Profili ricostruttivi e sistematici degli strumenti per la soluzione della crisi dell'impresa

Alessandro Di Majo
13 Maggio 2021

Un'analisi dei profili, ricostruttivi e sistematici, degli strumenti che, a partire dall'inizio del secondo millennio, hanno caratterizzato le risposte alla situazione di crisi della impresa e che hanno attraversato sia il terreno delle procedure che quello degli accordi negoziali, con prevalenza, a seconda dei casi, delle une o degli altri.
Premessa

E' opportuno evidenziare i profili, ricostruttivi e sistematici, degli strumenti che, a partire dall'inizio del secondo millennio, hanno caratterizzato le risposte alla situazione di crisi della impresa.

Le soluzioni hanno attraversato sia il terreno delle procedure che quello degli accordi negoziali, con prevalenza, a seconda dei casi, delle une o degli altri.

Il concordato preventivo

Modello iniziale è stato indubbiamente quello del concordato preventivo che, pressoché ignorato dalla legge fallimentare del 1942, se non nella forma di concordato successivo al fallimento (art. 124 l.fall.), ha la causa sostanziale nella soddisfazione dei crediti e nella ristrutturazione dei debiti "attraverso qualsiasi forma", non legata dunque alla tipizzazione di strumenti a ciò destinati.

Il modello del concordato preventivo, così come previsto dall'art. 160 l.fall. (cfr. anche il concordato preventivo previsto nel D.lgs. 14/2019 "Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza", artt. 84-120 , integrato e corretto dal d.lgs. n. 147/2020, artt. 13-18), affida la propria legittimità alla previsione di una procedura, sotto il controllo del giudice, avente dunque carattere giurisdizionale, che inglobi indubbiamente elementi negoziali, quali la proposta del debitore e il consenso maggioritario dei creditori.

Elementi procedurali più che evidenti non sono tanto le finalità che si ripromette la domanda del debitore proponente il concordato, finalità che appartengono al suo potere negoziale, quanto i limiti di carattere sostanziale (quale ad es. la garanzia del pagamento di almeno il 20% dei chirografari nonché che i creditori assistiti da privilegio, pegno o ipoteca, abbiano ad essere soddisfatti in misura non inferiore a quella realizzabile, in ragione della collocazione preferenziale, sul ricavato in caso di liquidazione) che la caratterizzano e gli effetti che l'accompagnano (come quello, non certo appartenente al terreno della negozialità) di poter stabilire "trattamenti differenziati tra creditori appartenenti a classi diverse" (art. 160 l.fall.).

Il poter stabilire "trattamenti differenziati", così enunciati, non appartiene al linguaggio della negozialità ma all'interesse più generale, di agevolare la crisi della impresa, attraverso una suddivisione dei creditori in "classi diverse", così da consentire il diverso trattamento dei creditori (in funzione della diversa classe di appartenenza).

L'esistenza della classe diventa strumento per consentire che il singolo creditore, in quanto appartenente ad una classe diversa, possa subire un diverso trattamento rispetto al creditore appartenente ad altra classe. Una tale possibilità non può trovare il proprio fondamento se non, si ribadisce, in una procedura a carattere pubblico, che consenta iltrattamento differenziato di singoli creditori, nella misura in cui appaia giustificato in ragione della classe di appartenenza.

Elementi altresì riconducibili al modello procedurale è l'esistenza "del piano", che, pur avendo riguardo alle modalità e ai tempi dell'adempimento della proposta, è proprio coessenziale all'esistenza di una procedura, che non è realizzabile uno actu, ma lungo il corso di un'attività continuativa.

E' persino inutile fare menzione degli ulteriori elementi o passaggi che non possono che spiegarsi nel contesto di una procedura a carattere giurisdizionale. La stessa possibilità che il debitore abbia a mantenere l'amministrazione dei suoi beni e l'esercizio dell'impresa durante la procedura di concordato (art. 167 l.fall.) non può che aver luogo perché esiste una procedura, che consenta il continuo monitoraggio dell'attività del debitore.

Lo stesso dicasi del maggiore effetto costituito dal blocco delle azioni esecutive e cautelari, a far data dalla pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese e fino al momento in cui il decreto di omologazione diventa definitivo (art. 168 l.fall.).

