Ordinanza di liquidazione dei compensi degli avvocati e revocazione: la decisione della Corte costituzionale
17 Maggio 2021
Massima
Non è fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 395, n. 4), c.p.c. e 14 d.lgs. 150/2011, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, in quanto il rimedio ex art. 395 c.p.c. è esperibile, oltre che avverso le sentenze, anche contro tutti i provvedimenti aventi carattere decisorio con attitudine al giudicato per i quali non è previsto il mezzo dell'appello. Il caso
Proposto ricorso ex art. 14 d.lgs. 150/2011 per la liquidazione dei compensi professionali, il giudice adìto rigettava la domanda sul presupposto della mancata produzione della documentazione funzionale a verificare i fatti allegati e ciò benché fossero stati depositati in via telematica i documenti utili per la liquidazione degli onorari. Avverso tale provvedimento di rigetto veniva proposta revocazione, sull'assunto che l'ordinanza fosse affetta da errore di fatto, in quanto fondata sull'affermazione, non vera, della mancata produzione dei documenti comprovanti l'attività difensiva espletata. Il tribunale adìto con la domanda di revocazione osservava in via preliminare che l'ordinanza resa all'esito del procedimento di liquidazione dei compensi non è appellabile, in virtù del dettato contenuto nell'ultimo comma dell'art. 14 del decreto citato; aggiungeva inoltre che l'errore di fatto revocatorio non era deducibile tramite il ricorso per cassazione, a causa della tassatività dei relativi motivi di impugnazione. Pertanto, sollevava questione di legittimità costituzionale degli artt. 14 del d.lgs. 150/2011 e 395, n. 4, c.p.c. osservando che la limitazione dell'ambito di operatività della disciplina dedicata alla revocazione alle sole sentenze pronunciate in grado di appello o in unico grado impediva all'avvocato che lamenti l'errore di fatto di avvalersi della revocazione avverso l'ordinanza resa all'esito del procedimento di liquidazione dei compensi professionali. Più precisamente, per il giudice rimettente, la lettera dell'art. 395 c.p.c., prevedendo l'esperibilità del mezzo impugnatorio avverso le sole sentenze, impediva di proporre tale rimedio contro le altre tipologie di provvedimenti definitori; ciò, nonostante l'evoluzione normativa che non solo ha progressivamente avvicinato le ordinanze aventi contenuto decisorio alle sentenze, ma ha anche attribuito la veste dell'ordinanza (in luogo di quella della sentenza) ad alcuni provvedimenti definitori del giudizio (si pensi all'art. 42 c.p.c. come novellato nel 2009, nonché all'art. 702-ter del codice di rito). Per il rimettente, allora, l'impossibilità di impugnare le ordinanze decisorie rese all'esito del procedimento per la liquidazione dei compensi degli avvocati con lo strumento di cui all'art. 395, n. 4, rendeva evidente l'illegittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 14 d.lgs. 150/2011 e 395, n. 4, c.p.c. per violazione dell'art. 3, essendo solo il provvedimento definitorio avente la forma di sentenza impugnabile per revocazione, a differenza di quanto accade per il provvedimento ugualmente definitorio, avente però la forma di ordinanza. Soprattutto, per il giudice a quo, l'impossibilità di proporre revocazione ex art. 395, n. 4, avverso l'ordinanza resa all'esito del procedimento di liquidazione degli onorari degli avvocati ledeva gravemente il diritto di azione della parte intenzionata a far valere l'errore di fatto scaturente dalla mancata percezione dell'esistenza di un documento versato in atti, con la irragionevole negazione di ogni possibilità di accesso alla tutela giurisdizionale ex art. 24 Cost. in relazione alla forma del provvedimento adottato. La questione
La questione sottoposta alla Consulta riguarda la conformità al principio di uguaglianza e al diritto di azione, della norma desumibile dal combinato disposto degli artt. 14 del d.lgs. 150/2011 e 395, n. 4 c.p.c. nella parte in cui non consente di assoggettare a revocazione l'ordinanza, resa all'esito del procedimento per la liquidazione dei compensi degli avvocati, viziata da errore di fatto consistito nel ritenere non prodotto in giudizio un documento decisivo. Le soluzioni giuridiche
