Rimessione in termini durante l'emergenza pandemica

Roberto Masoni
05 Maggio 2021

In particolare, ci si chiede se, per diritto processuale civile, sia ammissibile la restituzione in termine ex art. 153, secondo comma, c.p.c. della parte (rectius: del difensore) incolpevolmente decaduta dal compimento dell'attività processuale, in quanto attinta da contagio pandemico.
Pandemia ed effetti nel mondo giuridico

Da oltre un anno il mondo, e l'Italia in particolare, hanno subito gli effetti nefasti del contagio pandemico.

La bulimia legislativa patria ha prodotto molteplici testi normativi dettati con l'obiettivo di regolamentare le situazioni più disparate e gli effetti negativi che la pandemia ha determinato, modificando profondamente le esistenze individuali e l'economia globale.

I rapporti negoziali sono stati fortemente condizionati dalle protratte chiusure degli esercizi commerciali e delle attività economiche, come pure dalla quarantena disposta a più riprese a carico della popolazione civile per effetto dei provvedimenti governativi antagonistico, i quali hanno fortemente limitato i diritti costituzionali di ognuno; diritti individuali che, termino logicamente, sono qualificati «inviolabili» e che il Costituente ritenevano intangibili, mentre nel corso dell'anno di pandemia così non è propriamente stato.

In termini più generali, la pandemia ha attraversato trasversalmente tutte le sfere della nostra esistenza, come pure il mondo del diritto.

In questo non breve lasso temporale il legislatore è intervenuto sui rapporti sostanziali, in particolare sul rapporto obbligatorio inciso dall'influenza cinese, nell'ottica di un alleggerimento (o di un'esclusione) della responsabilità contrattuale del debitore in conseguenza delle restrizioni dettate dalle misure di contenimento pandemico (v. art. 91 d.l. 18/2020: «il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto e' sempre valutato ai fini dell'esclusione, ai sensi e per gli effetti degli art. 1218 e 1223 del c.c., della responsabilità del debitore, anche relativamente all'applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti»).

In ambito processuale, nella prima fase emergenziale, il legislatore ha disposto la sospensione dei termini processuali in corso (v. art. 83 d.l. 18/2020); poi, e sino alla conclusione dello stato di emergenza, è stata rimessa alla discrezione del magistrato l'applicabilità di riti processuali civili emergenziali: trattazione della causa da remoto, ovvero, in alternativa, mediante deposito di note scritte in telematico (art. 221 d.l. 34/2020).

Anche il processo esecutivo non è andato esente da una regolamentazione di ius singolare mediante previsione di sospensione (fino al 30 giugno prossimo) dell'esecuzione per rilascio immobiliare susseguente a morosità (art. 13, comma 13, d.l. 183/2020).

Le disposizioni processuali richiamate concernono la generalità dei processi civili, in ottica generalizzata, dato che le esigenze che esse intendono tutelare rivestono carattere di generalità e sono dettate nell'ottica del distanziamento sociale per evitare assembramenti nelle aule d'udienza, possibile fonte di incubazione e diffusione del virus.

Premesso quanto sopra, il virus cinese incide pure singulatim, intervenendo sulla condizione soggettiva delle parti processuali e dei difensori, contagiate e ricoverate in clinica. Cosìcchè la pandemia ben può incidere, in concreto e nei singoli casi, sullo svolgimento di specifiche attività processuali, sul rispetto di termini perentori, sui diritti e sulle facoltà delle parti, condizionandole negativamente, inducendo decadenze e preclusione in danno degli attori del processo, quale effetto di contagio.

Le parti sarebbero in tal modo condizionate nell'esercizio dei loro diritti di natura sostanziale.

Per porre rimedio a questa situazione patologica, incidente sull'esercizio dell'azione in giudizio e sul diritto di difesa delle parti nel processo (art. 24 Cost.), nell'ottica di garantire l'effettività della giurisdizione e del giusto processo regolato dalla legge (art. 111, comma 1, Cost.), il legislatore dell'emergenza non ha dettato specifiche disposizioni normative.

