Emergenza COVID e responsabilità del medico che trascura l'aggravamento dei sintomi

Giuseppe Sileci
14 Aprile 2021

Si può configurare la responsabilità professionale del medico che, in piena emergenza sanitaria, abbia trascurato l'aggravamento dei sintomi influenzali ed abbia effettuato la visita domiciliare quando il quadro clinico del paziente era compromesso da una grave polmonite in soggetto positivo al COVID?

Il sig. Lucillo, soggetto affetto da grave ipertensione, al quale il medico di base il 6 marzo 2020 diagnosticava una prostatite acuta, regredendo i disturbi alla minzione ma persistendo lo stato febbrile sopra il 38 °C nonostante la terapia prescritta e gli antipiretici, il 10 marzo informava il medico Sempronio aggiungendo che era comparsa anche una insistente tosse.
Il sanitario confermava la cura ed il 12 marzo – non migliorando le condizioni del paziente – prescriveva un antibiotico generico ma non ravvisava la necessità di una visita domiciliare, che programmava – nonostante le insistenze del paziente ed il peggioramento del quadro clinico – solo sei giorni dopo, quando disponeva la immediata ospedalizzazione.
Il 18 marzo il sig. Lucillo veniva ricoverato in terapia intensiva con diagnosi di grave polmonite in soggetto positivo al COVID 19, ma purtroppo le cure non evitavano il decesso, che avveniva la mattina del 20 marzo per complicanze dovute ad uno scompenso cardiaco.

Si può configurare la responsabilità professionale del medico di base che aveva in cura il sig. Lucillo?

Lo Stato assicura a ciascun cittadino – attraverso il servizio sanitario nazionale – la tutela della salute fisica e psichica (art. 1, l. n. 833/1978), garantendo – tra l'altro – “la diagnosi e la cura degli eventi morbosi quali che ne siano le cause, la fenomenologia e la durata” (art. 2, l. n. 833/1978).

I suddetti obiettivi sono perseguiti anche attraverso un sistema di assistenza medica generica, ambulatoriale e domiciliare, prestata da personale sanitario dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale (art. 25, l. n. 833/1978).

Il rapporto dei medici generici in regime di convenzione è regolato dagli accordi collettivi nazionali previsti dall'art. 8, d.lgs. n. 502/1992.

In particolare, l'accordo collettivo nazionale sottoscritto il 23 marzo 2005 e successivamente modificato ed integrato dall'accordo sottoscritto il 27 maggio 2009 prevede – tra i compiti individuali del medico di assistenza primaria – le seguenti attività: a) servizi essenziali; b) gestione dei malati nell'ambito dell'assistenza domiciliare programmata e integrata; c) assistenza programmata nelle residenze protette e nella collettività (art. 45, ACN 23 marzo 2005).

Per servizi essenziali si intende la “gestione delle patologie acute e croniche secondo la migliore pratica ed in accordo con il malato, inclusi gli interventi appropriati e le azioni rilevanti di promozione alla salute”.

L'art. 47 ACN 2 marzo 2005 stabilisce altresì che l'attività medica è prestata nello studio del medico o a domicilio, avuto riguardo alla non trasferibilità dell'ammalato; inoltre, la visita domiciliare deve essere eseguita di norma nel corso della stessa giornata ove la richiesta pervenga entro le ore dieci ovvero – se perviene dopo tale orario – entro le ore dodici del giorno successivo.

Se vi è urgenza, la chiamata deve essere soddisfatta entro il più breve tempo possibile.

È sempre il medico generico che – ove lo ritenga necessario – formula richiesta di visita e/o indagine specialistica e/o di prestazione specialistica ovvero formula proposta di ricovero (art. 51, ACN 23 marzo 2005)

Più in generale, il medico di medicina generale – alla stregua di ogni altro sanitario – deve adempiere la prestazione con la diligenza qualificata stabilita dal secondo comma dell'art. 1176 c.c. e comunque deve attenersi alle raccomandazioni previste dalle linee guida di cui all'art. 5 L. n. 24/2017 ovvero – in mancanza di dette raccomandazioni – deve attenersi alle buone pratiche clinico – assistenziali.

Sebbene la comunità scientifica non abbia ancora elaborato linee guida per la diagnosi e cura delle infezioni da COVID 19, nel 2008 il Servizio Nazionale per le Linee Guida (SNLG) ha pubblicato le raccomandazioni per la gestione della sindrome influenzale, le quali raccomandano la ospedalizzazione se il paziente è una donna gravida o è soggetto di età maggiore o uguale a 65 anni ed altresì in presenza di determinati dati clinici (ad esempio, quando vi sono malattie concomitanti ovvero valori alterati della frequenza respiratoria, della pressione arteriosa, del polso o della temperatura corporea) e di determinati dati di laboratorio.