Ritenuta ammissibile e rilevante la questione, la Corte costituzionale osserva in via preliminare che «l'attendibilità dell'enunciazione giudiziale dei fatti dedotti a fondamento della domanda di tutela giurisdizionale costituisce estrinsecazione del principio costituzionale del giusto processo», per cui la revocazione è strumento di tutela necessario ogni qualvolta dalla decisione viziata da errore di fatto possa derivare un pregiudizio effettivo al diritto sostanziale dedotto in giudizio. Tale esigenza, osserva la Consulta, «sorge di fronte ad ogni provvedimento giurisdizionale che, a prescindere dalla forma in cui si estrinsechi, abbia ad oggetto una regolamentazione, con attitudine al giudicato, di interessi protetti dall'ordinamento giuridico, il cui iter decisionale sviato dall'errore di percezione non sia rivedibile attraverso un rimedio a critica libera come l'appello, che costituisce il mezzo ordinario e illimitato di reazione all'ingiustizia della decisione e, in quanto tale, è capace di assorbire anche l'errore revocatorio». A tale rilievo, che di per sé sarebbe tale da indurre a ritenere fondata la censura sollevata dal rimettente, la Corte aggiunge anche l'ulteriore e decisiva considerazione secondo cui le recenti riforme del processo civile, erodendo il primato della sentenza, hanno ammesso la possibilità che il giudizio possa chiudersi con l'adozione di un provvedimento decisorio avente la forma dell'ordinanza, caratterizzata da una motivazione più agile e succinta, ma pur sempre idonea a produrre gli stessi vantaggi della sentenza, come dimostra l'introduzione - quale generale alternativa per i giudizi assoggettati alla cognizione del tribunale in composizione monocratica - del procedimento sommario di cognizione, destinato a concludersi, appunto, con un'ordinanza avente contenuto decisorio ed idonea al giudicato, formale e sostanziale. Pertanto, «questo progressivo ampliamento del ricorso all'ordinanza decisoria, che oggi costituisce una delle forme di possibile definizione delle controversie civili, impone di adeguare la norma espressa dall'art. 395 c.p.c. - formulata in consonanza con un sistema imperniato sull'unico tipo normativo della sentenza in senso formale - al mutato contesto legislativo, estendendone l'ambito applicativo nella prospettiva della garanzia del diritto di difesa e dell'effettività della tutela giurisdizionale ai sensi dell'art. 24 Cost.». Dunque, la Consulta esclude che possa ravvisarsi la violazione dei precetti costituzionali di uguaglianza e di tutela del diritto di azione, potendo interpretarsi estensivamente la nozione di sentenza contenuta nell'art. 395 e per tale via ammettersi la revocazione avverso ogni tipologia di provvedimento, anche diverso dalla sentenza, purché idoneo a definire il giudizio. D'altronde, aggiungono i giudici delle leggi, tale conclusione trova conferma nella consolidata elaborazione, da parte della giurisprudenza della Cassazione, della nozione di sentenza «in senso sostanziale» che ha trovato la sua consacrazione con la storica sentenza delle Sezioni unite civili 30 luglio 1953, n. 2593, resa proprio con riferimento al procedimento per la liquidazione dei compensi degli avvocati. Da tali premesse, allora, può senz'altro desumersi che il rimedio ex art. 395 c.p.c. è esperibile non solo avverso le sentenze, ma anche contro tutti i provvedimenti aventi carattere decisorio con attitudine al giudicato per i quali non è previsto un mezzo di impugnazione con il quale poter censurare gli errori revocatori. Osservazioni
Come è noto, dal combinato disposto degli artt. 395, 396 c.p.c. si ricava che la revocazione è ammessa soltanto contro le sentenze pronunziate in grado di appello o in un unico grado, mentre la sentenza di primo grado è suscettibile di tale rimedio solo quando sia scaduto il termine per l'appello e si tratti di revocazione, c.d. straordinaria, per i motivi di cui all'art. 395, nn. 1, 2, 3 e 6. L'introduzione nel codice di rito degli artt. 391-bis e ter ha però permesso di impugnare per revocazione anche le sentenze della Corte Suprema di cassazione; inoltre, ai sensi dell'art. 656 c.p.c. è revocabile il decreto ingiuntivo dichiarato esecutivo - per i soli motivi, per altro, di cui ai nn. 1, 2, 5 e 6. Infine, sono impugnabili con tale mezzo le sentenze arbitrali, esclusivamente per i motivi di revocazione straordinaria (art. 831, comma 1). Per effetto dell'intervento della Corte costituzionale, sono poi revocabili, nonostante non rivestano la forma della sentenza, le ordinanze di convalida di sfratto o licenza per finita locazione e per morosità, per il solo motivo di revocazione n. 4 (Corte cost., 20 dicembre 1989, n. 558) e, limitatamente alla sola convalida di sfratto per morosità, anche per il motivo n. 1 (Corte cost., 20 febbraio 1995, n. 