Il rovello che insorge trasparente riguarda la possibilità (e poi, in concreto, individuandone gli specifici limiti) di sussumere la decadenza processuale in cui sia incorsa incolpevolmente la parte processuale contagiata da Covid-19 nell'alveo dei canoni processuali generali. In particolare, ci si chiede se, per diritto processuale civile in queste situazioni sia ammissibile la restituzione in termine ex art. 153, secondo capoverso, c.p.c., della parte (rectius: del difensore) incolpevolmente decaduta dal compimento dell'attività processuale, in quanto attinta da contagio pandemico.

Un istituto che la pandemia è in grado di valorizzare in molteplici frangenti e situazioni.

Rimessione in termine nel codice di rito

Antecedentemente recenti interventi normativi riformatori, il codice di rito civile vigente aveva adottato un'impostazione minimalista nella regolamentazione del fenomeno della restituzione in termine.

Questo atteggiamento di sostanziale chiusura traeva origine nel codice di rito del 1865 che aveva completamente omesso di dettare qualsivoglia regolamentazione positiva in materia.

L'atteggiamento minimalista del codice di rito vigente si pone in netta antitesi rispetto al tenore del progetto di riforma elaborato da una commissione di studio presieduta nel 1920 da Giuseppe Chiovenda, che considerava la «restituzione in intero» un istituto dotato di carattere generale.

Il legislatore processuale del 1940 aveva scelto di ammettere il superamento delle preclusioni e decadenze processuali solo in casi eccezionali, tassativamente determinati dalla legge.

In quest'ottica, si paventava che l'istituto, laddove ne fosse ampliata la portata, avrebbe potuto prestarsi a significative forme di abuso nella prassi, in grado di porre in discussione la rigidezza del sistema delle preclusioni testè introdotto.

Il risultato era stato quello di non prevedere la rimessione in termini quale istituto generale, ma di prevederlo solo in singoli, determinati ed eccezionali casi.

Inparticolare, a norma dell'art. 49, comma 2, c.p.c., quando la Corte di cassazione pronunzia provvedimenti sulla prosecuzione del processo dopo il regolamento di competenza; ex art. 294, 1 comma, che dispone la «rimessione in termine» del contumace che non si sia potuto costituire in giudizio tempestivamente «per causa a lui non imputabile»; ex art. 327, 2 comma, in ipotesi analoga, ma dettata in sede di impugnazione; ex art. 650 c.p.c. in ipotesi di opposizione tardiva a decreto ingiuntivo, quando la parte non abbia potuto avere tempestiva conoscenza «per irregolarità della notificazione o per caso fortuito o forza maggiore»; ovvero, ex art. 668 c.p.c., in caso di opposizione tardiva allo sfratto, per analoghi motivi giustificativi.

Autorevoli interpreti, in tempi non sospetti, avevano segnalato criticamente che «la rimessione in termini (sia) una forma di regolamentazione giudiziale del processo, ispirata all'equità e al principio di conservazione» (Satta).

La letteratura processuale successiva, seppur con atteggiamento di disimpegno per la tematica (v. Grossi), aveva nel frattempo evidenziato che la rimessione in integro fosse espressione di principi di civiltà giuridica, laddove la parte avesse perduto le proprie facoltà processuali in modo incolpevole.

Si evidenziava autorevolmente che l'istituto poteva garantire il rispetto dei principi del giusto processo «regolato dalla legge» ex art. 111, 1 comma, Cost. (Punzi).

Un primo passo verso la «generalizzazione» dell'istituto fu compiuto dalla riforma processuale del 1990, che introdusse la previsione di rimessione in termine nel corpo del novellato art. 184-bis c.p.c. («la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice istruttore di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell'art. 294, 2 e 3 comma»).

Data la positio della novellata disposizione normativa (inserita nel II° libro della procedura, intitolato alla «istruzione della causa»), la dottrina tendeva ad escludere che l'istituto avesse valenza generalizzata.

Tanto che la giurisprudenza ne limitava l'applicazione alle situazioni interne al processo di cognizione (ex multis, Cass. civ., 15 ottobre 1997, n. 10094; Cass. civ., 29 gennaio 2003, n. 1285; Cass. civ., 11 luglio 2000, n. 9178), alla fase istruttoria del procedimento di primo grado (Cass. civ., 26 febbraio 2002, n. 2875; Cass. civ., 17 settembre 1997, n. 9257), escludendone l'applicazione all'impugnazione laddove proposta oltre il termine perentorio (Cass. civ., 25 novembre 2003, n. 17926).

