro prescrizione medica. L' elenco completo di tali categorie professionali è reperibile sul sito del Ministero Salute.
Le parafarmacie sono dei negozi autorizzati alla vendita dei soli farmaci senza obbligo di prescrizione medica, oltre alla vendita di tutti gli altri prodotti, cosmetici, integratori alimentari, prodotti per l'infanzia, che, almeno nelle città maggiori, costituiscono ormai la maggior parte dei prodotti venduti in farmacia.
Il legislatore ha pertanto usato espressioni molto late e comprensive, per assicurare la maggiore protezione possibile per la tutela della salute pubblica, che assume quindi un valore prioritario rispetto alla libertà di cura del singolo.
L'obbligo sussiste fino alla completa attuazione del piano di vaccinazione di cui all'articolo 1, comma 457, della legge 30 dicembre 2020, n.178, cioè fino a garantire il massimo livello di copertura vaccinale sul territorio nazionale, e comunque non oltre il 31 dicembre 2021.
Nel definire la platea degli obbligati, l'accorto legislatore non fa ricorso alle tradizionali categorie di lavoratori subordinati ed autonomi, di sempre più difficile definizione, ma applica la prospettiva Raimondi, nella famosa sentenza sui riders (Cass. 24 gennaio 2020, n. 1663), quale “norma di disciplina” che definisce i presupposti di fatto per la sua applicazione, indipendentemente dalla qualificazione dei rapporti giuridici in cui tale situazione si colloca. Rientrano quindi i lavoratori subordinati, lavoratori autonomi, etero organizzati, liberi professionisti. La ratio dell'intervento legislativo impone di includere tutti coloro che operano nelle sedi menzionate, come il personale amministrativo operante all'interno della struttura, la segretaria e l'assistente dello studio professionale, gli addetti alle pulizie o alla sorveglianza, di solito dipendenti di ditte esterne; e così pure gli addetti alla consegna e ritiro materiali (“contatti interpersonali o in qualsiasi altro modo”). In base al criterio funzionale del contenimento del contagio che ispira l'intervento legislativo, non avrebbe senso obbligare i dipendenti, e lasciare liberi tutti gli altri che a vario titolo circolano per gli ospedali per motivi lavorativi. Sono incluse le strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, ma anche negozi, come le farmacie e le parafarmacie, e gli studi professionali di carattere sanitario, inclusi quindi, oltre ai medici, i fisioterapisti, i podologi, i dietologi, e simili.
Ovviamente il decreto esenta dall'obbligo i soggetti per cui vi siano controindicazioni mediche, e tale ipotesi è disciplinata dall'art. 4, comma 2, in termini molto stringenti: la vaccinazione non è obbligatoria e può essere omessa o differita solo in caso di accertato pericolo per la salute, in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate, attestato dal medico di medicina generale.
Per la individuazione delle persone non vaccinate l'art. 4 disegna la seguente procedura: tutti i dati devono confluire presso la Regione o provincia autonoma; a questo scopo ciascun Ordine professionale territoriale trasmette l'elenco degli iscritti; e così pure i datori di lavoro degli operatori sanitari e di interesse sanitario trasmettono l'elenco dei propri dipendenti; la Regione verifica lo stato vaccinale di ciascun nominativo per il tramite dei propri servizi informativi vaccinali e segnala alla ASL i nominativi dei soggetti che non risultano vaccinati; la ASL invita il soggetto a vaccinarsi in un breve termine prefissato e, in caso di inadempienza, ne dà comunicazione al datore di lavoro, con buona pace della FAQ del Garante della privacy, secondo cui il datore non può conoscere l'identità del lavoratore che rifiuti il vaccino. A questo punto il datore di lavoro deve fare la sua parte, e prendere provvedimenti nei confronti dei lavoratori che ormai sa aver rifiutato il vaccino.
Pertanto, i titolari di studio professionale, non soggetti ad alcun obbligo di comunicazione per quanto riguarda la propria persona (ci pensa l'Ordine di appartenenza), se hanno dei dipendenti, sono obbligati alle relative comunicazioni in quanto datori di lavoro.
Ed ai lavoratori autonomi, parasubordinati, artigiani, tirocinanti, dipendenti da imprese esterne che bazzicano per gli ospedali per ragioni professionali, chi ci pensa?