Queste regole di condotta sono state integrate – da quando è iniziata la emergenza sanitaria in atto – da alcune Circolari del Ministero della Salute, e cioè quelle del 22 gennaio 2020 n. 1997 e del 27 gennaio 2020 n. 2302 ma soprattutto quella del 22 febbraio 2020, n. 5443, che è anche pubblicata nel sito dell'Istituto Superiore di Sanità nella sezione SNLG – Buone pratiche - consultabile al seguente indirizzo: https://snlg.iss.it/?cat=4.

In particolare, quest'ultima circolare prescrive precise regole di condotta cui debbono attenersi i medici di medicina generale quando vengono a conoscenza di un caso sospetto di COVID, stabilendo le misure precauzionali che ciascun singolo sanitario deve adottare e distinguendo il trattamento del paziente con sintomi da quello paucisintomatico ovvero positivo ma asintomatico.

In presenza di sintomi (ossia temperatura > 37,5 °C, mal di gola, rinorrea, difficoltà respiratoria e sintomatologia simil-influenzale/simil Covid 19/ polmonite), il medico deve effettuare la valutazione epidemiologica per affezioni alle vie respiratorie tenendo presente le eventuali patologie preesistenti e lo stato vaccinale e deve segnalare il caso sospetto all'UO di Malattie infettive di riferimento.

Sempre la medesima circolare definisce il “caso sospetto”, ossia una persona con infezione respiratoria acuta (insorgenza improvvisa di uno dei seguenti sintomi: febbre, tosse, dispnea) che nei 14 giorni precedenti l'insorgenza della malattia soddisfi una delle seguenti condizioni: a) storia di viaggi o residenza in Cina; b) contatto stretto con un caso probabile o confermato di COVID; c) ha lavorato o ha frequentato una struttura sanitaria dove sono ricoverati pazienti con infezione da SARS-CoV-2.

Ma la circolare include tra i casi sospetti anche le “persone che manifestano un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tenere conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un'altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica”.

Orbene, alla luce della normativa e delle raccomandazioni e buone pratiche sopra richiamate non pare che il dott. Sempronio abbia agito con la perizia e diligenza richieste dalla situazione.

Al predetto dovrebbe rimproverarsi innanzitutto di non avere effettuato immediatamente una visita domiciliare il 10 marzo, quando – dopo avere appreso telefonicamente dal sig. Lucillo che la febbre si manteneva costantemente sopra i 38 °C e che si era manifestata una fastidiosa tosse – prescriveva al predetto di proseguire la terapia per la cura della diagnosticata prostatite acuta.

Al predetto professionista sarebbe addebitabile anche di avere effettuato una diagnosi telefonica e di avere prescritto un trattamento antibiotico manifestatosi del tutto inutile e di avere cambiato la terapia sempre all'esito di un consulto telefonico. Con non minore severità dovrebbe anche imputarsi al medico curante di avere negato la visita domiciliare, così ritardando il ricovero del paziente nonostante il progressivo aggravamento del quadro clinico, e di avere sottovalutato l'improvvisa comparsa di tosse in paziente affetto da prostatite acuta ed una temperatura corporea costantemente sopra i 38 °C che mal si giustificava con un miglioramento della infezione alle vie urinarie.

Quanto al nesso di causalità tra il decesso del sig. Lucillo e la tardiva diagnosi di grave polmonite in soggetto positivo al COVID 19, dovrebbe ritenersi, in accordo con la più recente giurisprudenza della Suprema Corte (Cass. civ., 11 novembre 2019, n. 28991), che nella fattispecie sia soddisfatto il nesso eziologico qualora fosse documentato che tra la insorgenza dei sintomi influenzali e la visita domiciliare sono intercorsi ben 8 giorni, durante i quali di fatto è stata prescritta al sig. Lucillo una terapia del tutto inappropriata, così non impedendo – secondo il criterio della causalità adeguata o del più probabile che non - l'aggravamento della malattia sino all'esito fatale.

Rimane da chiedersi se dell'operato del medico ne debba rispondere anche l'azienda sanitaria presso la quale il suddetto professionista svolge le funzioni di medico di medicina generale in regime di convenzione.

Al riguardo ha affermato la Suprema Corte che “l'Asl è responsabile civilmente, ai sensi dell'art. 1228 c.c., del fatto illecito che il medico, con essa convenzionato per l'assistenza medico – generica, abbia commesso in esecuzione della prestazione curativa, ove resa nei limiti in cui la stessa è assicurata e garantita dal S.s.n.” (Cass. civ., 27 marzo 2015, n. 6243).

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