Flussi finanziari derivanti dalla continuità indiretta, ragionevole durata delle procedure concorsuali e misura minima di soddisfacimento dei creditori

28 Aprile 2021

Il decreto del Tribunale di Milano in commento si presenta molto articolato ed affronta numerosi ed interessanti argomenti: i vizi e l'inidoneità dell'attestazione, l'irragionevole lunghezza del piano di concordato e la soddisfazione minima dei creditori, i canoni d'affitto d'azienda e la finanza esterna.
Massime

I canoni incassati dalla società in concordato a titolo di corrispettivo per l'affitto del ramo d'azienda non costituiscono flussi finanziari derivanti dalla continuità (indiretta), ma sono meri frutti o accessori del capitale e dello stesso patrimonio aziendale, resi possibili e generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore. Quindi le somme così incassate devono essere distribuite secondo le regole dell'art. 2741 c.c., nel rispetto delle cause legittime di prelazione, e non possono essere qualificate come finanza esterna liberamente utilizzabile.

Un piano di concordato che si sviluppa su un arco temporale di dieci anni appare eccessivamente lungo rispetto alla ragionevole durata delle procedure concorsuali (fissata tra cinque e sette anni) e non è credibile a livello di scienza aziendalistica. Dato il lunghissimo arco temporale del piano decennale, proprio per l'impossibilità di prevedere ex ante i riflessi aziendalistici e macroeconomici, l'attestazione sarà forzatamente “condizionata” ad eventi futuri ed incerti, quindi si avrà come non apposta, in violazione dell'art. 161 l.fall. L'attestazione incerta e dubitativa, ovvero che lascia margini di incertezza circa l'esito del piano, è inammissibile, rivelandosi in sostanza come una “non attestazione”.

Se il soddisfacimento dei creditori appare inferiore alla "misura quantomeno minimale", la proposta di concordato dovrà ritenersi manifestamente inadatta a perseguire la causa concreta cui la procedura è volta, consistente nel consentire il superamento della condizione di crisi dell'imprenditore e nel riconoscere agli aventi diritto la realizzazione del credito vantato in tempi ragionevolmente contenuti, sia pure per una minima consistenza. Tale non può ritenersi il 3% a favore dei chirografari nell'arco decennale, che significherebbe ad oggi una percentuale prossima allo “zero” e non minimamente apprezzabile.

Il caso

Una società (SAS) intende proporre ai creditori un piano di concordato preventivo liquidatorio in "continuità indiretta".

Dopo un primo periodo di prosecuzione diretta dell'attività, la ricorrente SAS prevede di affittare la sua azienda ad una diversa società (S.r.l.), il cui management coincide con quello della società debitrice affittante, per un arco temporale di nove/dieci anni, al termine del quale è prevista la restituzione dell'azienda all'originaria titolare SAS.

Dall'affitto d'azienda la debitrice SAS dovrebbe incassare (per il periodo 2021-2030) un canone fisso mensile ed uno variabile pari al 30% dell'utile netto conseguito su ogni esercizio.

Quindi, la ricorrente SAS - qualificando l'incasso dei canoni d'affitto come flusso finanziario derivante dalla continuità indiretta – ha previsto di pagare:

- i creditori privilegiati "non falcidiati" in cinque anni, a decorrere dal 2021 e con termine al 2025 (al di fuori del limite biennale ex art. 186 bis l.fall.);

- i creditori privilegiati “falcidiati” a decorrere dal 2025 e con termine nel 2030;

- i creditori chirografari, soddisfatti solo per il 3% del loro credito, dopo i privilegiati falcidiati, quindi a partire dal 2030 (dopo circa 9 anni).

Tale proposta, secondo la prospettazione della debitrice, potrebbe assicurare la migliore soddisfazione dei creditori rispetto allo scenario fallimentare alternativo.

Il Tribunale di Milano ha dichiarato inammissibile (ex art. 162 l.fall.) la proposta di concordato per una pluralità di motivi.

