Contratto a termine e provvedimento ricostruttivo: il pregiudizio è ristorato dall’indennità omnicoprensiva

Francesca Siccardi
12 Maggio 2021

In caso di contratto a termine nullo e conseguente pronuncia di ricostituzione del rapporto, il legislatore ha previsto all'art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010, un indennizzo onnicomprensivo e ristorativo di ogni pregiudizio...
Massima

In caso di contratto a termine nullo e conseguente pronuncia di ricostituzione del rapporto, il legislatore ha previsto all'art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010, un indennizzo onnicomprensivo e ristorativo di ogni pregiudizio, che copre esclusivamente l'arco temporale fino alla disposta conversione giudiziale; in caso di mancata riammissione in servizio del lavoratore, invece, il datore di lavoro dovrà rispondere del risarcimento del danno cagionato secondo gli ordinari criteri civilistici.

Il caso

Una lavoratrice ha adìto il giudice del lavoro, deducendo la stipula, in successione dal 1985 al 2003, di numerosi contratti di lavoro con la Rai – Radio Televisione Italiana s.p.a. ed chiedendone la declaratoria di nullità, instando altresì per l'accertamento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, con conseguente richiesta di condanna della società alla ricostituzione ed al pagamento delle retribuzioni maturate tra la data di scadenza dell'ultimo contratto e la data di effettivo ripristino.

Il Tribunale ha respinto il ricorso.

La Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la nullità dei contratti a termine intercorsi tra l'ottobre del 1985 e il luglio del 1996 e l'unitarietà del rapporto, confermando, invece, il rigetto della domanda di accertamento di nullità per il periodo successivo, rilevando l'effetto novativo del rapporto a tempo indeterminato connesso alla legittima stipula di contratti a termine post 1996.

A seguito di impugnazione in via principale da parte della lavoratrice ed in via incidentale della Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a., la Corte di legittimità ha cassato la sentenza di secondo grado con riferimento al rigetto della sola domanda di accertamento riferita ai contratti stipulati dal luglio 1996 al 2003, ritenendola carente di motivazione in ordine al sostenuto effetto novativo.

La Corte di appello – questa volta quale giudice del rinvio – ha dichiarato la sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti dal 1985 al 2003, ordinando alla Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a. di riammettere in servizio la lavoratrice e condannando la società a corrispondere l'indennizzo di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010, nella misura di dodici mensilità, oltre rivalutazione ed interessi.

In tale sentenza, infatti, i giudici del rinvio, escluso l'effetto novativo connesso alla stipula di contratti a termine in epoca successiva al 1996, hanno ritenuto equo liquidare l'indennità nella misura massima (infatti la legge prevedeva una forbice tra le due e mezzo e le dodici mensilità) a copertura dell'arco temporale dalla cessazione del rapporto sino alla sentenza di rinvio.

Avverso tale pronuncia ha avanzato ricorso in cassazione la lavoratrice, essendosi la Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a. limitata a resistere con controricorso.

La questione giuridica

La questione giuridica sottesa alla controversia, in un panorama normativo e giurisprudenziale piuttosto chiaro, è meritevole di attenzione, giacché l'iter processuale che ha caratterizzato la causa, con conseguente passaggio in giudicato di parte delle domande decise dalla Corte di Appello e, a seguito di cassazione con rinvio, avente comportato una parziale modifica da parte del giudice del rinvio, ha reso necessario per la Corte di Cassazione individuare, in concreto, quale delle due pronunce della Corte di Appello sia quella che ha ricostituito il rapporto, dal momento che essa si pone come spartiacque temporale tra l'indennizzo di cui all'art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010, e il risarcimento del danno patito a seguito di mancato ripristino del rapporto stesso.

Infatti, la ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione dell'art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010 e dell'art. 1, comma 13, della l. n. 92/2012, contestando l'affermazione secondo cui l'indennità concessa andasse a ristorare i pregiudizi sofferti tra la stipula del primo contratto a termine – dichiarato nullo - e la sentenza pronunciata in sede di rinvio - sull'implicito presupposto che solo quest'ultima avesse ricostituito il rapporto. A suo dire, invero, l'effetto ricostitutivo si sarebbe verificato con la prima pronuncia emessa in sede di appello, solo in parte cassata, in quanto dichiarativa della nullità dei contratti a tempo determinato sottoscritti tra il 1985 e il luglio 1996, con conseguente unificazione del rapporto per quel periodo: di conseguenza, nell'ottica della lavoratrice, l'indennità liquidata l'avrebbe reintegrata solamente dei nocumenti patiti tra la scadenza del termine e la prima pronuncia d'appello, in quanto, comunque, con statuizione definitiva (non essendo il relativo capo stato impugnato) aveva ricostituito il rapporto con decorrenza dal primo contratto, con la conseguenza che, quindi, per il periodo successivo ella avrebbe dovuto essere ristorata secondo gli ordinari criteri civilistici.

In proposito, poi, occorre tener conto che l'art. 1, comma 13, della l. n. 92/2012 – norma di interpretazione autentica – ha disposto che “La disposizione di cui al comma 5 dell'articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l'indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.

La ricorrente, quindi, ha assunto che una diversa lettura della norma di interpretazione autentica di cui sopra circa il significato del termine “ricostituzione” si presterebbe a dubbi profili di costituzionalità, in quanto violativa del disposto degli artt. 3 e 102 Cost.

