Errores in procedendoFonte: Cod. Proc. Civ. Articolo 360
07 Maggio 2021
Le categorie evocative degli errori in procedendo
Il tema dell'errore in procedendo richiede diverse puntualizzazioni, per dipanare un groviglio di concetti almeno in apparenza alquanto complicato. Innanzi tutto occorre prestare attenzione alle categorie. L'art. 360, n. 4, c.p.c. consente di impugnare con ricorso per cassazione le sentenze pronunciate in grado d'appello o in unico grado per «nullità della sentenza o del procedimento». A sua volta l'art. 360, nn. 1 e 2, c.p.c. consente di impugnare con ricorso per cassazione le medesime sentenze (pronunciate in grado d'appello o in unico grado) per «motivi attinenti alla giurisdizione» e per «violazione delle norme sulla competenza, quando non è prescritto il regolamento di competenza». Secondo la tradizionale impostazione, tale sistema concretizza i c.d. errores in procedendo deducibili in cassazione, a fronte della formula «violazione o falsa applicazione di norme di diritto» che, nell'art. 360, n. 3, stesso codice, ordinariamente allude all'error in iudicando in iure. Questa schematica distinzione può essere mantenuta, con l'avvertenza, però, che non va considerata in termini di effettiva contrapposizione. Non è dubbio che l'indicazione rinveniente nell'art. 360, n. 4, c.p.c. serve ad abbracciare praticamente tutte le ipotesi di affermata violazione, da parte del giudice del merito, di norme processuali (o di principi sul processo), a eccezione di quelle specifiche attinenti alla giurisdizione o alla competenza. Nel contempo, però, è anche vero che l'indicazione rinveniente nell'art. 360, n. 3, c.p.c. allude, secondo il significato palesato dalle parole, a tutti gli errori di giudizio compiuti dal giudice del merito, quale che sia la natura della sottostante norma di legge, sostanziale o processuale. Quindi anche l'art. 360, n. 3, può essere utilizzato al fine di dedurre l'errore su norma processuale, ove questo integri un errore di giudizio. La dicotomia dottrinale tra vizi di giudizio e vizi di attività, che è al fondo dell'assunto di netta cesura tre le categorie tratteggiate nel testo dell'art. 360 (nn. 3 e 4), recede nella pratica da questo punto di vista, e la riprova si ha nel caso dell'errore de iure procedendi, vale a dire dell'errore commesso dal giudice in relazione al significato della norma processuale non da lui applicata nel corso del suo giudizio, ma applicata dal giudice la cui decisione è stata sottoposta a gravame. In questi casi si è sempre dinanzi a un errore in procedendo, a un errore cioè che cade sulle norme regolatrici del procedere e non del rapporto sostanziale dedotto in lite. E però da un punto di vista logico la situazione può apparire diversificata, perché quando si discorre del giudizio di cassazione è ben possibile che l'oggetto della controversia (nella parte devoluta) stia proprio (e solo) nella regola (processuale) di condotta sulla quale il giudice (della cui decisione si tratta) è stato chiamato a giudicare a sua volta. Per questa ragione è consentito ritenere sussumibili nel paradigma dell'art. 360, n. 3, c.p.c. anche gli errori commessi dal giudice nell'interpretazione della norma processuale. Del resto, ai fini dell'ammissibilità del ricorso per cassazione non costituisce condizione necessaria la corretta menzione dell'ipotesi appropriata, tra quelle in cui è consentito adire il giudice di legittimità, purché si faccia valere un vizio della decisione astrattamente idoneo a inficiare la pronuncia; cosicché trovasi spesso affermato che è ammissibile il ricorso per cassazione che lamenti la violazione di una norma processuale, ancorché la censura sia prospettata sotto il profilo della violazione (asserita sostanziale) ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., anziché sotto il profilo dell' error in procedendo di cui al n. 4 del citato art. 360 (cfr. a titolo indicativo Cass. civ., sez. II, 21 gennaio 2013, n. 1370). Adesso occorre dire che un simile elastico criterio di valutazione appare a volte contraddetto, in cassazione, da una concorrente tesi formalistica, secondo la quale costituirebbe, invece, causa di inammissibilità del ricorso l'erronea sussunzione del vizio, per esempio laddove il ricorrente intenda far valere in sede di legittimità