Appartiene altresì al modello procedurale il fatto che il concordato, per divenire efficace, possa essere approvato dalla maggioranza dei creditori riuniti in adunanza (art. 175 l.fall.).

La circostanza che la proposta del debitore non debba essere comunicata ad ogni singolo creditore per averne risposta, ma richieda che il consenso dei creditori venga espresso in apposita "adunanza", presieduta dal giudice delegato, è il segno più che evidente che ciò è richiesto da una procedura, che lo prevede a fini di legittimità dell'intero percorso.

E, alla fine, l'omologazione del concordato ad opera del Tribunale è diretta a contrassegnare il raggiungimento della finalità della procedura, iniziata con la proposta del debitore e ciò nel senso della verifica della fattibilità sia giuridica che economica. Che il Tribunale non possa limitarsi solo a verificare la regolarità della procedura e l'esito della votazione, così come enunciato dall'art. 180 l.fall., ma debba verificare altresì "la fattibilità" del concordato, sembra esigenza corrispondente proprio alla finalità del modello procedurale, che non è un modello fine a se stesso, ma finalizzato ad ottenere, quale risultato, la fattibilità, giuridica ed economica, "del piano" predisposto dal debitore. E' solo con riguardo "ad una procedura", che può parlarsi di finalizzazione rispetto ad un risultato da raggiungere.

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti

A fronte dunque del modello del concordato preventivo, quello degli accordi di ristrutturazione dei debiti, previsto dall'art. 182 bis l.fall., si presenta innegabilmente distante, sia per natura che per finalità. Quanto alla finalità esso, in primo luogo, pur avendo come scopo il superamento della crisi d'impresa, così da evitare il fallimento di essa, persegue l'obiettivo non già di arrivare al soddisfacimento dei creditori, ma quello, ben diverso, di una ristrutturazione dei debiti e cioè sostanzialmente di una ricomposizione e ridefinizione della parte passiva del rapporto debitorio, così che, solo per tale via traversa, possa giungersi alla soddisfazione dei creditori.

E' dunque un percorso del tutto diverso ed autonomo.

In tale percorso non vi è bisogno di far ricorso ad una procedura garantistica, che sia tale appunto da assicurare la regolarità del percorso e del suo risultato finale, bensì è sufficiente che si faccia ricorso ai normali strumenti negoziali, che consentano di porre mano al rapporto-base debitorio, così da assicurare, per tale via, la soddisfazione della parte attiva del rapporto. Si può dire che il credito deve adeguarsi alle nuove forme che il debito è destinato ad assumere.

E tale è, per definizione, l'accordo che deve aver luogo con i creditori, sia pure nella maggioranza del sessanta per cento (art. 182 bis l.fall.).

La richiesta che l'accordo debba incontrare almeno la maggioranza del 60% dei crediti non sembra un elemento contrastante con il carattere negoziale di esso. Il requisito così stabilito, indubbiamente a tutela della serietà dell'accordo, non si pone come elemento costitutivo, così da rendere quasi parte contraente la percentuale al 60% del ceto creditorio e non l'intero ceto, consenziente o dissenziente che sia, bensì è una condizione estrinseca, tale da dare fondamento in partenza al potere del creditore di addivenire all'accordo di ristrutturazione. E' come dire che il potere riconosciuto al debitore di stringere accordi con i propri creditori, potere che sarebbe altrimenti ovvio e naturale ove dovesse intervenire con tutti i creditori, qui è riconosciuto, invece, in via eccezionale, con una sola parte di essi (il 60%), ma alla sola condizione che i creditori estranei all'accordo abbiano ad essere integralmente pagati (art. 182 bis l.fall.). La disposizione può apparire contraddittoria, con il riconoscimento che il debitore abbia a raggiungere accordi con una sola parte dei propri creditori, non dovendo esso incontrare limiti nella sua posizione di autonomia. Ma non è più contraddittoria, ove si inquadri la norma negli strumenti extra-giudiziali volti a risolvere la crisi dell'impresa e tali dunque da bypassare il fallimento, ove dunque il principio della universalità dei creditori e la par condicio di essi abbiano a subire deroga, attraverso un principio maggioritario, sin dal momento della formazione dell'accordo (il 60%) e la garanzia del pagamento integrale dei creditori rimasti estranei ad esso (art. 182 bis l.fall.).

