Violazione della normativa antinfortunistica e responsabilità dell'ente: l'interesse della società può configurarsi anche con una sola trasgressione
27 Aprile 2021
Massima
In tema di responsabilità da reato delle persone giuridiche per il reato di lesioni colpose con violazione della normativa antinfortunistica, il criterio di imputazione oggettiva dell'interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta a un'iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente. Il caso
In relazione all'infortunio di un dipendente di una società, la Corte d'appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza del Tribunale cittadino, condannava tale ente collettivo per l'illecito di cui agli artt. 590 c.p. e 25-septies d.lgs. n. 231/2001. In particolare, nel giudizio era imputato per il delitto di lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa antifortunistica il direttore generale dell'ente amministrativamente responsabile, nonché addetto alla produzione e datore di lavoro della persona offesa, cui si contestava di aver cagionato a quest'ultima l'amputazione dell'avampiede destro, per negligenza, imprudenza e imperizia e per inosservanza delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (in particolare, dell'art. 71, commi 1, 3, 4 e 7, T.U. n. 81/2008, in relazione ai punti 3.1.1. e 3.1.4. all. VI T.U. e dell'art. 73, comma 1, lett. a) e b) T.U. n. 81/2008, in relazione ai punti 3.1.5, 3.2.4. e 3.2.5 all. VI citato), per avere disposto o comunque consentito l'utilizzo di un carrello elevatore per operazioni per le quali non era indicato (sollevamento di un fascio di colonne metalliche lunghe quasi quattro metri e pesanti ciascuna Kg. 678), senza fornire attrezzature o accessori necessari per un uso in sicurezza, essendo stato il mezzo utilizzato a guisa di gru/paranco, e non per la movimentazione di carichi pallettizzati, e senza utilizzo di ganci in grado di trattenere il carico e per non avere impartito ai lavoratori idonee istruzioni per l'uso del carrello di che trattasi in relazione alle modalità d'imbraco e ai sistemi di ancoraggio, onde assicurare la stabilità del carico e scongiurare la prossimità di lavoratori a terra, anche in situazioni anomale ma prevedibili (quale l'utilizzo del carrello per sollevare lunghe colonne metalliche). Nella specie, durante la movimentazione di un fascio di quattro colonne metalliche con le caratteristiche sopra descritte, eseguita imbracando il carico con una fascia di tessuto, le cui estremità a occhiello venivano infilate in una delle zanche sollevate del carrello, il dipendente infortunato era intento a tenere in equilibrio e orientare manualmente il carico da terra, mentre un collega si trovava alla guida del carrello; all'improvviso, una estremità della fascia di imbraco era fuoriuscita dalla zanca, facendo cadere a terra il carico che investiva il lavoratore persona offesa al piede destro, determinando le descritte conseguenze lesive. I giudici di merito, in presenza di tale situazione di fatto, hanno ritenuto sussistenti i presupposti per la dichiarazione di responsabilità amministrativa evidenziando, in ordine all'elemento oggettivo d'imputazione, il collegamento tra la condotta del soggetto apicale e gli assetti organizzativi dell'azienda. Il legale rappresentante della società si era trovato, infatti, nell'occorso nella necessità di fronteggiare una specifica esigenza aziendale: si trattava cioè di eseguire il collaudo del carroponte e per farlo era necessario approntare dei pesi che erano stati individuati in quattro fasci di colonne d'acciaio, non disponibili però nel capannone ove era installato il nuovo carroponte; non potendo utilizzare altri carroponti, per la traslazione delle colonne avrebbe dovuto fare ricorso a ditte esterne e affrontare i costi di noleggio e i tempi di attesa, da valutarsi anche in termini di perdita di tempo. L'utilizzo del carrello, al contrario, aveva consentito di agire subito e "a costo zero", ad onta del fatto che quella scelta fosse del tutto inadeguata rispetto alla tutela della integrità dei lavoratori. Pertanto, quando l'imputato persona fisica si determinò a usare il carrello in modo improprio e pericoloso per raggiungere lo scopo voluto, ciò fece nell'interesse dell'ente, onde