Le questioni giuridiche e le possibili soluzioni

Il decreto in commento si presenta molto articolato ed affronta numerosi argomenti, tutti molto interessanti.

a) Sui vizi e sull'inidoneità dell'attestazione

Il primo capitolo del provvedimento milanese è intitolato "Sulle criticità permanenti in ordine all'attestazione del business plan dell'affittuaria".

In tale capitolo, il Collegio - dopo aver ricordato che il piano di concordato in continuità indiretta prevedeva l'affitto del ramo d'azienda della debitrice SAS alla affittuaria SRL, per la durata di 9 anni (dal 2021 al 2030), a fronte di un canone in parte fisso e in parte variabile - ha ritenuto che la relazione del professionista resa ai sensi dell'art. 161, comma 3, l.f. non fosse idonea ad attestare la fattibilità del piano.

Ciò in quanto l'attestatore non si era compiutamente espresso né sulla congruità del canone d'affitto né sulla sostenibilità dell'apporto da parte dell'affittuaria SRL (non si era soffermato sulla solvibilità e sulla capacità patrimoniale della SRL, soggetto fondamentale per la continuità indiretta).

Quindi, nel decreto in commento si legge che "L'assenza di attestazione sul punto si riflette non solo sulla corretta informativa per le valutazioni economiche dei creditori in sede di adunanza ma in senso stretto sull'ammissibilità e fattibilità giuridica, posto che l'attestazione è elemento necessario ex art. 161 l.f. e nel sistema della continuità indiretta ex art. 186 bis l.f. la stessa non deve manifestarsi dannosa per l'interesse dei creditori nonché deve essere funzionale al miglior soddisfacimento dei medesimi".

Leggendo le pagine successive del provvedimento, ci si rende conto che l'attestazione è ritenuta viziata anche sotto altri profili.

La relazione del professionista, infatti, deve confrontarsi anche con un piano finanziario che si sviluppa in un arco temporale eccessivamente lungo (dal 2021 al 2030), che oltrepassa anche la ragionevole durata finanziaria e processuale del concordato, e che non consente di fare previsioni sull'andamento economico generale.

Ciò costringe l'attestatore ad esprimersi con giudizi dubitativi ed incerti sulla fattibilità del piano, che rimane condizionato da eventi futuri e variabili propri di una tempistica di esecuzione troppo lunga (ancor di più nell'attuale scenario economico causato dal Covid-19).

Sulla scorta di tali considerazioni, il Collegio - richiamando alcuni precedenti giurisprudenziali - ribadisce che "l'attestazione incerta e dubitativa, ovvero che lascia margini di incertezza circa l'esito del piano, è inammissibile, rivelandosi in sostanza come una “non attestazione”.

Conclude, quindi, affermando che una attestazione forzatamente “condizionata” ad eventi futuri ed incerti, va considerata come non apposta, perché in violazione dell'art. 161 l.fall.

b) L'irragionevole lunghezza del piano di concordato e la soddisfazione minima dei creditori

La irragionevole lunghezza di un piano di concordato decennale - oltre ad incidere negativamente sulla attendibilità dell'attestazione prevista dall'art. 161 l.fall. - influisce anche sulla "misura" di soddisfazione dei creditori.

Come illustrato più sopra, infatti, la proposta di concordato prevedeva: (i) il pagamento dei creditori privilegiati "non falcidiati" in cinque anni, a decorrere dal 2021 ed entro il 2025, (ii) il pagamento dei creditori privilegiati “falcidiati” a decorrere dal 2025 ed entro il 2030 e (iii), successivamente, il pagamento dei creditori chirografari nella misura del 3% (dopo circa 9 anni).

Ebbene, il Collegio – dopo aver fatto intendere che un piano di concordato per essere ritenuto ragionevole deve essere contenuto tra i cinque e i sette anni – ha ritenuto che il pagamento dei creditori chirografari nella misura del 3% del loro credito fra circa 9 anni (e quindi nel 2030) rappresenti una "soddisfazione irrisoria o inesistente" e che comporti una loro totale assenza di percezione di utilità economico/finanziaria e di soddisfazione anche minima, in violazione della necessaria “causa in concreto” che caratterizza il sinallagma concordatario...”

