Se la quarantena Covid è imputabile ad una condotta colposa del lavoratore, l'assenza è ingiustificata ed il licenziamento è legittimo
16 Aprile 2021
Massima
In base ai principi di correttezza e buona fede il lavoratore subordinato deve adottare una condotta che non sia lesiva dell'interesse del datore di lavoro consistente nell'effettiva esecuzione della prestazione lavorativa.
Sulla base di questo presupposto l'assenza dal lavoro dovuta dalla quarantena, così come previsto dalla normativa anticovid, per aver trascorso le ferie in un paese extracomunitario costituisce assenza non giustificata della lavoratrice e legittima il licenziamento per giusta causa. Il caso
Con ricorso ex art. 1 comma 49 legge Fornero una dipendente impugnava il licenziamento intimatole per giusta causa dovuto all'assenza dal lavoro a causa della quarantena a seguito di 14 giorni di ferie trascorse in Albania. Nella lettera di licenziamento la società datrice lavoro confermava quanto precedentemente contestatole nel procedimento disciplinare. Evidenziava, infatti, che la lavoratrice si era assentata dal luogo di lavoro dal 9 di luglio a causa dell'utilizzo di venti giorni di congedo covid, susseguiti da tre giorni di permesso ex legge 104, ai quali erano state attaccate due settimane di ferie, prolungate con altri tre giorni di permesso legge 104 mentre si trovava in Albania, susseguiti a cinque giorni di malattia del figlio e uno suo sempre mentre si trovava all'estero e conclusi con quattordici giorni di quarantena così come previsto dalla normativa volta a limitare la diffusione del covid nel caso di viaggi effettuati in paesi extracomunitari.
Non in ultimo il datore di lavoro rilevava come i certificati medici di malattia fossero stati rilasciati da un medico italiano mentre si trovava in Albania. Nell'ultimo giorno di malattia risultava inoltre appurato che la ricorrente avesse viaggiato dall'Albania all'Italia ad ulteriore dimostrazione della scarsa attendibilità dei certificati rilasciati.
La lavoratrice chiedeva accertarsi in via principale la ritorsività del licenziamento in quanto sarebbe stato intimato a seguito dell'utilizzo dei permessi ex legge 104.
In via subordinata eccepiva l'illegittimità del licenziamento per assenza ingiustificata sostenendo che al momento della sua partenza verso l'Albania l'obbligo di quarantena di ritorno dagli viaggi all'estero non sussistesse e che, pertanto, nessun comportamento negligente verso le esigenze produttive del datore di lavoro potesse esserle contestato. Eccepiva, infatti, che l'obbligo di quarantena nel caso di viaggi oltre confine fosse stato reintrodotto mentre si trovava già all'estero. La questione
L'assenza per quarantena di cui alla normativa anti Covid deve sempre considerarsi assenza giustificata? La soluzione giuridica
Il Giudice del Tribunale di Trento respinge entrambe le domande della ricorrente ritenendo legittimo il licenziamento per giusta causa.
Richiamandosi a due recenti pronunce della Suprema Corte (Cass., sez. lav., 23 settembre 2019, n. 23583 e Cass., sez. lav., 4 aprile 2019, n. 9468) a riguardo dei presupposti per poter definire un licenziamento di natura ritorsiva, evidenzia come la motivazione adottata dal datore di lavoro non fosse manifestatamente insussistente e che la ricorrente non avesse fornito elementi nemmeno di natura presuntiva dai quali fosse possibile dedurre l'esclusivo intento ritorsivo del licenziamento.
Come anticipato, il Giudice non accoglie nemmeno la declaratoria volta a far accertare l'assenza di giusta causa.
Rileva, infatti, che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, l'obbligo di quarantena nel caso di visita di uno stato extraeuropeo, come l'Albania, sussistesse già al momento della partenza all'estero. Per questo motivo la ricorrente avrebbe dovuto sapere che al ritorno delle ferie non avrebbe potuto tornare subito a lavoro.
Risulta, quindi, evidente che l'impossibilità di riprendere l'attività lavorativa al termine delle ferie sia stata causata da una condotta quantomeno colpevole della lavoratrice.
Tale quantomeno negligenza, sommata ad altri comportamenti poco chiari quali l'aver usufruito permessi in base alla legge 104 mentre si trovava in Albania e attestato lo stato di malattia tramite certificati di un medico italiano sempre mentre si trovava all'estero, hanno indotto il Giudice a confermare la legittimità del licenziamento intimato.
Non in ultimo il Giudicante evidenzia come non possa dirsi leso il diritto alle ferie della lavoratrice poiché la normativa anticovid, che ha comportato la momentanea compressione di alcuni diritti costituzionalmente garantiti al fine di tutelare la salute collettiva, nel periodo in cui la ricorrente ha svolto le ferie, prescriveva esclusivamente precauzioni (la quarantena) per viaggi effettuati in paesi extraeuropei. Osservazioni
A parere di chi scrive la motivazione dell'ordinanza appare corretta sia sotto il profilo logico che su quello giuridico.
Il comportamento della lavoratrice che ha cercato in tutti i modi di posticipare il rientro al lavoro producendo attestazioni di dubbia veridicità, unendo il fatto che un'assenza protratta per oltre due mesi può avere effettivamente cagionato disagi al datore, giustifica la decisione in commento. Il Giudice non ha fatto altro che applicare al rapporto di lavoro i principi generali delle obbligazioni presenti negli artt. 1218 e 1256 c.c. che stabiliscono che l'obbligazione specifica (e non generica quale la consegna di una somma di denaro) del debitore possa diventare non esigibile in forma temporanea o definitiva qualora la causa d'inadempimento non sia a questo imputabile. Nel caso di specie l'impossibilità temporanea della prestazione è certamente imputabile alla scelta della ricorrente di svolgere le ferie all'estero. La limitazione di trascorrere le ferie non in un paese extracomunitario pare più che giustificata al Giudice se si considera che molti diritti costituzionalmente garantiti hanno subito limitazioni per arginare il diffondersi della pandemia.
In relazione al caso affrontato nell'ordinanza in commento può essere richiamata la sentenza della Cass., sez. lav., 25 gennaio 2011, n. 1699. Nel caso analizzato dalla Suprema Corte era stata accertata la legittimità del licenziamento nei confronti di un lavoratore che, pur non avendo superato il periodo di comporto, ogniqualvolta tornava dalle ferie trascorse sull'isola di Zanzibar era costretto ad assentarsi dal luogo di lavoro per aver contratto malattie tropicali aggravate dalle sue patologie pregresse che lo rendevano inabile al lavoro per lunghi periodi.
Secondo la Corte la tutela del lavoratore in malattia va letto in correlazione agli artt. 1175 e 1375 c.c. dai quali in ambito lavorativo è desumibile il principio in base al quale il lavoratore non deve effettuare volontariamente comportamenti che possano pregiudicare l'esecuzione della prestazione lavorativa.
Il discorso ricade dunque sul concetto di rischio elettivo. Il lavoratore si è posto volontariamente nella condizione di non lavorare e, quindi, il suo inadempimento non è giustificabile. Anche nel caso dell'ordinanza in commento si può sostenere ragionevolmente che la lavoratrice avesse deliberatamente scelto di recarsi all'estero pur sapendo – o dovendo sapere- che al ritorno non avrebbe potuto ricominciare a lavorare se non dopo quattordici giorni. |