l'ultrapetizione della sentenza ai sensi del n. 3 dell'art. 360 c.p.c., a fronte del dovuto riferimento al n. 4 della medesima norma (così, ex aliis, Cass. civ., sez. III, 17 settembre 2013, n. 21165). Questa tesi non può essere condivisa. Salvo a circoscriverla nel distinto ambito della inammissibilità per critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati (c.d. miscellanea) – che però è questione diversa – la tesi è anzi assolutamente infondata. Lo è in quanto il ricorso per cassazione, avendo a oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall'art. 360 c.p.c., semplicemente deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata e inequivocabile a una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l'esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti (per continuare con l'esempio) l'omessa pronuncia, da parte dell'impugnata sentenza, in ordine a una delle domande o eccezioni proposte, o anche l'ultrapetizione o l'extrapetizione, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui al n. 4 del primo comma dell'art. 360 con riguardo all'art. 112 c.p.c., purché il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione. Mentre invece sarebbe da dichiarare certamente inammissibile il ricorso col quale si sostenga, in caso simile, che la motivazione sia mancante o insufficiente, ovvero col quale ci si limiti ad argomentare sulla violazione di legge sostanziale commessa dal giudice che invece abbia ignorato la questione (Cass. civ., sez. un., 24 luglio 2013, n. 17931, Cass. civ., sez. I, 31 ottobre 2013, n. 24553, Cass. civ., sez. II, 7 maggio 2018, n. 10862). Ne segue che, ai nostri fini, la distinzione che rileva quando si discorre delle categorie menzionate nell'art. 360 non va intesa al di là del suo limite intrinseco, in rapporto alla necessaria specificità del ricorso quale impugnazione a critica vincolata. Quel che deve esser chiaro è questo: che quando la sentenza impugnata abbia statuito su una questione di rito l'eventuale sua erroneità può implicare oltre a un vizio di attività anche un distinto vizio (di contenuto). In questi casi la pronuncia espressa sulla questione processuale devoluta, ove errata sul piano contenutistico, configura un vizio de iure non dissimile a quel che accadrebbe ove l'errore fosse caduto sulla norma sostanziale. Invero pure in questi casi si può presupporre che la norma processuale sia stata dal giudice applicata come metro di giudizio, al fine di dare, cioè, un contenuto alla propria decisione. Ma la logica inferenziale non va oltre un simile aspetto. Essa induce a ritenere conducente una differenziazione solo in senso descrittivo per oggetto: la violazione o falsa applicazione di norma di diritto è semplicemente un centro concentrico più ampio, nel cui alveo è possibile isolare, per più modesta dimensione, quello afferente la violazione delle norme sul procedimento; il che consente di dedurre il vizio processuale vuoi in base all'art. 360, n. 4, vuoi in base all'art. 360, n. 3, c.p.c., purché sia rispettato il canone di specificità nella denunzia della violazione della norma regolatrice della fattispecie processuale. I riflessi sulle modalità di proposizione della censura e sui poteri di accertamento della Corte di cassazione
La prospettiva appena delineata equivale a dire che la violazione di legge è conchiusa in un che di unitario, sebbene ripartito a seconda dell'oggetto. Diversi sono però gli effetti. Quando si discorre di un errore in procedendo mutano le condizioni e le modalità di proposizione della censura in rapporto ai poteri di accertamento della Corte di cassazione; e in parte muta anche il tenore dei provvedimenti adottabili nelle varie ipotesi. La Corte di cassazione ha un peculiare potere di accertamento dei fatti processuali, che poi è niente altro che una derivazione della posizione assunta rispetto alla regola di diritto che si assume violata. Anche il profilo effettuale va chiarito. In generale la norma sostanziale attiene al rapporto controverso, e quindi non riguarda il giudice ma le parti del rapporto medesimo. Il giudice è tenuto a verificare solo essa sia stata osservata dai destinatari. Per converso la norma processuale trova nel giudice il soggetto direttamente tenuto a osservarla, nel senso che è il giudice il destinatario specifico della