Nessuna falla nel sistema. Siccome siamo in tema di sicurezza degli ambienti lavorativi, le espressioni usate nel decreto - datori di lavoro, dipendenti - vanno assunte non nel loro significato giuslavoristico, bensì in quello attribuito dal testo unico 81, che per datore di lavoro intende il soggetto che ha la responsabilità dell'organizzazione produttiva (art. 2 lett. b) e per lavoratore la persona che, indipendentemente dalla tipologia contrattuale, svolge un'attività lavorativa nell'ambito dell'organizzazione di un datore di lavoro pubblico o privato, con o senza retribuzione, anche al solo fine di apprendere un mestiere (art. 2, lett. a), che contiene una lunga lista di persone equiparate, tra cui gli studenti universitari, l'alternanza studio lavoro, etc.; DE MATTEIS, Infortuni sul lavoro e malattie professionali, Milano 2020, 837, il quale sottolinea l'importanza sistematica anche dell'art. 26, sulla responsabilità del datore di lavoro che affidi lavori a imprese appaltatrici o lavoratori autonomi; sulla esclusiva rilevanza dello svolgimento di mansioni rientranti nell'oggetto sociale, e sulla conseguente inclusione dei lavoratori autonomi nella nozione di lavoratori ai fini della sicurezza: Cass. pen. 15 marzo 2017, n. 18396).
Pertanto, il responsabile della struttura sanitaria o dello studio professionale dovrà trasmettere alla Regione l'elenco di tutti i propri collaboratori, a qualsiasi titolo, e quindi anche dei dipendenti di ditte esterne e dei lavoratori autonomi che con esso collaborano. Le conseguenze del rifiuto
Questi provvedimenti sono definiti dal comma 8 dell'art. 4: ricevuta la comunicazione dalla ASL, il datore di lavoro adibisce il dipendente, ove possibile, a mansioni, anche inferiori, che non comportino contatti interpersonali o il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2, in qualsiasi altra forma, con il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate. Quando l'assegnazione a diverse mansioni non è possibile, non è dovuta la retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato, fino all'eventuale resipiscenza del renitente o, in mancanza, fino alla data indicata al par. 2, e cioè completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021.
La disciplina del trattamento retributivo corrispondente alle mansioni inferiori esercitate è pertanto diversa e peggiorativa rispetto a quella dell'art. 2103 codice civile (come sostituito dall'art. 3, comma 1, d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81) e dell'art. 42 testo unico sicurezza. Ciò si desume dalla consapevole diversità lessicale: mentre il comma 5 dell'art. 2103 garantisce il trattamento retributivo in godimento per il caso di assegnazioni a mansioni inferiori a seguito della modifica degli assetti organizzativi aziendali, o negli altri casi previsti dai contratti collettivi, e l'art. 42 il trattamento corrispondente alle mansioni di provenienza (al secondo comma “retribuzione corrispondente alle mansioni precedentemente svolte”), il decreto in esame parla di mansioni esercitate, cioè dopo il ricollocamento; ed è significativa anche la insistenza sulla esclusione di qualsiasi compenso o emolumento, comunque denominato. E questa scelta risulta coerente con i presupposti dello svolgimento di mansioni inferiori: nei primi due casi, dipende da fattori indipendenti dalla volontà del lavoratore; nel terzo caso, da una sua libera scelta. E tale disciplina conferma, ancora una volta, che il comportamento di rifiuto, anche se libero, costituisce pur sempre un disvalore nei confronti della comunità, e consente una riduzione della retribuzione. Essa è infine coerente con quanto suggerito da autorevole dottrina, secondo cui la disciplina delle conseguenze del rifiuto non può essere premiante per chi intende effettuare questa scelta (DE LUCA TAMAJO, in Giustizia insieme 30 marzo 2021, Intervista di Marcello Basilico a Fabrizio Amendola, Raffaele de Luca Tamajo e Vincenzo Antonio Poso).