Le soluzioni giuridiche

La Corte di cassazione, nella pronuncia in esame, ha dato innanzitutto conto del quadro normativo, ratione temporis, di riferimento e, cioè: l'art. 32, comma 5, della l. n. 183/2010, (abrogato dal d.lgs. n. 81/2015), secondo cui “Nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un'indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell'articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604”, e la già menzionata legge di interpretazione autentica di cui all'art. 13 comma 1 della l. n. 92/2012, a mente della quale “La disposizione di cui al comma 5 dell'articolo 32 della legge 4 novembre 2010, n. 183, si interpreta nel senso che l'indennità ivi prevista ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive relative al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.

Per pacifico orientamento giurisprudenziale (cfr., ex multis, Cass., sez. lav., n. 29949/2018, n. 151/2018, n. 14996/2012) tale indennità risarcitoria ha carattere onnicomprensivo e ristora interamente ogni pregiudizio patito dal lavoratore, essendo esaustiva di qualsiasi conseguenza, retributiva e contributiva, derivante dalla perdita del lavoro in relazione al periodo intercorrente tra la cessazione del rapporto a termine e la pronuncia che ne ha disposto la ricostituzione, essendo, poi, possibile che il lavoratore si attivi per ottenere anche un risarcimento ulteriore, con esclusivo riferimento all'eventuale, persistente, inadempimento datoriale, per l'ipotesi di mancata ottemperanza all'ordine giudiziale. In quest'ultimo caso, però, la misura della responsabilità non è ancorata ai parametri di cui alla l. n. 183/2010, seguendo gli ordinari criteri civilistici.

Nel caso in esame, la questione sottesa alla vicenda è comprendere quale sia, in concreto, la sentenza che ha disposto la costituzione del rapporto, cioè se la stessa sia da individuare nella prima pronuncia della Corte di appello oppure nella seconda, dalla medesima emessa quale giudice del rinvio.

Il problema, effettivamente, si pone in quanto la prima pronuncia di appello ha accertato l'illegittimità del termine apposto al primo contratto a termine – essendosi su tale capo formato il giudicato – e, quindi, l'esistenza di un rapporto subordinato a tempo indeterminato estinto per novazione – essendo, invece, tale affermazione stata cassata.

Ad avviso della Corte di cassazione la sentenza che ha ricostituito il rapporto è esclusivamente quella emessa dal giudice del rinvio, e ciò proprio considerando che la prima sentenza emessa dalla Corte di appello è stata cassata quanto al ritenuto operare dell'effetto novativo connesso alla stipula di successivi – regolari – contratti a termine.

Osservazioni

Appaiono del tutto condivisibili le logiche osservazioni della Suprema Corte, che, con un'analisi razionale e sistematica, è giunta ad individuare come sia la sentenza emessa dal giudice del rinvio quella che, effettivamente, ha ricostituito il rapporto tra la ricorrente e Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a.

Ed infatti tale conclusione appare necessitata, laddove si consideri che il rapporto a tempo indeterminato accertato dal primo giudice di appello è venuto meno a seguito della cassazione di quella decisione (tale rapporto, infatti, coincideva con quello accertato dal giudice del rinvio solo quanto al momento genetico, ma non anche quanto al momento funzionale) e che il rapporto convertito dal primo giudice di appello aveva una durata temporale limitata, essendosi poi estinto – in tesi – per novazione, non avendo, quindi, potuto generare alcun obbligo risarcitorio a carico del datore di lavoro, né con riferimento al periodo antecedente alla prima sentenza di appello, né con riferimento a quello successivo.

Al contrario, il rapporto accertato dal giudice del rinvio è caratterizzato per la persistente vigenza, quindi per l'essere fonte di responsabilità per Rai Radiotelevisione Italiana s.p.a., tanto che la stessa è stata (solo) in quest'ultima sede condannata alla corresponsione dell'indennità risarcitoria. Va da sé, poi, che l'eventuale inadempimento da parte di Rai al dovere di reimmissione in servizio potrà essere fonte di ulteriori obblighi risarcitori, quanto al periodo posteriore alla sentenza del giudice di rinvio.

Svolgendo un'analisi attenta della portata delle due, successive, pronunce della Corte di Appello, anche con riferimento alla persistenza o meno delle singole sue affermazioni all'esito della cassazione della prima, gli Ermellini hanno evidenziato come non essendo collegato alla prima sentenza alcun obbligo di immissione in servizio a carico del datore di lavoro, in ragione del limite temporale del rapporto (1985-1996), difettasse in radice la configurabilità di un inadempimento datoriale che potesse essere fonte di qualsivoglia responsabilità e come, invece, quest'ultima potesse conseguire esclusivamente all'accertamento contenuto nella sentenza del giudice del rinvio, e ciò solo per quanto concerne l'eventuale ipotesi di mancata reintegrazione della lavoratrice.

Val la pena, da ultimo, evidenziare come l'individuazione nella sentenza della Corte di Appello quale giudice del rinvio di quella che ricostituisce il rapporto di lavoro sia coerente con la ratio che ha ispirato l'indennizzo di cui all'art. 32 l. n. 183/2010, e cioè porre parte datoriale al riparo dalle incertezze normative e giurisprudenziali in tema di contratto a termine, con la previsione di un criterio per liquidare più agevolmente ed omogeneamente l'ammontare del danno, seppur limitatamente all'arco temporale sino all'emissione di accertamento giudiziale.

Il fatto, poi, che per il tempo successivo all'emissione di tale accertamento vigano gli ordinari criteri civilistici che regolano il risarcimento del danno – potenzialmente più onerosi, quanto alle conseguenze – risiede nella consapevolezza che lo stesso datore ha (deve aver) maturato in ordine all'obbligo di reimmissione al lavoro, che, per l'appunto, risulti acclarato in giudizio.

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