Argomentando sul punto, il tribunale di Milano sostiene che il giudice deve verificare e sindacare (nell'ambito della verifica della fattibilità giuridica) quale sia la "misura minima" del soddisfacimento dei creditori sotto la quale la proposta dovrà ritenersi manifestamente inadatta a perseguire la causa concreta della procedura di concordato, consistente nel superamento della condizione di crisi dell'imprenditore e nel riconoscere agli aventi diritto la realizzazione del credito vantato in tempi ragionevolmente contenuti.

Quindi, analizzando il caso concreto, il Collegio conclude affermando che il pagamento del 3% a favore dei chirografari nell'arco decennale equivale ad una percentuale attualizzata prossima allo “zero”, e pertanto non rappresenta una soddisfazione minimamente apprezzabile. Ciò - secondo i giudici milanesi - rende privo di "causa in concreto" il concordato proposto.

Nel viene fatto richiamo a due precedenti della S.C., ossia alla recente sentenza n. 11522 del 15/06/2020 e alla arcinota (e a volte abusata) Cass. civ., SS.UU., n. 1521/2013.

Ci limitiamo a segnalare che, a nostro avviso, i concetti di fattibilità giuridica e di fattibilità economica sono troppo spesso adoperati ad "uso e consumo" di chi li invoca, quasi come un sigillo per chiudere ogni spazio ad una proposta di concordato che non appare convincente e/o ammissibile sotto altri profili.

In effetti, concetti così fumosi e plastici si prestano ad essere tirati in ballo nei casi più disparati, al pari dell'altro paradigma della causa concreta (o di quello, ultimamente di moda, dell' "abuso del diritto").

Sono le stesse Sezioni Unite appena citate che - in fin dei conti - confermano che la "causa concreta", da intendersi come obiettivo specifico perseguito dal procedimento, non ha contenuto fisso e predeterminabile, essendo dipendente dal tipo di proposta formulata.

Tornando al caso concreto.

Leggendo il decreto di inammissibilità, anche noi ci siamo persuasi che la proposta di concordato (così come emerge dal testo del provvedimento) fosse carente e viziata sotto molteplici profili e, quindi, non potesse passare il vaglio dell'ammissibilità.

Non siamo convinti, però, che spetti al tribunale di verificare e sindacare - attraendo tale controllo sotto il "cappello" della verifica della fattibilità giuridica - quale sia quella "misura minima" del soddisfacimento dei creditorisotto la quale la proposta dovrà ritenersi manifestamente inadatta a perseguire la causa concreta.

Sono le stesse parole utilizzate nel provvedimento che mostrano la debolezza della tesi, laddove leggiamo: "una soddisfazione minima ed irrisoria o inesistente oltre i 4-5 anni dall'omologa, secondo l'attualizzazione dei flussi finanziari, per i creditori chirografari, importa una loro totale assenza di percezione di utilità economico/finanziaria e di soddisfazione anche minima, in violazione della necessaria “causa in concreto” che caratterizza il sinallagma concordatario".

Siamo convinti che il giudice non possa sostituirsi ai creditori nell'esprimere un giudizio sulla percezione di utilità economico/finanziaria e di soddisfazione anche minima.

Gli unici soggetti che possono dirci se l'offerta che viene loro fatta sia percepita come una utilità o come soddisfazione minima e accettabile sono i creditori, non un soggetto terzo (il giudice) che non è direttamente coinvolto nella misurazione della percezione di una utilità (valutazione soggettiva).