evitare spese e accelerare i tempi del collaudo e ciò a prescindere dal fatto che la società non avesse improntato la sua politica al risparmio allorché si era proceduto alla dotazione di un nuovo carroponte: è stato ritenuto decisivo, infatti, che l'utilizzo del carrello aveva scongiurato costi aggiuntivi. La difesa dell'ente ricorreva in cassazione sostenendo, per quanto di interesse in questa sede e con riferimento alle sole argomentazioni che interessano specificatamente il contenuto del d.lgs. n. 231/2001, la violazione dell'art. 5 del predetto decreto ed un vizio di illogicità della motivazione, rilevando che, nel passaggio motivazionale relativo al trattamento sanzionatorio dell'imputato, la stessa Corte territoriale ha riconosciuto che la condotta s'inseriva in un contesto di evidente eccezionalità, premessa dalla quale era logico attendersi la conclusione che, nella specie, difetterebbero sia l'interesse che il vantaggio per l'ente. Inoltre, secondo il deducente, la Corte territoriale si sarebbe palesemente discostata dalle, nozioni giuridiche di interesse e vantaggio, rinvenendo un asserito interesse nel risparmio sulla complessiva operazione di installazione e collaudo del carroponte. La questione
Come è noto, subito dopo l'introduzione nel corpo normativo del d.lgs. n. 231/2001 del citato art. 25-septies si era sostenuta l'incompatibilitàfra i criteri di determinazione della responsabilità dell'ente (in particolare la circostanza che il reato debba essere commesso nell'interesse o a vantaggio della società) e l'ipotesi di responsabilità della persona giuridica per i reati di omicidio e lesioni colpose conseguente a violazione della normativa antinfortunistica, ma tale tesi è stata immediatamente respinta dalla giurisprudenza, secondo cui la sussistenza dell'interesse dell'ente si deve accertare in relazione alla condotta colposa e non all'evento verificatosi, per cui l'interesse può essere correlato anche ai reati colposi d'evento, rapportando i due criteri indicati dal citato art. 5 non all'evento delittuoso, bensì alla condotta violativa di regole cautelari che ha reso possibile la consumazione del delitto, mentre l'evento andrebbe ascritto all'ente per il fatto stesso di derivare dalla violazione di regole cautelari. Come detto in una decisione di merito, «non c'è dubbio che solo la violazione delle regole cautelari poste a tutela della salute del lavoratore può essere commessa nell'interesse o a vantaggio dell'ente – allo scopo di ottenere un risparmio dei costi di gestione – e che l'evento lesivo in sé considerato [è] semmai controproducente per l'ente», con la conseguenza che «il collegamento finalistico che fonda la responsabilità dell'ente [...] non deve necessariamente coinvolgere anche l'evento, quale elemento costitutivo del reato, giacché l'essenza del reato colposo è proprio il risultato non voluto» (G.u.p. Trib. Novara, 1 ottobre 2010. In dottrina, SANTORIELLO, Violazioni delle norme antinfortunistiche e reati commessi nell'interesse o a vantaggio della società, in Riv. Resp. Amm. Enti, 2008, 1, 161; ID., I requisiti dell'interesse e del vantaggio della società nell'ambito della responsabilità da reato dell'ente collettivo, ivi,2008, 3, 49). In sostanza, l'argomentazione della giurisprudenza sul punto è agevolmente ricostruibile nei seguenti termini. In primo luogo, il “profitto del reato” è qualsiasi "vantaggio economico" che costituisca un "beneficio aggiunto di tipo patrimoniale" che abbia una "diretta derivazione causale" dalla commissione dell'illecito. Questo non comporta che tale beneficio debba essere individuato nell'utile che il reo trae dalla sua condotta delittuosa né tanto meno che debba tradursi in un accrescimento materiale del suo patrimonio – non è necessario che in conseguenza del reato il responsabile dello stesso acquisisca la disponibilità di beni o somme di denaro, ulteriori rispetto a quello di cui era già in possesso -, giacché il profitto del crimine è nozione comprensiva anche di qualsivoglia utilità che il criminale realizza come effetto anche mediato ed indiretto della sua attività criminosa. Da ciò discende, in secondo luogo, che nulla preclude la possibilità di rinvenire un profitto anche in presenza di reati colposi, ed