Per le persone che abbiano controindicazioni mediche al vaccino, a norma del comma 2, il comma 10 dispone una disciplina speciale, dando il giusto rilievo al fatto che la mancata vaccinazione dipende da fattori estranei alla loro volontà: i libero professionisti continuano a svolgere liberamente la propria attività, adottando le misure di prevenzione igienico sanitarie indicate in un protocollo che sarà emanato dal Ministro della salute, di concerto con giustizia, lavoro, politiche sociali, si presume in analogia con i protocolli condivisi della primavera 2020; gli altri lavoratori continuano a percepire la retribuzione precedente (è evidente l'influsso dell'art. 42 del testo unico sicurezza), e sono adibiti a mansioni anche diverse in modo da evitare il rischio di diffusione del contagio da SARS-CoV-2. Quell' “anche” significa che potrebbero continuare a svolgere le mansioni precedenti, adottando le misure di prevenzione, diverse dal vaccino, atte a ridurre il rischio di contagio. con conservazione del trattamento retributivo. Stante la disciplina apposita, ed il mancato richiamo, non sembra che sia il caso dell'art. 3, comma 3-bis, del d.lgs. 9 luglio 2003, n 216, aggiunto dall'art. 9, comma 4, d.l. n. 76/2013, convertito in legge n. 99/2013, sugli accomodamenti ragionevoli al fine di garantire la parità di trattamento delle persone con disabilità (sul tema v. Cass. 9 marzo 2021, n. 6497, secondo cui il datore di lavoro è tenuto ad adottare ogni ragionevole accomodamento organizzativo che, senza comportare oneri finanziari sproporzionati, sia idoneo a contemperare, in nome dei principi di solidarietà sociale, buona fede e correttezza, l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente alla sua condizione psico-fisica con quello del datore a garantirsi una prestazione lavorativa utile all'impresa, anche attraverso una valutazione comparativa con le posizioni degli altri lavoratori, fermo il limite invalicabile del pregiudizio alle situazioni soggettive di questi ultimi aventi la consistenza di diritti soggettivi (nella specie la Corte ha confermato la sentenza di merito che aveva dichiarato illegittimo di un dipendente con handicap dell'azienda tranviaria di Miano, per non avere neppure chiesto al medico competente la valutazione della possibilità di mansioni alternative).
Questa possibilità per i soggetti del comma 2 di continuare a lavorare, nonostante la mancata vaccinazione, non deve essere vista come una incongruenza del sistema, bensì come un segnale dell'approccio pragmatico e non ideologico del legislatore al problema della salute pubblica: ove possibile, il vaccino, quale misura risolutiva per eliminare il rischio di contagio, come dimostrato dall'incontrovertibile esperienza storica; ove il vaccino non sia possibile, per controindicazioni non dipendenti dalla mera volontà potestativa del soggetto, altre misure meno efficaci, che comunque riducono il rischio di contagio.
Non si può non sottolineare la coincidenza di valutazioni tra la scala presuntiva di rischio di contagio per causa lavorativa disegnata dall'Inail con la sua circolare 13/2020, che pone in prima posizione la categoria dei sanitari, per i quali la probabilità di contagio è qualificata elevatissima, ed il presente decreto, che assume quindi il valore di un provvedimento parziale per le categorie maggiormente a rischio proprio e altrui, che non preclude il dibattito su quali misure gli altri datori possano o debbano assumere per adempiere al proprio obbligo, penalmente sanzionato, di massima sicurezza sul lavoro, nei confronti dei lavoratori che non intendano vaccinarsi per propria libera scelta (in senso contrario F. SCARPELI, Arriva l'obbligo di vaccino (solo) per gli operatori sanitari: la disciplina ed i suoi problemi interpretativi, in Conversazioni di San Cerbone, cit., 3 aprile 2021, secondo cui la scelta del legislatore in favore di una categoria esclude quelle non menzionate). Gli altri soggetti non menzionati
Infatti, esistono altre categorie di lavoratori per i quali la probabilità di contagio nei confronti dei colleghi e dei terzi l'Inail dichiara elevata. Che differenza nel rischio di contagio c'è tra la commessa di una parafarmacia e la commessa di un supermercato, soggetta a contatti molto più numerosi? Su piano fenomenologico della distribuzione del rischio, possiamo ricordare che diverse farmacie hanno assunto le dimensioni, almeno nelle grandi città, di centri commerciali piccolo-medi, nei quali il banco dei medicinali rappresenta una frazione minoritaria delle vendite complessive, costituite soprattutto da prodotti per la persona, in spazi aperti e comunicanti, e con personale promiscuo. Se lo scopo è contenere il rischio di contagio attraverso i contatti interpersonali o in qualsiasi altra forma, non si può non fare riferimento alla scala presuntiva di rischio di contagio per causa lavorativa disegnata dall'Inail con la sua circolare 13/2020. Ed è vano obiettare che tale circolare è a fini previdenziali, perché il rischio di contagio è unico, anche se con riflessi differenti nei vari rami del diritto. Le soluzioni ego focused