E' doveroso allora chiedersi se una siffatta disposizione, a differenza di quanto accade per il concordato preventivo, non abbia anch'essa bisogno di un qualche ulteriore supporto normativo, come la previsione di una procedura (come nel concordato) o qualcos'altro. Ma così non è.

È la stessa norma di legge ad offrire il supporto alla legittimità di un accordo negoziale, tale da consentire che esso abbia ad intervenire solo con una parte dei creditori (pur nella maggioranza del 60%), ed essendo garantito l'integrale pagamento per i creditori (rimasti) estranei ad esso. Il contesto in cui la norma è collocato è pur sempre quello del Tit. III, ove sono considerati tanto il concordato preventivo quanto gli accordi di ristrutturazione ed è tale da fornire pieno fondamento causale agli accordi. Entrambi gli strumenti (concordato ed accordo) sono accomunati dalla finalità di superare la crisi dell'impresa insolvente, con l'evitare il fallimento di essa.

La possibilità di derogare al principio dell'universalità dei creditori, declamata dall'art. 2741 c.c., di "dialogare" solo con una parte (pur nel 60%) di essi, è una scelta da ricondurre ad un interesse di carattere più generale, che può richiamare a sua volta il principio più generale, secondo cui è consentito al legislatore di derogare ai limiti che incontrano gli accordi di natura privata, ove siano in gioco interessi "diversi" che trascendono quelli delle parti contraenti. Può richiamarsi al riguardo il principio che il contratto è fonte di integrazione nei suoi effetti, anche ad opera (dell'intervento) della legge (art. 1339 c.c. inserzione automatica di clausole). Nel caso di specie, l'intervento della legge si colloca a monte della predisposizione di accordi di ristrutturazione dei debiti, consentendo inizialmente che essi abbiano a derogare al principio "della universalità" dei creditori dell'impresa insolvente, ove esista una maggioranza al 60 % dei crediti.

Va osservato che la deroga non figura neutralizzata dal principio di maggioranza (60%), come potrebbe apparire, giacchè la maggioranza è chiamata ad intervenire già al momento della proposta di accordo, lasciando fuori il 40% dei creditori.

Gli accordi di ristrutturazione dei debiti con intermediari finanziari

La novità recata dal nuovo art. 182 septies l. fall., introdotto nella legge fallimentare con la L. n. 132/2015, recante nel titolo "Accordo di ristrutturazione", è che esso viene a derogare, in forma ancor più netta, al principio "della universalità" dei creditori, intervenendo con una particolare categoria di essi (banche e intermediari finanziari) e già all'interno di una parte di essi che si è espressa nel 60% (art. 182 bis l. fall.) (ma purchè la categoria delle banche e degli intermediari si sia espressa nella misura del 75% in senso favorevole). Non solo. All'interno di tale categoria si distingue ulteriormente la categoria di creditori “che abbiano tra loro posizione giuridica e interessi economici omogenei” (art. 182 septies, comma 2, l. fall.)

Il che significa consentire non solo che abbia a distinguersi una categoria di creditori (banche e intermediari finanziari) rispetto alla generalità e la cui funzione è quella di far credito e di fungere da intermediario nelle operazioni finanziarie - agenti in attività finanziaria e mediatori creditizi sono quelli elencati nel Titolo VI bis del T.U. bancario - quanto che, tra di essi, abbiano ulteriormente a distinguersi creditori aventi "posizione giuridica e interessi economici omogenei", così da consentire che ad essi abbia ad estendersi l'accordo, anche se non aderenti.

La scelta del legislatore è più che chiara. Sempre ai fini di agevolare l'impresa in crisi o insolvente attraverso una soluzione extragiudiziale, si è pensato in primo luogo di operare una distinzione tra le categorie di creditori, individuando quella tra essi che, in quanto finanziatrice dell'impresa, può essere meglio in grado di apprezzare una soluzione "negoziata" più che giudiziale. E infine, sempre al fine di agevolare la portata ed efficacia degli accordi, si è individuata, all'interno di essa, una ulteriore categoria, quella di creditori avente "una posizione giuridica e interessi economici omogenei", per estendere anche ai creditori non aderenti l'accordo in questione.

