Cessione di ramo d’azienda illegittima e adempimento dell’obbligazione retributiva

05 Maggio 2021

A seguito dell'intervenuto accertamento giudiziale dell'illegittimità del trasferimento di azienda, qualora il datore originario (ex cedente) rifiuti di ricevere la prestazione offerta dal lavoratore (ex ceduto) e quest'ultimo persista nello svolgere la sua attività in favore dell'ex cessionario, i due rapporti di lavoro subordinato esistenti (quello de iure tra l'ex cedente e l'ex ceduto e quello de facto tra l'ex cessionario e l'ex ceduto) hanno per oggetto la medesima prestazione di lavoro e, pertanto, anche la medesima unica controprestazione retributiva.
Massima

A seguito dell'intervenuto accertamento giudiziale dell'illegittimità del trasferimento di azienda, qualora il datore originario (ex cedente) rifiuti di ricevere la prestazione offerta dal lavoratore (ex ceduto) e quest'ultimo persista nello svolgere la sua attività in favore dell'ex cessionario, i due rapporti di lavoro subordinato esistenti (quello de iure tra l'ex cedente e l'ex ceduto e quello de facto tra l'ex cessionario e l'ex ceduto) hanno per oggetto la medesima prestazione di lavoro e, pertanto, anche la medesima unica controprestazione retributiva.

Il caso

Tizio e Caio venivano trasferiti nel contesto di una cessione di ramo a far data dal 1 maggio 2010; in accoglimento dell'appello proposto dagli stessi lavoratori, in data 25 giugno 2015 detta cessione veniva dichiarata nulla con conseguente accertamento della prosecuzione dei rapporti di lavoro in capo alla società cedente, oggi resistente. Quest'ultima tuttavia, sebbene Tizio e Caio avessero offerto la propria prestazione lavorativa, non procedeva al ripristino dei rapporti di lavoro; Tizio e Caio continuavamo quindi a prestare la propria attività lavorativa in favore della società cessionaria. Successivamente, a far data dal 31 dicembre 2016, la società cessionaria veniva fusa per incorporazione nella società cedente, oggi resistente. Ciononostante la Suprema Corte confermava la sentenza della Corte di Appello dichiarando l'illegittimità della cessione.

Tizio e Caio, pertanto, adivano in giudizio la società resistente, richiedendo le retribuzioni non corrisposte a partire dalla ricostituzione giuridica del rapporto di lavoro in capo alla cedente, fino alla data di efficacia della suddetta fusione.

La questione giuridica

La questione in esame è la seguente: nel caso di cessione di ramo di azienda successivamente dichiarata illegittima, il datore di lavoro cedente che abbia rifiutato il ripristino del rapporto senza una giustificazione, è tenuto a corrispondere la relativa retribuzione se la prestazione lavorativa medio tempore è stata sempre retribuita da parte della società cessionaria?

La soluzione giuridica

Preliminarmente, sebbene la questione relativa alla qualificazione degli importi dovuti dal datore cedente in caso di illegittima cessione di ramo d'azienda non sia affrontata nella sentenza in commento, si precisa che la giurisprudenza (Cass. 3 luglio 2019, n.17784; Cass. 7 agosto 2019, n. 21160) ha recentemente riconosciuto la natura retributiva (e non più risarcitoria, cfr. ex multis, Cass. 5 dicembre 2016, n. 24817 e Cass. 27 aprile 2015, n. 8514) delle erogazioni patrimoniali dovute dal cedente per il periodo successivo all'ordine giudiziale di reintegrazione in servizio, nell'ipotesi di rifiuto ingiustificato del datore di lavoro di ricevere la prestazione lavorativa offerta; detto orientamento può ritenersi maggioritario successivamente alla Sentenza n. 2990/2018 delle Sezioni Unite della Suprema Corte e la sentenza della Corte costituzionale n. 29/2019.

Ciò premesso, la pronuncia in commento, aderendo all'orientamento giurisprudenziale attualmente minoritario (Cass. 31 maggoi 2018, n. 14109; Cass. 1° giugno 2018, n. 14136) ritiene che il dipendente afferente il ramo illegittimamente ceduto che abbia continuato a svolgere l'attività lavorativa presso il cessionario percependo la relativa retribuzione, abbia diritto a ricevere solo l'eventuale differenza tra quanto percepito e quanto sarebbe stato corrisposto dal cedente.