in specie laddove la condotta colposa si concreti nella violazione della normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro. In tale ipotesi, infatti, il profitto può individuarsi, quanto meno, nel risparmio di spesa inerente l'ammodernamento e la messa a norma degli impianti e più in generale nella mancata adozione delle doverose misure di sicurezza e prevenzione degli infortuni e malattie professionali – dovendosi poi considerare, accanto a tale profilo, anche il beneficio pervenuto in capo alla società dalla prosecuzione dell'attività funzionale alla strategia aziendale ma non conforme ai canoni di sicurezza: la nozione di profitto assume significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi in cui è il termine è richiamato ed in presenza di reati colposi di evento, posto che la responsabilità del reato è attribuita all'ente in quanto la condotta violativa delle regole cautelari è stata assunta nel suo interesse, l'idea di profitto si collega con naturalezza ad una situazione in cui l'ente trae da tale violazione un vantaggio che si concreta, tipicamente, nella mancata adozione di qualche oneroso accorgimento di natura cautelare, o nello svolgimento di una attività in una condizione che risulta economicamente favorevole, anche se meno sicura di quanto dovuto (da ultimo, Cass. pen., sez. IV, 5 febbraio 2021, n. 4480; Cass. pen., sez. IV, 26 ottobre 2020, n. 29854). Il quadro argomentativo è poi completato da frequenti affermazioni della Cassazione in tema di controllo del datore di lavoro sulle eventuali condotte abnormi ed improvvise del proprio dipendente – situazione che, come vedremo, viene in considerazione anche nella vicenda in esame. Il datore di lavoro deve vigilare sul rispetto delle regole di cautela da parte del dipendente, operando in conformità alle norme sulla sicurezza, con la conseguenza che se l'evento lesivo o mortale, derivato dalla violazione di una regola cautelare, rappresenta proprio la concretizzazione del rischio che la norma mirava ad evitare e tale rischio era prevedibile ex ante dall'autore della violazione, egli non potrà che rispondere per l'evento dannoso che avrebbe dovuto prevenire attraverso l'osservanza della norma cautelare violata. Pertanto, la condotta colposa della vittima – salvo il caso in cui il comportamento del dipendente sia così abnorme per la sua eccezionalità ed imprevedibilità da sfuggire completamente al controllo del garante - non esonera da responsabilità il datore di lavoro che, essendo il destinatario della normativa antinfortunistica, deve prevenire anche scelte sconsiderate (ma prevedibili anzi tempo) da parte del dipendente indisciplinato, idonee a compromettere la sua incolumità psico-fisica. All'interno di questa consolidata impostazione, la giurisprudenza, tuttavia, presenta una divaricazione di posizioni. Infatti, in alcune decisioni della Cassazione (Cass. pen., sez. II, 10 luglio 2015, n. 29512; Cass. pen., sez. IV, 22 febbraio 2020, n. 13575) – pur riconoscendosi, ad esempio, che “il vantaggio di cui all'art. 5 d.lgs. n. 231/2001, operante quale criterio di imputazione oggettiva della responsabilità, può consistere anche nella velocizzazione degli interventi manutentivi che sia tale da incidere sui tempi di lavorazione”, conseguente anche al mancato svolgimento di corsi di formazione dei lavoratori –, si riconosce come non possa ritenersi che, nell'ambito di illeciti colposi addebitabili ad un soggetto che riveste la qualifica di datore di lavoro in una società, possa qualificarsi quest'ultima come beneficiata dal reato ogni qualvolta e per il solo fatto che si sia in presenza di una mera ricaduta patrimoniale favorevole in capo alla persona giuridica, giacché questa impostazione finirebbe per comportare che la verifica della sussistenza del criterio del vantaggio darebbe esiti positivi anche soltanto valorizzando fatti del tutto esteriori al reato. Per evitare tale rischio occorre verificare se la vicenda tragica sia il frutto di una isolata violazione della normativa in tema di sicurezza sul lavoro o sia il risultato di una sistematica violazione di tale disciplina, avendo l'ente realizzato una politica d'impresa disattenta alla materia della sicurezza del lavoro, consentendo una riduzione