51, ivi), sulla scia di un orientamento dottrinale che ne predicava la revocabilità già prima dell'intervento della Consulta (Tommaseo, Ordinanza di convalida di sfratto e revocazione per errore di fatto, in Nuove leggi civ. comm., 1991, 392 ss.). È stata poi ritenuta revocabile la sentenza dichiarativa di fallimento (Bianchi D'Espinosa, La revocazione delle sentenze nel procedimento fallimentare, in Dir. fall., 1954, II, 117 ss.; Provinciali, Trattato di diritto fallimentare, I, Milano, 1974, 607 s., nt. 1; Tedeschi, Manuale del nuovo diritto fallimentare, Padova, 2006, 113 ss.; Vassalli, Diritto fallimentare, I, Torino, 1994, 148 s.), ancorché per i soli motivi di revocazione straordinaria (Cass. civ., 29 maggio 2014, n. 12121; Cass. civ., 24 maggio 2010, n. 12625). L'apertura manifestata dalla dottrina e dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità in favore dell'estensione del rimedio della revocazione al di là dei casi espressamente previsti dalla legge è poi testimoniato dalla revocabilità delle ordinanze di inammissibilità del ricorso per cassazione ex art. 375, comma 1, n. 1, c.p.c. (Corte cost., 9 luglio 2009, n. 207, per la quale «la mancata previsione, da parte del legislatore, di un rimedio nel caso in cui un errore di tipo percettivo abbia determinato la declaratoria di inammissibilità del ricorso, a norma dell'art. 375, comma 1, n. 1, c.p.c., viola sia l'art. 3, che l'art. 24 Cost.»), nonché delle ordinanze anticipatorie previste dagli artt. 186-bis e ter dopo l'estinzione del processo, tanto più se ad esse si riconosce l'idoneità al giudicato (Carratta, voce Ordinanze anticipatorie di condanna (dir. proc. civ.), in Enc. giur., IV agg., Roma, 1995, 24), e di quella resa ai sensi dell'art. 186-quater, come confermato dall'espressa equiparazione di quest'ultima, a fini impugnatori, alla sentenza appellabile ai sensi dei commi 3 e 4 della stessa norma (Rota, voce Revocazione nel diritto processuale civile, in Dig. Disc. Priv., Sez. Civ., XVI, Torino, 1998, 485) ed ancora del provvedimento che decide l'opposizione allo stato passivo per il motivo di cui al n. 4 dell'art. 395 (Trib. Milano, 06 aprile 2017, in Giur. it., 2017, 2129, con nota di Russo). Su un piano più generale, poi, va ricordato che da sempre la dottrina ammette la revocazione delle sentenze emanate dai giudici speciali, anche laddove non espressamente prevista dalla legge, sulla base della «salvaguardia» delle «universali esigenze di giustizia» cui lo strumento assiste (Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, Napoli, 1957; Colesanti, voce Sentenza civile (revocazione della), in Noviss. Dig. it., XVI, Torino, 1969, 1164). Tali universali esigenze di giustizia sono ravvisabili anche nel caso portato all'attenzione della Consulta: la previsione di inappellabilità dell'ordinanza conclusiva del procedimento di liquidazione dei compensi non può infatti giustificare l'esclusione del rimedio impugnatorio della revocazione per errore di fatto, essendo una simile conclusione incompatibile con la necessità di garantire la salvaguardia del diritto di difesa: se è vero che non si è mai dubitato della possibilità di impugnare per revocazione le sentenze rese in unico grado, a simile conclusione deve giungersi anche per le ordinanze rese ai sensi dell'art. 14 del d.lgs. 150/2011 giacché la sostanziale ingiustizia dell'ordinanza conclusiva del procedimento di liquidazione degli onorari di avvocato è da temere in misura almeno analoga a quanto può accadere per sentenze pronunciate in unico grado. Va perciò espresso ampio plauso alla svolta che la sentenza segnae ciò anche per la considerazione che, scegliendo la strada della pronuncia interpretativa di rigetto, la Corte offre agli interpreti una direttiva preziosa per i giudizi futuri: evitando di adottare lo strumento della pronuncia additiva che si sarebbe limitata alla declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 395, n. 4, c.p.c., nella parte in cui non prevede la revocazione per errore di fatto avverso le ordinanze di liquidazione degli onorari e dei diritti di avvocato emesse a conclusione del procedimento regolato dall'art. 14 del d.lgs. 150/2011, permette non solo di estendere la soluzione dell'esperibilità della revocazione per tutti i motivi contemplati all'art. 395, ma anche di poter considerare revocabili non solo le ordinanze di liquidazione dei compensi degli avvocati ma tutti i provvedimenti decisori, indipendentemente dalla forma da essi rivestita in concreto. |