La legittimità della motivazione per relationem della sentenza d'appello
13 Maggio 2021
Massima
La motivazione per relationem è illegittima in assenza di un comprensibile richiamo ai contenuti degli atti cui si rinvia, ai fatti allegati dall'appellante e alle ragioni del gravame, risolvendosi in un'acritica adesione ad un provvedimento solo menzionato, occorrendo invece un'effettiva valutazione, propria del giudice di appello, della infondatezza dei motivi del gravame. Il caso
Un cittadino proveniente dalla Nigeria ha proposto ricorso per Cassazione avverso il rigetto del riconoscimento, in via gradata, dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria della Corte d'appello di Venezia del 10 aprile 2019. Quest'ultima ha deciso sul gravame avverso la decisione del Tribunale di Venezia che, a sua volta, aveva respinto l'opposizione avverso il provvedimento negativo sul suddetto riconoscimento della Commissione territoriale. Il ricorrente ha impugnato per Cassazione con due motivi. Con il primo motivo, in ordine al mancato riconoscimento della protezione internazionale nelle forme dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, sono state censurate la violazione e falsa applicazione degli artt. 8 del d.lgs. 251/2008 e 3 del d.lgs. 251/2007, e la nullità della sentenza per mancanza o apparenza della motivazione in violazione degli artt. 112, 113, 156 c.p.c. per aver la Corte omesso ogni riferimento ai fatti e alle prove dedotte dall'appellante. Con il secondo motivo, è stata lamentata la violazione del d.lgs. 286/1998 e del d.lgs. 25/2008, in quanto la Corte territoriale nulla ha dedotto con riferimento al mancato riconoscimento della protezione internazionale. Il Ministero dell'Interno non ha svolto difese. Dopo aver ritenuto fondati entrambi i motivi, scrutinati congiuntamente per ragioni di connessione, la Corte ha cassato la causa, con rinvio alla Corte di appello di Venezia, in diversa composizione. La questione
Quanto alla questione sottesa al caso di specie, essa consiste nel fatto che la Corte di appello di Venezia, sulla domanda di protezione internazionale, si era limitata ad esprimere la propria adesione alla pronuncia di primo grado e alle argomentazioni della Commissione territoriale, senza riportarne il contenuto, né riferirsi ai fatti allegati dall'appellante, adottando una motivazione generica ed astratta, priva di richiami alla fattispecie concreta sottoposta alla sua cognizione. Le soluzioni giuridiche
Il decisum della Cassazione muove dalla disamina del quadro normativo a seguito della riforma operata dall'art. 54 del d.l. 83/2012 (conv., con modif., nella l. 134/2012). Questa ha modificato l'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. legittimando la censura per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, non essendo più consentita la formulazione di censure per il vizio di insufficiente o contraddittoria motivazione (Cass. civ., sez. un., 10 luglio 2015, n. 14477). Se la riforma ha indubbiamente inciso le prerogative delle parti, essa deve, comunque, essere interpretata alla luce dei canoni dettati dall'art. 12 delle Preleggi, come riduzione al «minimo costituzionale» del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, l'anomalia motivazionale ricorribile per Cassazione rimane quella che si tramuta in una violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza impugnata. Conseguentemente, si esclude la possibilità di censurare il semplice difetto di sufficienza della motivazione. Al contempo tra le anomalie rilevanti, nell'interpretazione resa dalla Corte, si annoverano: la mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico; il contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili; la motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile; la motivazione apparente. A tal riguardo va detto che si ha motivazione c.d. apparente quando il giudice di merito, pur indicando gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, ne omette qualsiasi approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull'esattezza e sulla logicità del suo ragionamento. (Cass. civ., n. 2067/1998, Cass. civ., n. 9097/2017). Così, dopo aver descritto la fattispecie astratta della censurabilità della motivazione a seguito della riforma del 2012, la Corte di cassazione si è soffermata sull'applicabilità della stessa al caso concreto. Invero, nella fattispecie in esame, la Corte d'appello, in relazione alle domande di protezione internazionale avanzate dal ricorrente, si è limitata ad esprimere la propria adesione alla sentenza di primo grado e alle argomentazioni della Commissione territoriale senza riportarne il contenuto, tralasciando qualsiasi riferimento ai fatti allegati dall'appellante e ai motivi di gravame. La sentenza impugnata presenta, dunque, una motivazione del tutto astratta, generica e comunque scollegata dalla fattispecie portata alla sua cognizione. Per queste ragioni la motivazione della sentenza impugnata non risulta legittimamente resa «per relationem». A ben guardare, in assenza di un comprensibile richiamo ai contenuti degli atti cui si rinvia, ai fatti allegati dall'appellante, alle ragioni del gravame e in assenza di un'effettiva valutazione della infondatezza dei motivi di gravame, la sentenza impugnata è viziata per motivazione apparente. Osservazioni