Solo la riforma processuale del 2009 (dettata dalla l. 69), con l'aggiunta di un secondo comma all'art. 153 c.p.c. («la parte che dimostra di essere incorsa in decadenze per causa ad essa non imputabile può chiedere al giudice di essere rimessa in termini. Il giudice provvede a norma dell'art. 294, 2 e 3 comma»), dato lo spostamento della collocazione topografica dell'istituto nell'ambito del libro I° della procedura, intitolato alle «Disposizioni generali», e pertanto contenente disposizioni applicabili alla generalità dei processi, ha reso l'istituto dotato di valenza generale e caratterizzato da generalizzata applicabilità.

Come si è notato, la rimessione non è fenomeno unicamente italiano, in quanto si tratta di un movimento di politica legislativa che trova in Europa un coerente parametro. A questo riguardo si rammentano l'art. 45 Reg. 1215/12, l'art. 19 Reg. 1309/2007 e l'art. 20 Reg. n. 1896/2006, in materia di ingiunzione europea (Biavati).

Elaborazione pretoria

La previsione di generalizzata applicabilità della rimessione in termine, quale istituto dotato di valenza generale, è conseguenziale all'ultima versione dell'istituto, come accolta nel testo di cui al capoverso dell'art. 153 c.p.c. (susseguente alla riforma processuale di cui alla l. 69/2009).

L'ampliamento dello spettro applicativo dell'istituto rende ragione della sua estensione anche alle situazioni esterne al processo, quali le impugnazioni (Cass. civ., 29 luglio 2010, n. 17704; Cass. civ., 17 giugno 2010, n. 14627 e Cass. civ., 4 gennaio 2011, n. 98, per il ricorso per Cassazione; Cass. civ., 3 dicembre 2020, n. 27726).

Viceversa, dato che l'istituto trova disciplina nel c.p.c., non sembra ipotizzabile estenderne la portata ai termini di natura sostanziale (ad es., ex artt. 244 e 1137, 2 comma, c.c.) (Balena, De Sanctis, ritiene, invece, che quest'ultima sarebbe una «conclusione di respiro corto»).

Il tenore lessicale della disposizione ex art. 153, capoverso, c.p.c., come pure la sua collocazione sistematica nel capo II del libro I, dedicato ai «termini» (processuali), evidenzia che la causa non imputabile alla parte, e pertanto la condotta incolpevole (seguita dalla decadenza), non può che riguardare un evento verificatosi nel processo.

Per assumere rilevanza agli effetti in discorso, tale evento deve essere «estraneo alla volontà delle parti» (Cass. civ., 9 agosto 2019, n. 21304; Cass. civ., 27 aprile 2020, n. 8217), caratterizzato da «assolutezza» e non riferibile ad «impossibilità relativa o a mera difficoltà» (Cass. civ., 4 dicembre 2020, n. 27773).

Tradizionalmente, la causa non imputabile alla parte si identifica con il caso fortuito o la forza maggiore, consistente in «una forza esterna ostativa in modo assoluto ed un fatto di carattere oggettivo avulso dall'umana volontà e causativo dell'evento per forza propria» (Cass. civ., 24 ottobre 2008, n. 25737). Al caso fortuito ed alla forza maggiore espressamente si richiamano gli artt. 650, 1 comma, e 668, 1 comma, c.p.c. per rendere ammissibile l'opposizione tardiva a decreto ingiuntivo ed alla convalida di sfratto.

Si è notato che il minimo comune denominatore che genera l'esclusione della riferibilità della decadenza alla parte è rappresentato dalla circostanza che il vano trascorrere del termine perentorio non sia imputabile alla volontà o alla possibilità della parte decaduta, ovvero del suo procuratore costituito, ad essa legato da rapporto di mandato professionale (De Sanctis).

Resta con ciò escluso che possa darsi rimessione in termine, a fronte di negligenza o assenza di diligenza riferibile alla parte medesima o al difensore.