norma suddetta. Per quanto allora, nel ricorso per cassazione, l'errore sulla norma processuale sia sempre identificato da un error iuris commesso dal giudice, al pari di quello sulla norma sostanziale, è chiara la differenza di prospettiva che si determina nei due casi: (i) in ipotesi di omessa osservanza (o di violazione) di norme processuali il perimetro dell'accertamento è misurato dai confini del processo, e tanto legittima l'affermazione che la Corte Suprema è il giudice del fatto processuale; questo per l'elementare ragione che il fatto processuale (in sé) costituisce l'oggetto del (motivo di) ricorso; (ii) laddove invece si discorra di un errore del giudice in termini di violazione o falsa applicazione delle norme regolatrici del rapporto sostanziale dedotto in lite, l'oggetto è costituito dal giudizio di legalità in ordine all'atteggiarsi di tale rapporto, che è e resta extraprocessuale. Sebbene articolato nei due consueti (e comuni) momenti della ricerca (e dell'interpretazione) della norma ritenuta regolatrice del caso concreto e della sussunzione, supponente la specifica applicazione della norma stessa al caso una volta che tale norma sia stata correttamente individuata e interpretata, il diverso atteggiarsi del vizio dedotto ben giustifica la diversa latitudine che il giudizio di cassazione assume nel secondo caso. In presenza di un errore sulla norma sostanziale, la ricostruzione della situazione di fatto non è propria del giudizio di cassazione. In presenza di un errore sulla norma processuale, è la Corte stessa a essere investita della necessità di verificare direttamente se e come la norma regolatrice del processo sia stata applicata. Tutto questo si suole esprimere dicendo che quando, col ricorso per cassazione, venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, e che quindi si sostanzi nel compimento di un'attività deviante rispetto a un modello legale rigorosamente prescritto dal legislatore, la Cassazione non deve limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investita del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda (sul tema, Cass. civ., sez. un. 22 maggio 2012, n. 8077; Cass. civ., sez. VI, 28 novembre 2014, n. 25308; Cass. civ., sez. II, 8 gennaio 2020, n. 134; Cass. civ., sez. VI, 19 agosto 2020, n. 17268). Codesta concordanza di rilievi trova la sua ulteriore ragione in ciò: che, in termini generali, la cognizione della Corte di cassazione non si estende all'accertamento del fatto quando a essere denunciato col ricorso sia un errore di giudizio vertente sul rapporto sostanziale, perché il legislatore ha scelto di attribuire alla Corte la funzione di giudice di legittimità, sì da non ascrivere al ricorso per cassazione il connotato di un terzo grado di merito. Tale scelta ha evidenti radici storiche (v. tra gli altri A. Panzarola, L'evoluzione storica della Cassazione civile e la genesi dell'art. 65 ord. giud., in I processi civili in cassazione, a cura di A. Didone e F. De Santis, Milano, Giuffré, 2018, 61 e seg.) e di essa è sintomo la definizione degli errori di diritto deducibili col ricorso, con esclusione delle censure afferenti ai presupposti di fatto rilevanti ai fini dell'applicazione delle norme violate (volendo, cfr. F. Terrusi, Il ricorso per violazione di norme di diritto, in I processi civili in cassazione, cit., 353 e seg.). E' vero allora che, come si diceva, anche gli errori in procedendo possono essere frutto della violazione o della falsa applicazione di una norma di diritto (art. 360, n. 3). Infatti anche il rapporto processuale è disciplinato da norme di diritto. Tuttavia non è men vero che, in questo caso, quando cioè il motivo di ricorso verta sulla norma processuale, il ricorso postula come conseguenza la nullità della sentenza o del procedimento. Cosicché in questo la prospettiva cambia, perché quale che sia la modalità di formulazione della censura (art. 360, n. 3, o art. 360, n. 4) è sempre la nullità della sentenza o del procedimento a dover essere sindacata dalla Corte. Tanto se la nullità dipenda da un vizio di attività del giudice la cui decisione è direttamente impugnata per cassazione (o delle parti), tanto se la nullità dipenda dal mancato riscontro del vizio di attività commesso dal giudice di primo grado, è chiaro che il giudizio di