Se già l'individuazione (di una particolare categoria) di soggetti creditori è tale da derogare al principio "dell'universalità" dei creditori, così come declamata dallo stesso codice civile all'art. 2741 (secondo cui "i creditori hanno eguale diritto di essere soddisfatti sui beni del debitore") e presupposta nella procedura fallimentare all'art. 182 septies l. fall., l'ulteriore ritaglio, all'interno della categoria prescelta di creditori, volto a distinguere creditori aventi "posizione giuridica e interessi economici omogenei", così da giustificare l'estensione dell'accordo anche "ai creditori non aderenti che appartengano alla medesima categoria", è tale da assegnare agli accordi di cui è parola una iper-efficacia che si trova all'opposto del principio "di relatività" degli accordi negoziali (art. 1372 c.c.).

Né può trovare facile applicazione il richiamo alla figura del contratto a favore di terzo di cui agli artt. 1411 c.c. ss., giacchè non può assolutamente dirsi che l'accordo di cui è parola possa definirsi come contratto destinato "a favore" di terzi che ad esso non abbiano preso parte. Che l'accordo infatti possa agevolare, per definizione, l'impresa anche al fine di consentire il soddisfacimento in larga parte dei suoi creditori, non può però concludersi che esso, con riguardo alla posizione del singolo creditore, possa definirsi "a favore" di questo, come sembra richiedere la fattispecie del contratto a favore di terzo dell'art. 1411 c.c.

Occorre allora meglio approfondire la portata e novità del modello introdotto dall'art. 182 septies l. fall. rispetto al modello, più generale, dell'accordo di ristrutturazione dei debiti previsto dall'art. 182 bis l. fall.

Che, anche con il modello delineato dall'art. 182 septies l. fall., in senso ancora più forte si sia inteso utilizzare la soluzione extragiudizialeper andare incontro all'impresa insolvente, è più che evidente. Del resto, la mancanza di una qualsiasi disposizione che possa significare richiamo all'esistenza "di una procedura", tale da garantire i creditori, è anch'essa un fatto certo. Il modello introdotto dall'art. 182 septies è, per così dire, "nudo", così come quello previsto dall'art. 182 bis l. fall.

Esso si è collocato bene al di là del modello dell'art. 182 bis. nella misura in cui introduce, rendendola dunque legittima, una chiara forma di accordo che non solo ritaglia un'ulteriore parte del ceto creditorio (banche e intermediari finanziari) accanto a quella del 60% ma, ulteriormente, all'interno di essa, distingue i creditori aventi "una posizione giuridica e interessi economici omogenei". L'immediato fondamento sembra essere non più quello dell'interesse dell'impresa insolvente, come nel modello previsto dall'art. 182 bis, bensì l'interesse dei creditori, considerati in una dimensione, in certo senso, collettiva. In tal caso, la dimensione collettiva dei creditori appare dunque strumento per poter procedere ad una più sollecita ristrutturazione dei debiti.

Taluno ha affermato che, in tal modo, la disposizione di cui all'art. 182 septies "abbia determinato una sicura virata verso la concorsualità" (Così Perrino M., Gli accordi di ristrutturazione con banche e intermediari finanziari e le convenzioni di moratoria, 1453, e Terranova G., L'autonomia del diritto concorsuale, Torino, 2016, 110). Tale affermazione è, nella sostanza, da condividere.

In questo caso non è quindi necessario ricercare il fondamento dell'accordo con una sola parte dei creditori (nella misura del 60%) in una ragione "esterna" ad esso, così come ipotizzato dal modello previsto dall'art. 182 bis l. fall., bensì in una ragione "interna" e co-essenziale al ceto creditorio, che ne evoca la dimensione "collettiva" e quindi, di riflesso, in senso forte, la concorsualità (per i creditori aventi posizioni "omogenee") (Sul punto cfr. Fauceglia G., L'accordo di ristrutturazione dell'indebitamento bancario tra specialità negoziale e regole concorsuali, in Dir. fall., 2016, 728; Inzitari B., Gli accordi di ristrutturazione con intermediari finanziari e la convenzione di moratoria: deroga al principio di relatività del contratto ed effetti sui creditori estranei, in Dir. fall., 2015, 521).

