La configurabilità dei reati di falso in relazione alle autodichiarazioni Covid-19
30 Aprile 2021
Massima
Le false dichiarazioni contenute nel modulo di autocertificazione richiesto per giustificare i propri spostamenti in relazione alle misure di contenimento del contagio da Covid-19 non integrano la fattispecie di falsità ideologica del privato in atto pubblico ai sensi dell'art. 483 c.p. in quanto non è rinvenibile un atto pubblico con specifici effetti giuridici nel quale confluisca la dichiarazione del privato e, conseguentemente, non è ipotizzabile alcun obbligo del privato di affermare il vero nell'autodichiarazione. Il caso
Lo scorso 14 marzo 2020, nell'ambito delle procedure di controllo previste dalla normativa emergenziale per il contenimento della pandemia da Covid-19, una pattuglia della Polfer fermava l'imputato, il quale sottoscriveva un'autodichiarazione (artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445/2000) dichiarando di essersi recato sul posto di lavoro e, quindi, di essere in transito per raggiungere la propria abitazione. A seguito di opportune verifiche, gli agenti incaricati accertavano la mendacità delle dichiarazioni rese dall'interessato. Da qui, la contestazione di falso ai sensi degli artt. 483 c.p. e 76 (nonché 46 e 47) d.P.R. n. 445/2000 in relazione alle non veritiere dichiarazioni contenute nell'autocertificazione giustificativa dello spostamento. Sulla base delle menzionate risultanze istruttorie, il Gip di Milano formulava decreto penale di condanna che, successivamente, veniva opposto dal difensore dell'imputato, il quale chiedeva di procedersi con giudizio abbreviato. La questione
Le questioni che emergono nel caso di specie sono riassumibili così riassumibili: - se vi sia un obbligo di «dire la verità» sui fatti oggetto delle autodichiarazioni sottoscritte in sede di controllo delle autorità in ordine al rispetto della normativa emergenziale; - se l'atto che accoglie la dichiarazione del privato possa sussumersi nell'ipotesi di atto pubblico; - se sia effettivamente configurabile la fattispecie codicistica di falso in relazione alle autodichiarazioni Covid-19. Le soluzioni giuridiche
Le motivazioni della sentenza in commento dipanano dal preliminare dubbio afferente all'effettiva falsità di quanto dichiarato dall'imputato, dal momento che la documentazione prodotta dal difensore (il foglio presenze sottoscritto e timbrato dal datore di lavoro) rappresentava la presenza dell'interessato sul luogo impiegatizio proprio nel giorno dell'avvenuto controllo. Senza soffermarsi sul punto, il Giudice evidenzia, ad ogni modo, che nel caso di specie non sussistono “nemmeno astrattamente (…) i presupposti costitutivi della fattispecie delittuosa di cui all'art. 483 c.p.” che, com'è noto, incrimina la condotta del privato che attesti al pubblico ufficiale fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità. La citata norma incriminatrice, infatti, richiede per la sua configurazione: - la dichiarazione resa ad un funzionario pubblico, - la presenza un atto pubblico, - la destinazione di tale atto alla prova dei fatti dichiarati. In relazione al primo profilo, la pronuncia in commento rileva l'assenza dell'atto pubblico in cui verrebbe trasfusa la dichiarazione del privato resa in sede di autocertificazione. In altri termini, nelle ipotesi in esame non è dato rinvenire lo specifico atto del pubblico ufficiale nel quale le dichiarazioni infedeli siano destinate a confluire, determinando con ciò le conseguenze sanzionatorie previste dall'ordinamento. Invero, pure ammettendo che l'atto destinato alla prova dei fatti auto-dichiarati possa essere “il successivo (eventuale) verbale di contestazione di una sanzione amministrativa o l'atto di contestazione di un addebito di natura penale”, rimane fermo il fatto che non vi è alcuna norma che “ricolleghi specifici effetti ad uno specifico atto-documento nel quale la dichiarazione falsa del privato sia in ipotesi inserita dal pubblico ufficiale”. Si osserva quindi che il controllo successivo sulla veridicità delle attestazioni rese dai privati è solo eventuale e non necessario da parte della P.A., con la conseguenza che la certificazione mendace potrebbe – di fatto – rimanere impunita. Su questo presupposto, dal momento che non è rinvenibile nel sistema una norma che preveda determinati effetti giuridici in relazione ad uno specifico documento nel quale la dichiarazione falsa del privato sia inserita dal funzionario pubblico, risulta evidente come non sussista alcun obbligo giuridico di “dire la verità” sui fatti oggetto