cassazione finisce per vertere sempre e solo sul fatto processuale, cosicché la Corte di cassazione non può deciderlo senza prendere cognizione di esso. Con riguardo ai vizi del procedimento, l'oggetto dello scrutinio di legittimità è sempre costituito dal modo in cui il processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio possono aver provocato, anche se la contestazione attenga al contenuto della decisione assunta con la sentenza impugnata; la quale – in tale evenienza - costituisce il semplice confine della deduzione di parte. È perciò assolutamente naturale che la Corte di cassazione debba prendere diretta cognizione dei fatti processuali. Un conto è rilevare un errore di giudizio imputabile al giudice di merito nell'esame del rapporto sostanziale dedotto in lite, un altro conto è ravvisare un errore di attività che, essendosi verificato nelle distinte fasi del processo, ne possa avere inficiato l'esito. Si è anche osservato che nelle due diverse ipotesi il «fatto» ha una pregnanza differente: perché, se attiene alle circostanze del rapporto sostanziale, esso («fatto») è anteriore al processo, sicché esaurisce la propria funzione nella sua stessa valenza storica; mentre, se attiene al rapporto processuale, il «fatto» si colloca all'interno di una vicenda che è tuttora in corso di sviluppo, «sia quando quella vicenda ancora si sta svolgendo nella fase del giudizio di merito sia quando è transitata nel giudizio di legittimità, che pur sempre nel medesimo rapporto processuale s'inserisce» (così Cass. civ., sez. un., 22 maggio 2012, n. 8077). Questa esatta considerazione è sintomo della visione per cui il procedimento, ai suddetti fini, è caratterizzato da una fondamentale unitarietà, pur nei diversi gradi o fasi in cui esso si svolge. Donde il vizio del procedimento è sempre attuale, ove sia tale da incidere sulla decisione della causa e da compromettere la realizzazione della sua funzione. Anche in ciò si giustifica, pertanto, che la Cassazione debba poter prendere cognizione dell'errore in procedendo in ogni suo aspetto. L'unica condizione, ovviamente, è che l'errore sia stato denunciato nei termini e secondo le regole proprie del ricorso per cassazione. Da tale punto di vista rileva soprattutto il nesso corrente tra la riferita perimetrazione della potestà di accertamento della Corte di legittimità e il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione. Si è così dinanzi a un altro aspetto del groviglio, e pure qui è necessario evitare equivoci. In linea generale il principio di autosufficienza trova la propria ragion d'essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all'esame dei fascicoli di ufficio o di parte. E' comprensibile, allora, che in qualche misura tale principio possa stridere con la riconosciuta possibilità di un diretto esame degli atti. Invero si dice: se la Corte ha accesso agli atti, non c'è motivo di predicare l'autosufficienza. Questa affermazione, a volte constatabile in dottrina, è distorta e consegue a una lettura superficiale delle dinamiche del giudizio di legittimità. L'esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità ove sia denunciato un error in procedendo, presuppone che la parte rispetti comunque il principio di autosufficienza, e che quindi riporti, nel ricorso stesso, gli elementi e i riferimenti atti a individuare, nei suoi termini esatti e non genericamente, il vizio processuale, onde consentire alla Corte di effettuare, senza compiere immediate e generali verifiche sugli atti, il controllo del corretto svolgersi dell'iter processuale di riferimento (v. Cass. civ., sez. V, 30 settembre 2015, n. 19410; Cass. civ., sez. lav., 8 giugno 2016, n. 11738; Cass. civ., sez. VI, 25 settembre 2019, n. 23834). La ragione è data dalla circostanza che l'esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito non è ontologicamente propria della Cassazione, ma è funzionale allo scrutinio della doglianza consegnata al motivo di ricorso. Dunque presuppone sempre l'ammissibilità di quel motivo. Il ricorrente non è dispensato dall'onere di specificare (a pena, appunto, di inammissibilità) il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, perché non è dispensato dall'onere di indicare specificamente anche i fatti processuali alla base dell'errore denunciato. E una tale