Sulla base del suddetto orientamento, la prestazione lavorativa resa da parte dal suddetto dipendente è una sola in quanto i due “apparenti” rapporti di lavoro hanno per oggetto la medesima prestazione lavorativa e, conseguentemente, la medesima controprestazione retributiva “sebbene diversa sia la fonte giuridica dell'obbligazione di cui costituisce oggetto: infatti, nel caso del rapporto de iure tra ex cedente ed ex ceduto, la fonte giuridica consiste nella mora accipiendi, mentre, nel caso del rapporto de facto tra ex cessionario ed ex ceduto, la fonte giuridica è ravvisabile nell'avvenuta esecuzione della prestazione lavorativa da parte del secondo in favore del primo”. Pertanto, il pagamento della relativa retribuzione da parte del cessionario rappresenta un pagamento consapevolmente effettuato da un soggetto che non è il vero creditore della prestazione, e dunque un adempimento del terzo, cui consegue - in applicazione del medesimo principio generale previsto dall'art. 1180 c.c. - la liberazione del vero obbligato (i.e. cedente).

L'applicazione di tale principio alla presente fattispecie sarebbe giustificata anche alla luce della sentenza n. 2990/2018 delle Sezioni Unite della Suprema Corte, nella quale con riferimento alla fattispecie della interposizione fittizia di manodopera nell'appalto di servizi è stato ritenuto che "tutti i pagamenti effettuati dal somministratore, a titolo retributivo o di contribuzione previdenziale valgono a liberare il soggetto che ne ha effettivamente utilizzato la prestazione dal debito corrispondente fino a concorrenza della somma effettivamente pagata".

Detto principio non è invece ritenuto applicabile alla fattispecie in esame dall'orientamento giurisprudenziale attualmente prevalente che postula l'obbligo per il “cedente” di corrispondere la retribuzione ai lavoratori ceduti che abbiano offerto la propria prestazione (Cass. 24 aprile 2020, n. 8162; Cass. 28 febbraio 2019, n. 5998; Cass. 18 febbraio 2014, n. 13485; Cass. 30 gennaio 2018, n. 2281). In particolare, nel caso in cui il trasferimento sia stato dichiarato invalido, non può ritenersi applicabile il principio della continuità del rapporto di lavoro ex art. 2112 c.c., essendo il rapporto di lavoro del dipendente effettivamente rimasto nella titolarità dell'originario cedente. Pertanto, da una parte vi è la prestazione materialmente resa in favore del soggetto “cessionario” con il quale il lavoratore ha instaurato un rapporto di lavoro “di fatto”; dall'altra, vi è una distinta prestazione lavorativa in favore dell'originario datore di lavoro cedente, che pur non essendo stata materialmente resa, diventa giuridicamente rilevante stante il rifiuto del datore di lavoro a ricevere detta prestazione in applicazione del principio della mora credendi. Invero, essendo l'attività lavorativa riconducibile alle prestazioni infungibili, una volta che il dipendente abbia offerto la prestazione lavorativa al datore di lavoro giudizialmente dichiarato tale, il rifiuto di questi rende giuridicamente equiparabile la messa a disposizione della prestazione alla utilizzazione effettiva, con la conseguenza che il datore di lavoro ha l'obbligo di corrispondere la controprestazione retributiva (cfr. Cass. 24 giugno 2020, n. 12442).

Osservazioni

A fronte di un orientamento giurisprudenziale di legittimità attualmente maggioritario, peraltro quasi ineccepibile da un punto di vista prettamente giuridico, è stato ritenuto quasi insolito che nella giurisprudenza di merito vi siano ancora diverse pronunce dissidenti; tuttavia, pur considerando la funzione nomofilattica della giurisprudenza della Suprema Corte, nel nostro ordinamento è del tutto ammissibile che vi siano motivate decisioni in contrasto con detto orientamento, soprattutto in presenza di circostanze fattuali differenti.

Nel caso di specie, in particolare, ancor prima del passaggio in giudicato della sentenza afferente l'illegittimità della cessione del ramo, si era verificata l'incorporazione per fusione della società ex cessionaria nell'ex cedente e, pertanto, la controprestazione retributiva resa dalla ex cessionaria è stata equiparata alla controprestazione che avrebbe dovuto rendere la società ex cedente.

Alla luce della suddetta circostanza, la decisione del Tribunale di Roma, da un punto di vista fattuale, può ritenersi ragionevole, seppure in contrasto con l'interpretazione attualmente prevalente della giurisprudenza di legittimità. In ogni caso, trattandosi del primo grado di giudizio, non è ancora chiaro se questa sentenza potrà condurre ad una diversa interpretazione da parte della Suprema Corte.

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