dei costi ed un contenimento della spesa con conseguente massimizzazione del profitto; ciò significa che occorre accertare in concreto le modalità del fatto e verificare se la violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene del lavoro, che ha determinato l'infortunio, rispondesse ex ante ad un interesse della società o abbia consentito alla stessa di conseguire un vantaggio (Cass. pen., sez. IV, 13 settembre 2019, n. 16713). Di conseguenza, in presenza di un reato di lesioni personali aggravate dalla violazione della disciplina antinfortunistica, nel decidere circa la sussistenza di un vantaggio in capo alla società in conseguenza di un illecito criminale posto in essere dai suoi amministratori, la valutazione non va svolta isolando le singole conseguenze del reato ma considerando in termini complessivi ed in un'ottica temporale più vasta rispetto a quella che considera il solo momento di svolgimento della condotta illecita quali siano gli effetti che in capo alla persona giuridica sono derivati dal reato stesso (Cass. pen., sez. V, 19 settembre 2017, n. 42778): occorre in sostanza che le violazioni al d.lgs. n. 81/2008 si iscrivano in un atteggiamento di disinteresse per la salute dei lavoratori più ampio e generale, tale da poter fondatamente far sostenere che la società intenzionalmente traeva un significativo vantaggio, identificato nel risparmio dei tempi di lavorazione, dalla continua (o quanto meno frequente) inosservanza delle prescrizioni antinfortunistiche. Come detto, in altre decisioni viene assunta una posizione diversa, giacché si sostiene che l'art. 25-septies non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente da reato colposo: se lo scopo è di assicurare che l'ente non risponda in virtù del mero rapporto di immedesimazione organica, sarebbe eccentrico ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari (Cass. pen., sez. IV, 17 novembre 2020, n. 4480; Cass. pen., sez. IV, 22 settembre 2020, n. 29854). Si afferma dunque che il carattere della sistematicità, oltre ad essere eccentrico rispetto allo spirito della legge, “presenta in sé innegabili connotati di genericità: la ripetizione di più condotte, poste in essere in violazione di regole cautelari, potrebbe non essere ancora espressiva di un modo di essere dell'organizzazione e, quindi, di una sistematicità nell'atteggiamento antidoveroso. D'altro canto, l'innegabile quoziente di genericità del concetto non consente neppure di stabilire, in termini sufficientemente precisi, quali comportamenti rilevino a tal fine (identici; analoghi; diversi, ma pur sempre consistenti in violazioni delle regole anti infortunistiche)”, anche se poi si riconosce che la rilevanza della ripetizione sul piano probatorio “quale possibile indizio della esistenza dell'elemento finalistico della condotta dell'agente, al tempo stesso scongiurando il rischio di far coincidere un modo di essere dell'impresa con l'atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica” (Cass. pen., sez. IV, 17 novembre 2020, n. 4480). Le soluzioni giuridiche
Il ricorso è stato dichiarato inammissibile. Prima di esaminare la sorte del ricorso della persona giuridica è, tuttavia, il caso di soffermarsi sulle riflessioni che la Cassazione svolge con riferimento ad una argomentazione avanzata dalla difesa dell'imputato persona fisica, il quale riteneva che nel caso di specie la decisione di responsabilità fosse preclusa dall'effetto interruttivo sul decorso causale dovuto al comportamento “abnorme” del lavoratore. Ricorda in proposito la decisione che in materia di prevenzione antinfortunistica, si è nel tempo passati da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, imponendosi contro la loro volontà), ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori, in tal senso valorizzando il testo normativo di riferimento (cfr. art. 20 d.lgs. n. 81/2008), il quale impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e agire con diligenza, prudenza e perizia (Cass. pen., sez. IV, 10 febbraio 2016, n. 8883). Contestualmente, si è individuato il principio di auto responsabilità del lavoratore, abbandonando il criterio esterno delle mansioni, sostituito con il parametro della prevedibilità, intesa come dominabilità umana del