specificazione non può che essere contenuta nel ricorso stesso (di recente Cass. civ., sez. I, 23 dicembre 2020, n. 29495). Ecco perché il riconoscimento alla Corte di cassazione del potere di cognizione piena e diretta del fatto processuale, nei termini sopra chiariti, non comporta il venir meno della necessità di rispettare le regole poste dal codice di rito per la proposizione e lo svolgimento di qualsiasi ricorso per cassazione, ivi compreso quello con cui si denuncino errori in procedendo. Ciò determina, per un verso, l'onere di denunzia del vizio mediante uno specifico motivo, e per un altro verso la soggezione della proposizione del motivo alle regole di ammissibilità stabilite dal codice di rito, in nulla derogate dall'estensione ai profili di fatto del potere cognitivo della Corte. Un punto sul quale ancora sono registrabili incertezze è però quello dei limiti del giudizio di fatto della Corte di cassazione. Laddove si acceda, infine, alla denunzia del vizio processuale, la giurisprudenza prevalente è nel senso che il sindacato sugli errori in procedendo deve essere compiuto dalla Corte di cassazione mediante indagini e accertamenti, anche di fatto, indipendentemente dall'interpretazione data al riguardo dal giudice del merito. Tuttavia un altro indirizzo ha per lungo tempo sostenuto (e in parte ancora oggi sostiene) che il sindacato del giudice di legittimità, nell'esame delle questioni processuali, comprende sì il potere di esaminare gli atti per verificare la integrazione della violazione denunziata, ma non anche il potere di interpretare gli atti in modo diverso da quanto fatto dal giudice del merito in ordine alla ricostruzione dei fatti storici posti a base della questione, se non nei limiti del rilievo di mancanza o manifesta illogicità della motivazione. Ciò è stato detto, in particolare, per il caso di interpretazione di precedenti decisioni giudiziali fra le parti e per quello dell'interpretazione della domanda. Interpretare la domanda - si è così sostenuto -, o anche interpretare l'appello, è compito del giudice del merito: al punto che la stessa specificità dei motivi di impugnazione (art. 342 c.p.c.) sarebbe verificabile dal giudice di legittimità solo indirettamente, sotto il profilo della correttezza giuridica del procedimento interpretativo e della logicità del suo esito, e non direttamente, riconducendo la censura all'ambito degli errores in procedendo, attraverso l'interpretazione autonoma dell'atto d'appello (per tutte Cass. civ., sez. lav., 22 febbraio 2005, n. 3538). Giova dire che il contrasto di giurisprudenza si è manifestato a fronte dell'accertamento degli stessi vizi relativi al rapporto tra le domande delle parti e la pronuncia del giudice, certamente annoverabili nell'alveo degli errori in procedendo. E in tal caso addirittura con distinte formulazioni al suo interno. La tesi preferibile - e anzi unicamente sostenibile - resta quella per cui, trattandosi di un'invalidità della decisione impugnata, la violazione del principio di corrispondenza tra richieste delle parti e decisione del giudice va accertata con cognizione piena da parte della Corte di cassazione, che è legittimata anche a interpretare gli atti di causa indipendentemente dal convincimento espresso al riguardo dal giudice del merito. E tuttavia un opposto orientamento giurisprudenziale, ancora oggi riscontrabile, afferma che l'interpretazione della domanda è operazione comunque riservata al giudice del merito, il cui giudizio, risolvendosi in un accertamento di fatto, è censurabile in sede di legittimità solo per vizi della motivazione; e questo perché l'errore potrebbe concretizzare solo una carenza nell'interpretazione di un atto processuale, a fronte del principio per cui l'interpretazione della domanda spetta al giudice del merito. Cosicché ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda sia stata avanzata, la statuizione, ancorché erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione. Il fondamento di siffatta conclusione è che, avendo comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, e avendo dimostrato con ciò che una certa questione doveva ritenersi compresa tra quelle da decidere, il vizio della sentenza (l'ultrapetizione, a esempio) non sarebbe logicamente verificabile prima di avere accertato