L'intensa elaborazione pretoria susseguente alle innovazioni introdotte in materia dalla l. 69/2009 ha poi condotto la nomofilachia ad assimilare il c.d. overulling alla «causa non imputabile», di cui all'art. 153, capoverso, c.p.c.

In particolare, la parte potrebbe essere rimessa in termine, a fronte di mutamento giurisprudenziale nomofilattico, sempre che l'orientamento ribaltato dall'ultima pronunzia di Cassazione abbia ad oggetto una regola del processo e che l'orientamento «imprevedibilmente mutato» fosse «lungamente consolidato nel tempo» (Cass. civ., 27 dicembre 2011, n. 28967; Cass. civ., 2 luglio 2010, n. 15811; Cass. civ., 17 giugno 2010, n. 14627; Cass. civ., 14 maggio 2012, n. 6801; Cass. civ., 12 febbraio 2019, n. 4135).

Malattia del difensore

Premesso quanto sopra in termini generali di applicabilità dell'istituto di portata generale della rimessione in termine, va affrontato lo specifico problema processuale che la pandemia potrebbe determinare sui diritti e sulle facoltà processuali delle parti processuali, determinandone decadenza.

In linea di massima, gli interpreti tendono ad escludere che la rimessione in termine possa concedersi in presenza di condotte omissive riferibili al difensore, che si verifica in ipotesi di malattia. Si argomenta che il difensore può farsi rappresentare per il compimento degli atti da altri professionisti (De Sanctis).

Come vedremo, in quest'ottica l'ambito di estensione del rimedio restitutorio si interseca con le problematiche sanitarie che la pandemia ha ingenerato e suscitato.

Per completezza, va rammentato l'orientamento ormai fermo che ritiene inapplicabile l'art. 153 c.p.c. alle patologie (come si verifica in ipotesi di infedele patrocinio) del rapporto sostanziale tra parte ed avvocato. Tali condotte non legittimano la rimessione in termine ma solo un'azione di responsabilità contro il professionista infedele (Cass. civ., 4 marzo 2011, n. 5260; Cass. civ., 17 novembre 2016, n. 23430; Cass. civ., 10 febbraio 2021, n. 3340).

In materia, la giurisprudenza mantiene un orientamento assai restrittivo nell'ammettere la rimessione in termine, opportunamente preoccupata di non scardinare l'ordinato sistema delle preclusioni processuali. Questo rilievo non intende criticare un'assodata interpretazione e neppure rappresenta una marginalizzazione dell'istituto in presenza di situazioni che, laddove non venissero valorizzate e considerate, potrebbero pregiudicare il diritto di azione in giudizio, come pure ledere i canoni costituzionali del giusto processo.

L'orientamento interpretativo affermatosi in tema di malattia del difensore della parte conferma la prevalenza delle ragioni di carattere sostanziale rispetto a quelle inerenti l'ordinato svolgimento del «procedere» processuale.

A questo riguardo, la scusabilità della decadenza susseguente a causa non imputabile al difensore seppur in ambito circoscritto trova diritto di cittadinanza, supponendo la dimostrazione di un grave stato di malattia di quest'ultimo; in particolare, ravvisabile in presenza di un «malessere improvviso o un totale impedimento allo svolgimento dell'attività professionale» (Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2018, n. 32725; Cass. civ., 9 agosto 2019, n. 21304). Dato che in situazioni diverse (rispetto al malore improvviso), il «professionista ha il dovere e la possibilità di organizzarsi affinchè le attività ordinarie possano svolgersi senza interruzioni» (Cass. civ., sez. un., cit.).

In queste ultime ipotesi riemerge quindi la regola di tendenziale inapplicabilità dell'art. 153 c.p.c.

Nei casi testè considerati, invece, la rimessione in termine era stata ammessa dato che il difensore era stato «colpito, nella notte anteriore alla scadenza, da un malore grave, improvviso ed imprevedibile che aveva reso impossibile il deposito tempestivo (dell'istanza di sospensione nel processo tributario)» (Cass. civ., n. 21304/2019 cit.).

La pandemia

Nel riferito alveo di criteri e di canoni interpretativi si inserisce la specifica problematica suscitata dalla pandemia che, data la sua estrema pervasività ed immanenza temporale, potrebbe fondatamente moltiplicare le occasioni di utilizzo dell'istituto.