fattore causale, e si è passato, a seguito dell'introduzione del d.lgs n. 626/1994 e, poi, del T.U. 81/2008, dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" al concetto di "area di rischio" (Cass. pen., sez. IV, 23 marzo 2007, n. 21587), che il datore di lavoro deve valutare in via preventiva. Vero ciò, resta in ogni caso fermo il principio secondo cui non può esservi alcun esonero di responsabilità all'interno dell'area di rischio, nella quale si colloca l'obbligo datoriale di assicurare condizioni di sicurezza appropriate anche in rapporto a possibili comportamenti trascurati del lavoratore. Viene quindi ribadita la massima secondo cui all'interno dell'area di rischio considerata, la condotta del lavoratore può ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, non tanto ove sia imprevedibile, quanto, piuttosto, ove sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Cass. pen., sez. IV, 13 dicembre 2016, n. 15124; Cass. pen., sez. IV, 28 novembre 2018, n. 5007) oppure ove sia stata posta in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, come tale, al di fuori di ogni prevedibilità da parte del datore di lavoro, oppure vi rientri, ma si sia tradotta in qualcosa che, radicalmente quanto ontologicamente, sia lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Cass. pen.,sez. IV, 10 gennaio 2018, n. 7188). Sulla scorta di queste argomentazioni, la condanna dell'imputato persona fisica è confermata dalla Cassazione posto che il lavoratore risultava aver agito nel contesto delle lavorazioni espressamente assegnategli, la condotta riguardando un momento propedeutico reso necessario da iniziative prese da altri e la soluzione al problema contingente è stata rinvenuta dai due lavoratori impegnati nello spostamento delle colonne in una pratica già osservata in azienda, sotto le direttive dello stesso datore di lavoro, appena due giorni prima, il quale in tal modo aveva accreditato la convinzione che quell'anomala modalità di traslazione delle colonne potesse essere praticata anche nella specifica situazione. In qualche modo queste considerazioni sono anche alla base della decisione con cui la Cassazione rigetta il ricorso presentato nell'interesse dell'ente. Dopo aver ricostruito sinteticamente i termini generali della disciplina in tema di responsabilità da reato degli enti collettivi e ricordato che i criteri d'imputazione oggettiva della responsabilità dell'ente (l'interesse o il vantaggio di cui all'art. 5 d. lgs. n. 231/2001), sono alternativi e concorrenti tra loro, in quanto il primo esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, il secondo ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito, la decisione ribadisce la colpa di organizzazione deve intendersi in senso normativo ed è fondata sul rimprovero derivante dall'inottemperanza da parte dell'ente dell'obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggetto collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (Cass. pen., Sez. Un., 24 aprile 2014, n. 38343) Quanto ai reati colposi di evento in violazione della normativa antinfortunistica, viene ribadito che i suddetti criteri di imputazione oggettiva vanno riferiti alla condotta del soggetto agente e non all'evento, in conformità alla diversa conformazione dell'illecito, essendo possibile che l'agente violi consapevolmente la cautela, o addirittura preveda l'evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell'ente. Vi è dunque perfetta compatibilità tra inosservanza della prescrizione cautelare ed esito vantaggioso per l'ente, che può essere ravvisato nel risparmio di risorse economiche conseguente alla mancata predisposizione dei procedimenti e dei presidi di sicurezza; nell'incremento economico conseguente all'incremento della produttività non ostacolata dal rispetto della normativa prevenzionale, nel risparmio sui costi di consulenza, sugli interventi strumentali, sulle attività di formazione e informazione del personale, nella velocizzazione degli interventi di manutenzione e di risparmio sul materiale: il beneficio ricavato dall'ente collettivo in tali circostanze, dunque, va inteso non solo come risparmio di spesa conseguente alla mancata predisposizione del presidio di sicurezza, ma anche come incremento economico