che quella medesima motivazione sia stata erronea. E in tal caso il dedotto errore del giudice non si configurerebbe in sé come error in procedendo, ma atterrebbe al momento logico relativo all'accertamento in concreto della volontà della parte (indicativamente, Cass. civ., sez. lav., 21 febbraio 2006, n. 3702). La rilevanza del contrasto è innegabile e non sembra potersi eludere con la disinvolta via di fuga costituita dall'affermazione di rilevanza della prospettazione di parte: a seconda, cioè, che sia stato dedotto un errore di interpretazione della domanda – con sindacato di legittimità limitato alla giustificazione della decisione; o che sia stata dedotta, invece, direttamente la violazione della norma processuale (per esempio, dell'art. 112 c.p.c.) – in tal caso con piena estensione dell'ambito cognitivo della Corte all'accertamento e alla valutazione dei fatti rilevanti (per questa prospettazione, cfr. tra le altre Cass. civ., sez. III, 18 maggio 2012, n. 7932). Ben vero la disputa giurisprudenziale dovrebbe pur considerarsi in linea di principio risolta dall'intervento delle Sezioni Unite di cui si è già detto (Cass. civ., sez. un., 22 maggio 2012, n. 8077), mercé l'affermazione - oggi sicuramente prevalente - per cui, quando col ricorso per cassazione venga denunciato un vizio che comporti la nullità del procedimento o della sentenza impugnata, il giudice di legittimità non deve mai limitare la propria cognizione all'esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito abbia vagliato la questione, essendo investito del potere di esaminare direttamente gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda, purché la censura, ovviamente, sia stata proposta in conformità alle regole fissate dal codice di rito (per varie applicazioni, Cass. civ., sez. lav., 17 gennaio 2014, n. 896, Cass. civ., sez. lav., 4 aprile 2014, n. 8008, Cass. civ., sez. III, 10 ottobre 2014, n. 21397, Cass. civ., sez. I, 30 luglio 2015, n. 16164). Tuttavia deve osservarsi che la medesima disputa appare perpetuata da pronunce, finanche recenti, elusive dell'affermazione e riproponenti, sia per il rito ordinario, sia per il rito del lavoro, la dicotomia del vizio a seconda dell'oggetto, e in relazione al potere interpretativo asseritamente rimesso al giudice del merito: per esempio, nel rito ordinario, Cass. civ., sez. II, 13 agosto 2018, n. 20718, secondo cui «l'interpretazione della domanda spetta al giudice del merito, per cui, ove questi abbia espressamente ritenuto che una certa domanda era stata avanzata ed era compresa nel thema decidendum, tale statuizione, ancorché erronea, non può essere direttamente censurata per ultrapetizione, atteso che, avendo comunque il giudice svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione debba ritenersi ricompresa tra quelle da decidere, il difetto di ultrapetizione non è logicamente verificabile prima di avere accertato che quella medesima motivazione sia erronea»; sicché in tal caso il dedotto errore del giudice non si configurerebbe come error in procedendo, ma atterrebbe al momento logico relativo all'accertamento in concreto della volontà della parte; e ancora, per il processo lavoristico, Cass. civ., sez. lav., 5 febbraio 2014, n. 2630, e Cass. civ., sez. lav., 9 maggio 2012, n. 7097, secondo cui nel rito del lavoro «la valutazione di nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, per mancata determinazione dell'oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda, implica un'interpretazione dell'atto introduttivo della lite riservata - salva la censurabilità in sede di legittimità per vizi della motivazione - al giudice del merito, il quale, in sede di appello, può trarre elementi di conforto del proprio convincimento positivo circa la sufficienza degli elementi contenuti nel ricorso dal rilievo che essi consentirono al giudice di primo grado di impostare e svolgere l'istruttoria ritenuta necessaria per la decisione della controversia». Il dissenso su questi punti, per quanto in certa misura radicato in una certa resistenza a svolgere in modo proficuo il ruolo che l'ordinamento attribuisce alla Cassazione quando si sia dinanzi a un vizio di attività, non deve essere sovrastimato. La tesi che fa leva sulla distinzione tra la componente interpretativa della volontà della