Molti autorevoli studiosi ritengono che il contenuto precettivo prioritario dell'art. 32 della Costituzione consista nel garantire la libertà di cura dell'individuo contro interferenze di autorità varie, e che pertanto la riserva di legge del comma 2, secondo cui nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge, possa essere attuata solo con un intervento legislativo statale esplicito in tal senso, come ha fatto il decreto legge. Qualsiasi tentativo di conciliare i contrapposti interessi - l'obbligo del datore di lavoro di assicurare la massima sicurezza possibile e la libertà di cura del lavoratore - attraverso il ricorso alle norme ordinarie costituirebbe un aggiramento surrettizio ed inammissibile del santuario dell'art. 32. In definitiva la volontà insindacabile dell'individuo di non vaccinarsi prevale su qualsiasi altro diritto o obbligo previsto dalle norme costituzionali o ordinarie a favore o a carico di altri membri della comunità (amplissima è la letteratura sul tema; molti contributi possono essere reperiti sul sito della rivista Labor, Dibattito istantaneo su vaccini anti-Covid e rapporto di lavoro, a cura di O. Mazzotta, nonché sul sito Le conversazioni del convento di San Cerbone, a cura di V.A. Poso; per una esposizione ragionata delle varie tesi vedi anche JERVOLINO, Vaccinazione e pandemia tra diritto ed etica, ivi, 8 febbraio 2021, in corso di pubblicazione su Lavoro e previdenza oggi).
Una posizione di privilegio per i diritti individuali che trova riscontro nel pensiero dominante europeo, memore e reattivo alle devastanti esperienze storiche del secolo XX, riflesso di recente nella Risoluzione (priva di valore vincolante) dell'Assemblea parlamentare dei 47 Stati del Consiglio d'Europa di Strasburgo del 27 gennaio 2021, che invita i Governi a rendere noto ai cittadini che il vaccino non è obbligatorio e che la mancata vaccinazione non può costituire motivo di discriminazione. In effetti nessun altro Paese europeo ha emanato una legge sull'obbligo di vaccino anti-Covid.
Senonché dall'Europa provengono messaggi molto contraddittori. Su impulso di alcuni Paesi mediterranei, in particolare la Grecia, per i quali l'industria turistica costituisce una posta importante dell'economia nazionale, la Commissione dell'Unione è decisa a varare il c.d. passaporto vaccinale, cioè un documento con cui il titolare possa dimostrare l'avvenuta vaccinazione, per avere così libero ingresso nel Paese. In sede di mediazione con i Paesi del centro-nord Europa recalcitranti, si è deciso di inserire la menzione di altri due trattamenti sanitari a carattere diagnostico, il tampone negativo e l'attivazione di anticorpi specifici a seguito di pregressa infezione.
Questa decisione significa due cose: che anche un diritto fondamentale come la libertà di movimento all'interno dell'Unione può subire limitazioni a causa di trattamenti sanitari non obbligatori; che gli stessi possono costituire oggetto di una clausola contrattuale in vari rapporti civilistici come quelli di trasporto, ostelleria, ristorazione e simili.
Peraltro, una breccia nella logica dell'orientamento ego focused è aperta da quella dottrina la quale ritiene che legittimamente un ospedale o una casa di cura privata possano pretendere la vaccinazione di medici ed infermieri, perché in questo caso la protezione della salute degli assistiti costituisce proprio l'oggetto della prestazione richiesta agli addetti del settore, pur in difetto di una legge attuativa dell'art. 32 (MAZZOTTA O., Vaccino anti-Covid e rapporto di lavoro, in Lavoro Diritti Europa, n. 1/2021).
Altri studiosi pongono l'accento sulla pluralità dei valori tutelati dall'art. 32, sul suo carattere solidaristico, e sulla necessità di bilanciare le varie norme costituzionali ed ordinarie che tutelano interessi apparentemente contrastanti.
I pionieri di tale indirizzo sono stati Ichino e Guariniello, seguiti poi da altri studiosi, con percorsi distinti e concorrenti.
Per Ichino (ICHINO P., Perché e come l'obbligo di vaccino può nascere anche solo da un contratto di diritto privato, in Lavoro Diritti Europa, 1/2021) il titolare di un diritto fondamentale ben può autolimitarsi nel suo esercizio, e farne oggetto di rapporti contrattuali. Fa l'esempio dei contratti di viaggio, di ristorazione, e dello stesso contratto di lavoro, che comporta diversi interventi sulla salute, con le visite di idoneità, le visite ispettive domiciliari eccetera.