Altro discorso, invece, è verificare se - nell'offrire ai creditori una "utilità economica/finanziaria", che solo essi devono accettare o rifiutare - la proposta di concordato sia giuridicamente corretta e rispetti le altre previsioni di legge (quali, ad esempio: il pagamento nel biennio dei privilegiati, il corretto utilizzo dei flussi finanziari nel rispetto della par condicio, la completezza e la correttezza dell'attestazione, anche in punto di convenienza rispetto al fallimento, ecc.).

c) I canoni dell'affitto d'azienda e la finanza esterna

Nell'ultimo dei tre capitoli del decreto, il Tribunale ricorda innanzitutto che la proposta di concordato contempla la falcidia dei privilegiati (con pagamento anche oltre il biennio), ma anche il pagamento del 3% dei chirografari. Ciò è stato ritenuto possibile dalla debitrice in quanto essa ha qualificato i canoni ricavabili dall'affitto dell'azienda come flussi derivanti dalla continuità indiretta e, quindi, come finanza esterna liberamente distribuibile.

Fatta questa premessa, però, il Collegio rileva gli errori di impostazione commessi dalla ricorrente e chiarisce che i canoni incassati dalla società in concordato a titolo di corrispettivo per l'affitto del ramo d'azienda non costituiscono flussi finanziari derivanti dalla continuità (indiretta), ma sono meri frutti o accessori del capitale e dello stesso patrimonio aziendale, resi possibili e generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore.

Quindi, le somme così incassate, devono essere distribuite secondo le regole dell'art. 2741 c.c., nel rispetto delle cause legittime di prelazione, e non possono essere qualificate come finanza esterna liberamente utilizzabile.

La ricorrente - infatti - aveva cercato di sostenere che i flussi derivanti dall'affitto decennale dell'azienda (i.e. i canoni) potevano essere considerati alla stregua di finanza esterna in quanto (i) il contratto di affitto non esisteva ancora e gli incassi dei relativi canoni non sarebbero esistiti in caso di fallimento; ed anche perché (ii) al termine del contratto di affitto, l'azienda sarebbe rientrata nel patrimonio della debitrice, quindi la destinazione libera dei canoni non avrebbe alterato la situazione patrimoniale dell'affittante.

Il Collegio, però, ha giustamente rilevato che l'azienda da affittare faceva già parte del patrimonio della debitrice ricorrente. Con la conseguenza che i canoni ricavabili dall'affitto sono da considerarsi come flussi finanziari generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore, dunque da assoggettare alla regola dell'art. 2741 c.c. e della graduazione dei crediti.

I canoni di affitto rappresentano semplicemente i frutti civili del "bene azienda", azienda già presente nel patrimonio della debitrice.

Ciò vuol dire che le somme ricavabili dall'affitto d'azienda (canoni) vanno distribuite nel rispetto dell'ordine delle cause di prelazione.

E vuol dire anche che, allora, non si può procedere al pagamento dei creditori chirografari (neppure nella misura del 3%) se prima non sono stati soddisfatti integralmente tutti i creditori di rango poziore.

Questo è certamente un motivo di inammissibilità della proposta, conseguente alla verifica di fattibilità giuridica del concordato.

Osservazioni

Nel decreto in esame, torna alla ribalta anche il tema dei "flussi derivanti dalla continuità" e della loro equiparabilità o meno alla "finanza esterna", tema ampiamente dibattuto su questo portale.

Innanzitutto, concordiamo col Tribunale quando afferma che "è fuorviante equiparare i canoni di affitto aziendale ai flussi finanziari generati da una prosecuzione aziendale resa possibile soltanto in ragione e per effetto dell'apporto di finanza esterna da parte di un terzo soggetto".

Gli incassi dei canoni, seppur previsti all'interno di un piano di concordato in continuità indiretta, non rappresentano flussi finanziarigenerati da una prosecuzione aziendale resa possibile soltanto in ragione e per effetto dell'apporto di finanza esterna da parte di un terzo soggetto. Essi (gli incassi dei canoni, qualificati flussi della continuità) sono comunque generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore, sono i frutti ricavabili dal bene azienda.

Quindi, appare assai complesso condurre i suddetti flussi al di fuori della regola dell'art. 2741 c.c.

Con la pronuncia in esame, il Tribunale di Milano ribadisce alcuni concetti già espressi con un provvedimento del 2018 (Trib. Milano 5 dicembre 2018) che ha segnato il cambio di orientamento dell'Ufficio sul tema dei flussi della continuità.