A questo riguardo non pare discutibile che il contagio da Covid-19 potrebbe legittimare, nei congrui casi, la richiesta di applicazione dell'art. 153 c.p.c. da parte del procuratore della parte, conformemente ai parametri orientativi tracciati dalla nomofilachia, laddove la nomofilachia «scusa» il malessere improvviso in cui sia incorso il difensore.

L'infezione da Covid 19 che abbia attinto il difensore unico della parte, ricoverato in ospedale, il quale per ciò non abbia potuto, incolpevolmente, depositare le memorie ex art. 183, sesto comma, c.p.c., o, almeno una di esse, potrebbe legittimare la rimessione in termine per il deposito della memoria non potuta depositare (per forza maggiore), sempre allegando la relativa documentazione sanitaria.

Identica facoltà potrebbe essere esercitata da parte del difensore contagiato che, per identica ragione, non abbia potuto rispettare il termine perentorio di impugnazione (artt. 325 e 326 c.p.c.), o non abbia potuto notificare, entro il termine di perenzione, il decreto ingiuntivo (art. 644 c.p.c.) o rispettare il termine di proposizione dell'opposizione a decreto ingiuntivo (art. 645 c.p.c.), ovvero, depositare comparsa di conclusionale o memoria di replica, sempre che il ricovero si sia verificato in modo «improvviso».

Il ricorso all'istituto potrebbe pure ipotizzarsi in presenza di difensore contagiato e ricoverato, eppure inserito nell'organizzazione complessa dello studio associato, quando il ricovero ospedaliero sia stato repentino ed improvviso e non abbia permesso al difensore, positivo al Covid, di organizzare l'attività processuale valendosi del supporto di altri professionisti associati.

Come si vede, la pandemia, laddove induca decadenza e mancato rispetto di un termine perentorio per effetto di contagio del difensore cui segua una sua condotta processuale omissiva del tutto incolpevole potrebbe essere in concreto neutralizzata grazie ad un accorto e prudente apprezzamento del potere di rimessione in termine esplicato dal giudice (Cass. civ., 17 novembre 2010, n. 23227).

Al riguardo va unicamente rammentato che la rimessione in termine suppone una reazione celere e tempestiva della parte incorsa nella decadenza per causa a sé non imputabile.

Dato che la stessa è tenuta ad attivarsi«con tempestività e, cioè, in un termine ragionevolmente contenuto e rispettoso del principio della ragionevole durata del processo» (Cass. civ., 11 novembre 2020, n. 25280; Cass. civ., 6 giugno 2012, n. 9114; Cass. civ., sez. un., 18 dicembre 2018, n. 32725, più precisamente, esige la «immediatezza della reazione al palesarsi della necessità di svolgere un'attività processuale ormai preclusa»).

Per concludere, l'istituto di cui all'art. 153, capoverso, c.p.c. in questo frangente pandemico si rivela particolarmente attuale nell'ottica di evitare la lesione dei diritti sostanziali e processuali delle parti incolpevoli, in quanto lo stesso è ispirato a trasparenti principi di equità, giustizia sostanziale, oltrechè civiltà giuridica.

Riferimenti
  • Balena, Istituzioni di diritto processuale civile, Bari, 2015, IV° ed., I, 124 ss.
  • Biavati, Argomenti di diritto processuale civile, Bologna, V° ed., 2020, 267 ss.
  • De Sanctis, La rimessione in termini (sistema, casistica, opzioni difensive), in Le riforme del processo civile, a cura di Ant. Didone, Milano, 2014, 232 ss.
  • Grossi, voce Termini (dir. proc. Civ..), in Enc. Dir., Milano, 1992, XLIV, 234 ss.
  • Masoni, Diritto processuale dell'emergenza epidemiologica (a seguito della conversione in legge del decreto ristori), in Giustiziacivile.Com, 2021, 11 gennaio.
  • Punzi, Il processo civile, sistema e problematiche, Torino, 2010, II° ed., I, 43 ss.
  • Satta, Commentario al codice di procedura civile, Milano, 1960, II, 1, 381 ss.