Il passaporto vaccinale ci sembra la migliore conferma di tale assunto.
A questo indirizzo riteniamo si possano ascrivere le recenti dichiarazioni di altro insigne giurista (R. DE LUCA TAMAJO, cit. supra a nota 4.). Premesso che “il dibattito in atto appare appesantito da troppi distinguo e da uno spirito libertario che francamente andrebbero banditi in una fase storica in cui l'interesse generale deve essere anteposto con fermezza rispetto a conati di individualismo poco coerenti con la gravità del momento”, afferma che nel momento in cui volontariamente un cittadino entra in un contratto di lavoro avente ad oggetto la cura e l'assistenza di pazienti “fragili” egli assume vincoli e obblighi in qualche misura dismissivi anche di libertà fondamentali. Fa l' esempio del giornalista assunto da un giornale con forte orientamento politico, che accetta una limitazione della libertà di esprimere il proprio pensiero o la propria (in ipotesi diversa) ideologia e da tale volontaria accettazione risulta vincolato, anche a costo di vedere contenuto l'esercizio di una libertà fondamentale, così richiamando la tematica delle organizzazioni di tendenza, dove la deroga alla disciplina dei licenziamenti richiede apposita norma (art. 4 legge n. 108/1990), mentre il dissenso che attenga al contenuto della prestazione è inibito dalla mera scelta professionale nell'ambito della organizzazione data.
Altri autori (Riverso - L'obbligo di vaccino anti-Covid nel rapporto di lavoro tra principio di prevenzione e principio di solidarietà, in Qualegiustizia, 18 gennaio 2021; dello stesso A. da ultimo, Vaccini e rapporto di lavoro: obblighi, responsabilità e tutele, in Conversazioni cit. 15 marzo 2021, di prossima pubblicazione sulla rivista Il lavoro nelle giurisprudenza -, De Matteis - Art. 32. Cost.: Diritti e doveri in tema di vaccinazione anti-Covid, in il Giuslavorista, 15 febbraio 2021; dello stesso A., Trattamenti sanitari nelle obbligazioni contrattuali. A proposito di vaccino anti-Covid, in Labor 23 febbraio 2021) pongono l'accento sull'impostazione solidaristica del primo comma dell'art. 32, con l'aiuto della giurisprudenza costituzionale, secondo cui il principio della libertà di cura deve essere bilanciato con la tutela della salute pubblica. In parole povere l'art. 32 tutela in maniera incondizionata la libertà individuale di cura alla Welby, non la scelta di por fine alla propria vita aprendo il rubinetto del gas o dando fuoco alla casa ed al condominio; in tutti i casi in cui la decisione del singolo interferisce con altri soggetti, occorre procedere ad un bilanciamento dei dati valoriali e delle relative norme di presidio, secondo un principio di responsabilità individuale.
In questo ambito è stato considerata anche la giurisprudenza costituzionale sul valore dei vaccini meramente raccomandati, e tale raccomandazione è stata vista sul versante civilistico come criterio integratore del canone di prudenza richiesto dall'art. 1176 nei rapporti contrattuali.
Infine, solo per la connessione con il tema successivo della ordinanza del tribunale di Belluno, ma in ordine cronologico coeva alla tesi Ichino, vi è la posizione di Guariniello (GUARINIELLO R., Covid 19, l'azienda può obbligare i lavoratore a vaccinarsi?, in www.ipsoa.it 28 dicembre 2021; vedi anche POSO V.A., Dibattito istantaneo in Labor on-line, 27 gennaio 2021), secondo cui nella trama delle norme ordinarie (art. 2087 c.c., 297 e 20 testo unico sicurezza) è possibile rinvenire la connessione tra più norme che sanciscono in maniera ineludibile e prioritaria l'obbligo di massima sicurezza del datore di lavoro ed il corrispondente obbligo di collaborazione a tale fine del lavoratore. In tale quadro riteniamo si inserisca l'ulteriore apporto di Pascucci-Delogu (PASCUCCI P .- DELOGU A., L'ennesima sfida della pandemia Covid 19: esiste un obbligo vaccinale nei contesti lavorativi?, in DSL 1/2021, reperibile anche su Conversazioni cit.) i quali individuano nell'art. 15 del testo unico sicurezza la norma cardine che, imponendo al datore di lavoro l'obbligo di eliminare il rischio, e non solo attenuarlo, dà inizio ad una sequenza normativamente cadenzata che può culminare, attraverso il giudizio di inidoneità del medico competente, nell'allontanamento del lavoratore. In questo quadro la mancata vaccinazione rileva non come esercizio di libertà o comportamento colpevole, ma come dato fattuale che causa inidoneità all'ambiente di lavoro, alla pari ad esempio della mancanza di un braccio per il lavoro alla pressa, e pertanto senza alcuna implicazione della tematica dell'obbligo di vaccino.