dovuto all'aumento della produttività non rallentata dal rispetto della norma cautelare (Cass. pen., sez. IV,23 giugno 2015, n. 31003; Cass. pen., sez. IV, 10 ottobre 2017, n. 53285). Ciò posto, la Cassazione prende posizione in ordine all'esatta individuazione dei parametri di imputazione oggettiva, avuto riguardo alla rilevanza o meno del connotato di sistematicità delle violazioni in tema di verifica del parametro oggettivo d'imputazione, sì da scongiurare una lettura della norma di cui all'art. 25-septies d.lgs. n. 231/2001 secondo cui l'affermazione della responsabilità dell'ente consegue indefettibilmente, una volta dimostrati il reato presupposto e il rapporto di immedesimazione organica dell'agente. Secondo questa pronuncia, il criterio di imputazione oggettiva dell'interesse può sussistere, infatti, anche in relazione a una trasgressione isolata dovuta a un'iniziativa estemporanea, senza la necessità di provare la natura sistematica delle violazioni antinfortunistiche, allorché altre evidenze fattuali dimostrino il collegamento finalistico tra la violazione e l'interesse dell'ente (Cass. pen., sez. IV, 22 settembre 2020, n. 29584); in sostanza, l'art. 25-septies citato non richiede la natura sistematica delle violazioni alla normativa antinfortunistica per la configurabilità della responsabilità dell'ente derivante dai reati colposi ivi contemplati, né tale connotato è imposto dalla necessità di rinvenire un collegamento tra l'azione umana e la responsabilità dell'ente che renda questa compatibile con il principio di colpevolezza ed anzi sarebbe eccentrico rispetto allo spirito della legge ritenere irrilevanti tutte quelle condotte, pur sorrette dalla intenzionalità, ma, in quanto episodiche e occasionali, non espressive di una politica aziendale di sistematica violazione delle regole cautelari, considerato peraltro l'innegabile quoziente di genericità del concetto di sistematicità. Al più, fermo rimanendo che non occorre che la violazione della normativa antifortunistica, per determinare un vantaggio in capo all'ente, si presenti come sistemica e continuativa, la Cassazione evidenzia come la presenza di plurime e ripetute violazioni in tema di sicurezza sul lavoro possa rappresentare (non, come detto, un presupposto indefettibile della responsabilità dell'ente, bensì) un possibile indizio della esistenza dell'elemento finalistico della condotta dell'agente, idoneo al tempo stesso a scongiurare il rischio di far coincidere un modo di essere dell'impresa con l'atteggiamento soggettivo proprio della persona fisica. Ne deriva, quale logico corollario, che l'interesse può sussistere anche in relazione a una trasgressione isolata, allorché altre evidenze fattuali dimostrino tale collegamento finalistico, così neutralizzando il valore probatorio astrattamente riconoscibile al connotato della sistematicità. A questa impostazione, secondo la Cassazione si sarebbero adeguati i giudici di merito i quali, nell'esaminare il criterio di imputazione oggettivo ai sensi dell'art. 5 d.lgs. n. 231/2001, hanno messo in evidenza, sulla scorta degli elementi restituiti dall'istruttoria, l'interesse dell'ente consistito nella velocizzazione dei tempi del collaudo del carroponte e il vantaggio rappresentato dal risparmio sui costi di noleggio dell'attrezzatura, in quel momento non disponibile a causa della particolare situazione venutasi a creare proprio in conseguenza del programmato collaudo. Il che risponde adeguatamente alle censure con le quali parte ricorrente ha opposto il carattere eccezionale e la non sistematicità della violazione. Osservazioni
La tesi – pienamente condivisibile – secondo cui vi è indiscussa compatibilità fra reati colposi e responsabilità da delitto delle società apre le porte al rischio di dare vita ad una sorta di automatismo in base al quale ogni qualvolta si verifichi una violazione antinfortunistica da cui derivi una malattia o un infortunio del lavoratore possa per ciò solo dirsi dimostrata la circostanza che l'ente ha tratto dalla vicenda un vantaggio economico derivante dal risparmio dei costi o da una accelerazione dei tempi di lavoro. Si finirebbe così per imputare automaticamente gli eventi della morte o delle lesioni finirebbero alla società tutte le volte