dell'autodichiarazione. Peraltro, occorre ricordare che, all'epoca dei fatti, la violazione delle misure di contenimento costituiva reato sanzionato ai sensi dell'art. 650 c.p. In questo senso, a volere opinare diversamente, si arriverebbe ad affermare che il privato sia obbligato a dire il vero sui fatti rappresentati in sede di auto-dichiarazione, pur nella consapevolezza che ciò potrebbe condurre alla sua sottoposizione ad un procedimento penale o, comunque, all'irrogazione di sanzioni amministrative pecuniarie di natura afflittiva e punitiva. Obbligo che, secondo il Giudice dell'Udienza Preliminare, “si porrebbe in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo (art. 24 Cost.) e con il principio nemo tenetur se detegere”. Tanto esposto, le argomentazioni della pronuncia in commento vengono arricchite dal richiamo alla giurisprudenza di legittimità in materia di false autodichiarazioni ex artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445/2000 rese al fine di ottenere un provvedimento amministrativo nell'interesse del dichiarante (in particolare, la casistica richiamata attiene a vicende di assegnazione di una casa popolare, abbonamento a tariffa agevolata per i servizi di trasporto pubblico, ammissione ad una gara d'appalto, rilascio del passaporto). Ebbene, il delitto di cui all'art. 483 c.p. – che si consuma nel momento in cuiil pubblico funzionario ha contezza della dichiarazione infedele – sussiste solo qualora l'atto pubblico, nel quale la certificazione del privato sia trasfusa, venga “destinato a provare la verità dei fatti attestati, e cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dichiarare il vero ricollegando specifici effetti all'atto-documento nel quale la sua dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale”. Il nodo centrale della sentenza pare proprio questo: nelle ipotesi di autocertificazioni imposte dalla normativa Covid-19 non può sussistere alcun obbligo di dire il vero (pena la violazione del principio nemo tenetur se detegere) e, pertanto, la fattispecie contestata non può ritenersi integrata. Per questi motivi, ai sensi dell'art. 530 c.p.p., l'imputato è stato assolto “perché il fatto non sussiste”. Osservazioni
La pronuncia in commento si iscrive in quadro di sentenze di merito che si sono già espresse in ordine alla (ir)rilevanza penale della falsità delle autodichiarazioni rese in sede di controlli volti ad appurare il rispetto delle normative anti Covid-19. Il riferimento, in particolare, corre ai provvedimenti del G.i.p. di Milano del 16 novembre 2020 e del G.i.p. di Reggio Emila del 27 gennaio 2021. Nonostante gli esiti assolutori, le ricordate decisioni non sono sovrapponibili dal punto di vista motivazionale. Il primo dato caratterizzante della pronuncia oggetto del presente contributo è il ragionamento strutturale, ossia l'approfondimento degli elementi costitutivi della fattispecie penale prevista dall'art. 483 c.p. Il Giudice di Reggio Emilia, sul punto, affronta la problematica nella prospettiva delle fonti del diritto, ritendo illegittimo il ricorso allo strumento del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri al fine di introdurre limitazioni alla libertà di circolazione (sebbene finalizzate al contenimento della diffusione del virus pandemico). Infatti, un simile provvedimento “non può disporre alcuna limitazione della libertà personale,trattandosi di fonte meramente regolamentare di rango secondario e non già di un atto normativo avente forza di legge”. D'altronde, si dice, è lo stesso art. 13 Cost. ad implicare, per la restrizione della libertà di locomozione, “un provvedimento individuale, diretto dunque nei confronti di uno specifico soggetto” ed emesso dalla competente Autorità giudiziaria. Sulla base di queste considerazioni il G.i.p. emiliano conclude per la disapplicabilità dei DPCM ritenuti illegittimi nonché della “norma giuridica contenuta nel DPCM che imponeva la compilazione e sottoscrizione della autocertificazione”; conseguentemente, il falso che coinvolge l'autocertificazione risulterebbe inutile (o comunque innocuo) e, in quanto tale, penalmente irrilevante. Diversamente, la decisione del G.i.p. di Milano del novembre 2020 si fonda sulla riconosciuta impossibilità di ricomprendere le dichiarazioni cd. di intenzione riprodotte nelle autocertificazioni Covid entro l'ambito applicativo dell'art. 483 c.p., dovendosi ritenersi escluse dalla nozione di “fatto” evocata tanto dalla disposizione codicistica (che sanziona la falsa attestazione al p.u. di «fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità») quanto dagli artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445/2000. In particolare, “mentre l'affermazione (…) da parte del privato di una situazione passata (si pensi alla dichiarazione di essersi recato in ospedale ovvero al supermercato) potrà integrare gli estremi del delitto de quo, la semplice attestazione della propria intenzione di recarsi in un determinato luogo o di svolgere una certa attività non potrà essere ricompresa nell'ambito applicativo della norma incriminatrice, non rientrando nel novero dei “fatti dei quali l'atto è destinato a provare la verità”. Differenziandosi dalle esposte motivazioni, la pronuncia in commento si concentra sugli elementi costitutivi della fattispecie di cui all'art. 483 c.p. Tale approdo argomentativo pare raccogliere le considerazioni già espresse dalla prevalente dottrinain ordine alla configurabilità della ipotesi di falso del privato in atto pubblico con riferimento alle dichiarazioni sostitutive di cui agli artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445/2000. La questione è particolarmente delicata in quanto, sul punto, la giurisprudenza maggioritaria sostiene l'applicabilità dell'art. 483 c.p. all'ipotesi di falso in autocertificazione valorizzando il tenore letterale dell'art. 76, comma 3, d.P.R.n. 445/2000, che riconosce come «le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47 sono considerate come fatte a pubblico ufficiale» (cfr. Cass. pen., Sez. V, 24 aprile 2019, n. 32859; Cass. pen., Sez. III, 4 ottobre 2018, n. 6347; Cass. pen., Sez. V, 7 febbraio 2017, n. 25927). Ciò è tanto è più vero se si pensi che anche le Sezioni Unite rese nel caso Scelsi (2007) hanno considerato l'autodichiarazione alla stregua di un vero e proprio atto pubblico, la cui rilevanza probatoria impone al privato l'obbligo di dire il vero. Le critiche della dottrina – cui aderisce anche il G.u.p. di Milano con la sentenza del marzo 2021 – considerano l'equiparazione dell'autocertificazione del privato all'atto pubblico come un'inammissibile estensione analogica dell'ambito applicativo dell'art. 483 c.p., posto che la norma incriminatrice richiederebbe la sussistenza di una autonoma attività certificativa del pubblico ufficiale che recepisce le dichiarazioni del privato (V. MORMANDO, D. GUIDI, F.A. SIENA). Le ricadute applicative dell'adesione all'una o all'atra impostazione sono significative, se non altro per l'ampiezza da accordare al contenuto del principio del nemo tenetur se detegere. Il valore del provvedimento pubblico, infatti, “trascende le mere finalità difensive del soggetto indagato ed attinge una serie di interessi (…) che non possono essere pregiudicati dalle prospettive del singolo di sottrarsi ai rigori della legge penale” (Cass. pen., Sez. V, 15 ottobre 2004, n. 22672). Il nodo centrale della pronuncia in commento è dunque la riconducibilità delle autocertificazioni Covid-19 al modello delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e degli atti di notorietà ex artt. 46 e 47 d.P.R. n. 445/2000. A tal riguardo, è possibile evidenziare che il già citato art. 76 si riferisce a quelle attestazioni del privato che si inseriscono in un rapporto con la pubblica amministrazione introdotto – il più delle volte – da un'istanza pretensiva del cittadino. In questo senso parte della dottrina ha già affermato l'incongruenza di tale contenuto rispetto alle autocertificazioni richieste dalla normativa emergenziale. Si ritiene, cioè, che le autodichiarazioni da Covid-19 siano mere scritture private, finalizzate ad adempiere all'“onere di dimostrare la sussistenza delle situazioni che consentono la possibilità di spostamento” che incombe sul soggetto sottoposto al controllo. In definitiva, posta la non sussumibilità della fattispecie di dichiarazioni mendaci nell'ambito dell'art. 483 c.p., si è evidenziata la residua qualificazione della condotta in esame – sempreché risultino integrati i presupposti – in termini di falsità personale rilevante ai sensi degliartt. 495 e 496 c.p. V. MORMANDO, Falsità del privato in atto pubblico (art. 483 c.p.), in V. MORMANDO – F. BOTTALICO, Le falsità in atti. La tutela penale della documentalità nel sistema dei reati contro la fede pubblica, Bari, 2017, 509 ss.; M. PELLISSERO, Covid-19 e diritto penale pandemico. Delitti contro la fede pubblica, epidemia e delitti contro la persona alla prova dell'emergenza sanitaria, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, 514-515; G.L. GATTA, Coronavirus, limitazione di diritti e libertà fondamentali, e diritto penale: un deficit di legalità da rimediare, in questa Sistema Penale, 16 marzo 2020. |