Questo orientamento sulla prevalenza dell'obbligo di sicurezza sembra accolto dalla prima pronuncia giudiziale sul tema.
Il fatto: dieci operatori sanitari, di cui due infermieri, dipendenti da due case di riposo nel bellunese, hanno rifiutato il vaccino anti-Covid per loro predisposto. I datori di lavoro, previo giudizio di inidoneità alla mansione specifica pronunciato dal medico competente, li hanno collocati in ferie retribuite. Avverso il provvedimento datoriale gli operatori sanitari hanno proposto ricorso di urgenza ex art. 700 c.p.c., respinto con ordinanza del tribunale di Belluno 19 marzo 2021 n. 12.
Il Tribunale ha esaminato separatamente i due requisiti che legittimano il provvedimento di urgenza ed il suo accoglimento, il fumus boni iuris ed il periculum in mora.
Circa il primo considera tre elementi:
- l'obbligo del datore di lavoro nascente dall'art. 2087 codice civile di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro; - l'efficacia del vaccino, che considera notoria, desumendo tale carattere dal dato storico e comparativo del drastico calo dei decessi in quei Paesi in cui è stato massicciamente somministrato; - le mansioni dei ricorrenti, impiegati a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro.
In forza di tali elementi desume la legittimità della misura adottata dell'allontanamento dall'ambiente di lavoro in forza degli obblighi nascenti dall'art. 2087, con la collocazione in ferie retribuite.
Esclude poi il periculum in mora perché allo stato il datore di lavoro ha disposto solo la collocazione in ferie retribuite.
Contrariamente a come l'ordinanza è stata presentata dagli organi di informazione (“niente stipendio senza il vaccino”, secondo un livello di approssimazione piuttosto frequente nei mezzi di informazione anche più qualificati), il provvedimento del tribunale di Belluno si pronuncia solo sulla legittimità del primo livello (messa in ferie retribuite) nella scala di provvedimenti ingravescenti che la dottrina propone in caso di rifiuto di vaccini. Ciò non toglie che sia meritata la definizione di sentenza (o meglio ordinanza) storica, non solo perché è il primo provvedimento giudiziario ad intervenire in una materia così combattuta, ma anche per il suo contenuto, esaustivo nella stringatezza. La ordinanza infatti non collega le rationes decidendi alla specificità delle mansioni degli operatori sanitari, ma al fatto che i ricorrenti siano impiegati in mansioni a contatto con persone che accedono al loro luogo di lavoro, così istituendo, a nostro avviso, un collegamento inespresso con quella nozione ampia di rischio di contagio disegnata nella circolare Inail 13/2020, ed anche alla nozione di rischio di contagio assunta nel d.l. (attraverso i contatti interpersonali o in qualsiasi altro modo).
Sono state ovviamente sollevate critiche al carattere assertivo nell'ordinanza, specie in punto di fatto notorio. È stato rilevato in contrario il carattere provvisorio delle autorizzazioni delle autorità regolatorie, la mancanza di certezza scientifica sulla sicurezza ed efficacia dei vaccini in uso. Ma il Tribunale ha guardato alla trave del dato storico dell'azzeramento dei morti grazie al vaccino. D'altra parte, la legge n. 210/1992 costituisce il riconoscimento ordinamentale che anche i vaccini obbligatori collaudati possono presentare un rischio marginale di eventi avversi.
Non conosceremo il seguito della vicenda giudiziale in sede di giudizio di merito. È presumibile che il decreto-legge conduca a più miti consigli gli infermieri che si lamentavano delle ferie retribuite.
Resta il fatto che l'ordinanza in esame segna un punto a favore del pensiero volto a consentire al datore di lavoro l'assolvimento dell'obbligo alla massima sicurezza sul luogo di lavoro, nell'interesse di tutti. |