Già allora la sezione fallimentare milanese ebbe modo di precisare "un conto è che i flussi della continuità siano comunque generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore, giacché in tal caso appare assai complesso condurre i suddetti flussi al di fuori della regola dell'art. 2741 c.c. ; un altro - ben diverso - conto è che tali flussi siano resi possibili da una prosecuzione aziendale resa a propria volta possibile unicamente dall'apporto di risorse esterne da parte di un terzo. in tal caso, invero, ben può affermarsi che tali flussi, in quanto generati da una finanza esterna, ne ereditino i caratteri, e risultino, quindi, liberamente distribuibili, sol che si consideri che, in assenza dell'apporto del terzo, detti flussi non esisterebbero, e conseguentemente le cause di prelazione - in primis il privilegio generale mobiliare - non avrebbero oggetto alcuno su cui esercitarsi”.

A ben vedere, lo stesso principio – seppur applicato con riferimento ai beni immobili, anziché ad una azienda – lo stesso Tribunale lo aveva chiaramente espresso anche nel 2011 (Trib. Milano, sez. fall., 20 luglio 2011, in Il Fallimentarista, 2012), affermando che "Non può qualificarsi finanza esterna al patrimonio del debitore, come tale liberamente allocabile tra i creditori, il prezzo di acquisto offerto da un terzo per un complesso di beni dedotti in concordato nella misura in cui tale prezzo eccede il valore di mercato dei beni medesimi per come stimati dall'attestatore".

Il principio è sempre lo stesso: se gli incassi (flussi) che avvengono in pendenza di un concordato in continuità sono comunque generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore, essi non possono essere qualificati come finanza terza e/o surplus concordatario e/o flussi della continuità liberamente utilizzabili, ma le relative somme vanno distribuite secondo le regole del concorso (art. 2741 c.c.).

Sulla scia di tali condivisibili principi, oggi ribaditi, abbiamo sentito l'esigenza di porci un ulteriore quesito di carattere generale.

Se è vero che:

- i flussi della continuità generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore non danno vita ad un surplus concordatario (il maggior valore derivante dall'attuazione del piano concordatario, rispetto a quello dell'attivo, anche potenziale, esistente al momento della domanda di concordato viene indicato col termine "surplus concordatario" o surplus da continuità e viene ritenuto liberamente distribuibile dal debitore alla stregua della finanza esterna; cfr. F. Rasile, C. Passerini, Destinazione dei flussi derivanti dalla continuità aziendale e dei frutti dell'immobile gravato da ipoteca, in ilfallimentarista.it, 12 agosto 2020) liberamente distribuibile (quindi devono essere distribuiti secondo la regola dell'art. 2741 c.c.); mentre

- invece, possono essere qualificati surplus concordatario (liberamente distribuibile) quei flussi della continuità che siano generati da una prosecuzione aziendale resa possibile unicamente per effetto dell'apporto di un soggetto terzo (flussi che nella prospettiva fallimentare non esisterebbero);

e se è vero - anche - che il corrispettivo per l'affitto o per la vendita dell'azienda rappresentano (praticamente sempre) incassi/flussi generati dalla residua capacità patrimoniale del debitore; ne consegue che nel concordato in continuità indiretta il pagamento dei creditori al di fuori della regola dell'art. 2741 c.c. sarà possibile esclusivamente a fronte di un apporto effettivo di finanza terza, chenon sia il corrispettivo del godimento o del trasferimento dell'azienda, o di un qualunque altro bene già presente nel patrimonio del debitore. Il fatto che grazie al concordato tali beni si assumano meglio valorizzati, non è – da solo – sufficiente a qualificare i relativi incassi/corrispettivi come flussi della continuità liberamente distribuibili.

Il richiamo al criterio del miglior soddisfacimento dei creditori, presente nell'art. 186 bis l.fall. in tema di concordato in continuità, non è in grado di scavalcare tale principio di diritto e di rendere ammissibile una proposta di concordato che non rispetti le regole del concorso dei creditori.

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