L'obbligo di motivazione è, come noto, sancito dall'art. 111 Cost., comma 6, in forza del quale «tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati» e risponde a diverse e fondamentali esigenze, anch'esse di rango costituzionale, come la garanzia del controllo della imparzialità e indipendenza del giudice (art. 104 Cost.) e il diritto di difesa (art. 24 Cost.). In tema di motivazione si deve citare anche l'art. 118, comma 1, disp.att. c.p.c., che, dopo le modifiche apportate dall'art. 52, comma 5, della l. 69/2009, prevede che «la motivazione della sentenza di cui all'art. 132, secondo comma, numero 4), del codice consiste nella succinta esposizione dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento a precedenti conformi». Pertanto, l'obbligo di motivazione può individuarsi nell'enucleazione del ragionamento logico e giuridico che ha indirizzato il giudice verso la decisione adottata rispetto alle eccezioni sollevate dalle parti in causa. Se il totale difetto di motivazione rende la sentenza inesistente (Cass. civ., 8 ottobre 1985, n. 4881), integra, invece, un'ipotesi di nullità della sentenza, l'error in procedendo (ricorribile ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.) dell'anomalia motivazionale, implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante, sia nel caso di mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico, sia sotto l'aspetto di motivazione apparente e di motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (ex multis Cass., 18 gennaio 2019, n. 1379). Quanto alla motivazione apparente ed a quella perplessa e/o incomprensibile, la sentenza è nulla ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, ove la stessa non rappresenti un autonomo processo deliberativo ed ove non renda percepibili le ragioni della decisione, consistendo in argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l'iter logico alla base della decisione (Cass. civ., sez. un., sez. un., n. 22232/2016; Cass. civ., sez. un., n. 16599/2016). Ed infatti, non consentendo alcun effettivo controllo sull'esattezza e sulla logicità del ragionamento, in tal modo il giudice finisce per eludere l'obbligo di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione. Esempio di tale vizio è proprio la sentenza motivata «per relationem» alla decisione di primo grado, attraverso una generica condivisione della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni svolte dal primo giudice, senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame (Cass. civ., 18 giugno 2019, n. 16294). In passato, alla luce del vecchio testo dell'art. 118 disp. att., c.p.c., la giurisprudenza era ferma nel ritenere sussistente la violazione dell'obbligo di motivazione se il giudice si fosse limitato a richiamare le ragioni addotte in un altro provvedimento, proprio o di altro magistrato (Cass. civ., 26 aprile 2004, n. 7937). La motivazione «per relationem» era, invece, ammessa nelle ristrette ipotesi di rinvio alle giustificazioni addotte a sostegno della decisione impugnata, a condizione che il giudice di secondo grado dimostrasse di averle presenti e di averle fatte proprie, procedendo ad una disamina critica dei motivi di gravame (Cass. civ., 8 gennaio 2009, n. 161; Cass. 11 giugno 2008, n. 15483). Tale orientamento era però avversato: a) dalla dottrina (Taruffo) che dubitava della legittimità di tale motivazione, in quanto non controllabile dall'esterno per mancanza di elementi - sentenza di primo grado, motivi di appello - necessari a rendere intellegibile l'iter giustificativo delle determinazioni del giudice d'appello; b) da parte della giurisprudenza per la quale il generico richiamo alla soluzione adottata dal giudice di prime cure costituiva un recepimento acritico, inidoneo ad assolvere alla funzione di revisio prioris instantiae propria della sentenza di secondo grado (Cass. civ., 10 gennaio 2003, n. 196 e Cass. civ., 5 dicembre 1997, n. 12379). Non v'è dubbio che la cronica crisi in cui versa la giustizia civile unitamente alle modifiche del 2012 cui si è fatto cenno qualche pagina indietro hanno imposto una stretta sulla nozione di motivazione come intesa in precedenza. Per la Suprema Corte, la motivazione «per relationem» è oggi consentita ove il giudice dia conto delle ragioni di adesione, quando non vi siano elementi nuovi rispetto alla motivazione di riferimento (Cass. civ., 5 novembre 2018, n. 28139; Cass. civ., 20 aprile 2021, n. 10434). Più nel dettaglio, la sentenza pronunciata in sede di gravame è legittimamente motivata «per relationem» ove il giudice d'appello - nel recepire le argomentazioni del primo giudice - esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della conferma della pronuncia in relazione ai motivi di impugnazione, sì da ricavare un percorso argomentativo adeguato e corretto. Va, invece, cassata la decisione con cui il giudice si sia limitato ad aderire alla decisione di primo grado, in difetto dell'esame e della valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Cass. civ., 19 luglio 2016, n. 14786; Cass. civ., 12 giugno 2018 n. 15187; Cass. civ., 5 giugno 2018, n. 14401; Cass. civ., 30 maggio 2018, n. 13594; Cass. civ., 9 aprile 2018, n. 8684; Cass. civ., 30 marzo 2018, n. 8012). Per concludere: è legittima la motivazione «per relationem» che consente di ripercorrere l'iter logico che ha condotto il giudice alla decisione e se corredata da un esame critico non consistente in un mero richiamo di precedenti pronunce. Quanto sin ora delineato - è bene evidenziarlo - va distinto, dalla nullità della sentenza per motivazione omessa o insufficiente in violazione del principio della rispondenza tra il chiesto e il pronunciato ex art. 112 c.p.c. Tale ipotesi si configura, difatti, ove nel corpo di un provvedimento giurisdizionale, il giudice ometta di decidere su alcune delle domande, delle eccezioni o delle questioni dedotte. In generale, può dirsi che l'omissione di pronuncia presuppone un thema decidendum complesso, composto da una pluralità di domande o di eccezioni, di cui, tuttavia, solo alcune sono state oggetto di decisione; il discorso, infine, non muta quando, pur in presenza di un'unica domanda, la pronuncia riguardi solo una parte del petitum, ovvero del diritto azionato. Riferimenti
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