in cui si accerti un suo interesse o vantaggio in relazione alla condotta imprudente della persona fisica che li ha causalmente determinati. Un argine a tale conclusione può essere già rinvenuto ricordando come non sia sufficiente a radicare la responsabilità dell'ente collettivo la circostanza che lo stesso abbia ottenuto un vantaggio o perseguito un suo interesse a seguito della (o mediante la) commissione di uno dei fatti di reato di cui agli artt. 25 ss. d.lgs. n. 231/2001, dovendosi anche rinvenire una colpevolezza dell'ente medesimo – la cosiddetta colpa di organizzazione -, da individuare nell'incapacità della persona giuridica di darsi una organizzazione e di fornirsi degli strumenti necessari ad evitare che nell'ambito della propria attività imprenditoriale vengano poste in essere determinate tipologie di illeciti. Proprio il necessario ricorrere di questo deficit organizzativo in capo alla persona giuridica – quale presupposto necessario per la sua dichiarazione di responsabilità – consente di comprendere come sia possibile sostenere che la condotta criminosa del singolo amministratore, pur connotata da colpa e negligenza, possa dirsi comunque essere stata assunta nell'interesse dell'ente collettivo di appartenenza: infatti, pur non avendo l'ente interesse né alla lesione del lavoratore né alla violazione della regola cautelare il concreto esame della vicenda potrà comunque far emergere prospettive puntuali, di regola collegate alla organizzazione e/o all'andamento della produzione – ad esempio, un risparmio mediante il taglio dei costi connessi alla sicurezza o un maggior livello produttivo – delle quali si può dire che manifestino l'interesse della compagine organizzata a non evitare il reato. Occorre tuttavia andare al di là di tale puntualizzazione ed in quest'ottica la decisione in commento non pare pienamente condivisibile giacché non sembra corretto limitare al solo profilo probatorio la circostanza della “presenza di plurime e ripetute violazioni in tema di sicurezza sul lavoro [quale] possibile indizio della esistenza dell'elemento finalistico della condotta dell'agente”, giacché in questo modo si rischia di smarrire il corretto significato (o meglio l'individuazione delle condizioni in presenza delle quali si può parlare) di un interesse o vantaggio per l'ente in presenza di lesioni subite da suoi dipendenti quali conseguenza dell'inosservanza di prescrizioni antifortunistiche. Va osservato infatti che non tutte le violazioni delle disposizioni in materia di igiene e sicurezza sul lavoro possono dirsi e sono senz'altro riconducibili allo scopo di far conseguire un vantaggio economico all'impresa, ben potendo individuarsi, nella casistica giurisprudenziale, casi in cui gli infortuni si verificano per cause non direttamente riconducibili ad una logica di abbattimento dei costi per la sicurezza. Di conseguenza, occorrerebbe sempre – ed anzi potrebbe dirsi soprattutto quando si tratti di reati colposi – che il giudice fornisca adeguata prova del fatto che gli addebiti di colpa specifica ascritti all'imputato persona fisica siano qualificabili come condotte deliberatamente strumentali al conseguimento di un apprezzabile risparmio di spesa da parte dell'ente, differenziando l'ipotesi in cui la violazione delle regole cautelari corrisponda alla realizzazione di una precisa politica d'impresa, orientata in tal senso per fini economici dai casi in cui tale circostanza dipenda, invece, da una errata gestione o omessa vigilanza sulla normativa antinfortunistica (indipendentemente da un interesse specifico dell'ente). Laddove la prova circa il fatto che il soggetto apicale abbia commesso il fatto nell'interesse o a vantaggio dell'ente manchi, allora la società deve andare comunque esente da pena, pur se non ha adottato alcun modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati, non può essere ritenuto responsabile di alcunché, divenendo di contro essenziale per l'ente dimostrare di avere adottato un idoneo modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati quando un'acquisizione probatoria in ordine ai vantaggi che lo stesso ha conseguito dalla vicenda - o relativamente all'interesse perseguito con il proprio comportamento riprovevole - venga conseguita. |