parte (rimessa al giudice del merito) e la componente valutativa del fatto processuale è in netta contraddizione col principio, pur simultaneamente affermato, secondo cui la deduzione dell'error in procedendo comporta come conseguenza l'estensione del sindacato di legittimità all'invalidità denunciata e al contenuto della decisione che su di essa sia stata eventualmente già adottata dal giudice a quo, indipendentemente dalle motivazioni esibite al riguardo. E ciò proprio perché la Corte di cassazione è, in questi casi, giudice anche del fatto. Simile indiscutibile conclusione rileva pure quando la norma processuale sia stata già utilizzata in precedenza come metro di valutazione (come accade nel vizio de iure procedendi), poiché anche in tal caso la violazione processuale viene in rilievo, in cassazione, non nei limiti dell'errore di giudizio compiuto dal giudice dinanzi al quale la violazione sia stata eventualmente già eccepita, ma nel contesto del vizio di attività di quel giudice che ha omesso di osservare la norma nel compiere un atto del procedimento, qualunque ne sia la fase. Salvo, invero, che l'afferente nullità non risulti altrimenti sanata, l'invalidità di quell'atto si traduce sempre in un vizio della decisione impugnata per cassazione. Cosicché quale che sia stata la giustificazione della decisione del giudice cui la violazione della norma processuale fosse stata già eccepita, la Corte di cassazione deve comunque accertare direttamente l'esistenza della violazione originariamente dedotta, poiché, come bene sottolineato in dottrina, la legge processuale è sempre oggetto di applicazione, non di accertamento; dacché anche la Corte di cassazione, quando è chiamata a pronunciarsi su una dedotta invalidità, non deve fare altro che applicare essa stessa la legge processuale, e non censurare un errato giudizio su questa legge, quale che ne sia la giustificazione (tale l'insegnamento sempre attuale di S. Satta, Commentario al codice di procedura civile, II, t. 2, Milano 1966, 189). Questa prospettiva induce a negare finanche il presupposto da cui muove l'orientamento difforme, oggi fortunatamente minoritario: se viene in questione un vizio in procedendo (o de iure procedendi) non è proprio consentito alla parte di dedurre in sede di legittimità la censura di omessa motivazione, poiché spetta alla Corte di cassazione di accertare se vi sia stato o meno il denunziato vizio attraverso l'esame diretto degli atti, indipendentemente dall'esistenza o dalla sufficienza o logicità dell'eventuale motivazione del giudice di merito. Il che equivale a dire che il sindacato della Corte deve estendersi, in questi casi, anche al profilo preliminare attinente alla corretta interpretazione delle domande e delle eccezioni, per l'elementare ragione che non è punto possibile scindere, nella realtà, il momento dell'interpretazione degli atti processuali, e segnatamente delle domande o delle eccezioni, dal momento della violazione delle norme processuali. Non sembra seriamente contestabile che tanto l'omessa pronuncia, quanto l'ultrapetizione o l'extrapetizione, dipendono nella normalità dei casi proprio dall'erronea interpretazione (quando non dall'errata percezione) di ciò che è stato postulato nell'atto di parte. A seguire il contrario orientamento, la gran parte degli errori processuali verrebbero a ridursi a semplici errori di motivazione, con conseguenze inaccettabili sia in relazione al ruolo della Corte nell'assicurazione dell'osservanza della legalità processuale, sia della compressione del diritto di difesa, volta che la dimensione dell'art. 360, n. 5, c.p.c. è oggi più modestamente incentrata sulle mere omissioni di fatti storici. In altre parole, se il controllo della Corte di cassazione sul vizio di ultrapetizione o di extrapetizione dovesse davvero esercitarsi solo attraverso il sindacato sulla motivazione esibita dal giudice del merito nell'interpretazione della domanda, dovrebbe coerentemente accettarsi il rischio di mantenimento in vita di decisioni chiaramente errate sulla questione processuale, magari non aggredibili per omesso esame di fatti storici - con chiara deviazione dal ruolo stesso della Corte quale giudice dell'esatta osservanza (art. 65 ord. giud.), oltre che dell'uniforme interpretazione, della legge del processo. |