Posti ora di fronte al problema di dare collocazione al modello di "accordi" previsti dall'art. 182 septies, a fronte di quello più generale previsto dall'art. 182 bis l. fall., si può convenire che trattasi di accordi tipizzati in senso forte, non solo quanto alla loro componente soggettiva in funzione della parte con cui tali accordi intercorrono (banche e intermediari finanziari) e altresì per la loro causa, avente riguardo alla particolare natura del credito, ma anche per il fatto che tale "tipizzazione" è destinata a integrarsi, per così dire, anche con riferimento alla dimensione "collettiva" del credito, tale da giustificare, al suo interno, la concorsualità.

L'esistenza della soluzione extra-giudiziale va dunque confermata, come nel modello dell'art. 182 bis, anche se essa riceve una particolare connotazione nella scelta di una “tipizzazione" di accordi, in funzione della componente soggettiva della parte creditoria (banche e intermediari finanziari) nonché in ragione del profilo "collettivo" che essa può rivestire in ragione "dell'omogeneità" delle posizioni rivestite dai creditori.

Per altro verso, che il carattere vincolante di un accordo abbia a potersi stabilire con una particolare categoria di creditori (banche ed intermediari finanziari) anziché con tutti, e che esso si estenda anche ai non aderenti in ragione di un ulteriore elemento economico (derivante dalla omogeneità delle loro posizioni), è conseguenza che può farsi derivare, in linea generale, dalla stessa conformazione "del tipo" di accordi e dalla natura in certa misura "collettiva" dei crediti su cui essi debbono incidere.

Il nuovo Codice della crisi d'impresa e dell'insolvenza (D.lgs. n. 14/2019)

Il nuovo “Codice”, definito "della crisi d'impresa e dell'insolvenza", introdotto dal d.lgs. 12 gennaio 2019 n. 14 , integrato e corretto dal d.lgs. n. 147/2020 (cfr. Lamanna F., Il nuovo codice della crisi e dell'insolvenza, I, Milano, 2019, 30; Sanzo S. - Burroni D., Il nuovo codice della crisi e dell'insolvenza, Bologna, 2019; Stanghellini L., Il codice della crisi di impresa: una primissima lettura (con qualche critica), in Corr. Giur., 2019, 453 ss.; Zorzi A., Piani di risanamento e accordi di ristrutturazione nel codice della crisi, in Fall., 2019, 998 e ss.), non ha potuto fare a meno di intervenire anche in ordine agli accordi di ristrutturazione dei debiti, estendendone l'applicazione anche all'imprenditore non commerciale (dunque anche l'imprenditore agricolo e le start up innovative) e a quello diverso dall'imprenditore minore, ma richiamando pressoché integralmente il modello ordinario degli accordi previsti dall'art. 182 bis l. fall.

Il nuovo “Codice” generalizza il modello della "efficacia esterna" con l'estensione anche ai creditori non aderenti “che appartengano alla medesima categoria, individuata tenuto conto della omogeneità di posizione giuridica e interessi economici" (art. 61 d.lgs. n. 14/2019). Il che significa, si ribadisce, che non si ha più riguardo solo ad una tipologia di creditori (banche ed intermediari finanziari), ma, con un criterio ben più ampio, "alla omogeneità della posizione giuridica e degli interessi economici dei creditori". La deroga agli artt. 1372 e 1411 c.c. è espressamente declamata (art. 61 d.lgs. n. 14/2019).

Ma ciò comporta abbandono del tradizionale principio civilistico "della relatività" degli accordi (art. 1372 c.c.), in ragione di una regolazione che privilegia l'interesse dei creditori, considerati "nella dimensione collettiva" della omogeneità della loro posizione e interessi. E ciò comporta che, a fronte dell'impresa insolvente, più non vi sono creditori riguardati uti singuli, ma creditori aventi "posizioni omogenee". Il che dovrebbe più agevolmente consentire che si possa procedere ad una operazione di ristrutturazione dei debiti perché raffrontati a posizioni e interessi “omogenei”.

La normativa introdotta dal d.lgs. n. 14/2019 è diretta ad accentuare ancor di più il valore "del piano" predisposto dal debitore perché stabilisce che sia esso a regolare, pur sempre per la sua durata, il rapporto debito - credito, così consentendo che, ove intervengano modifiche sostanziali del piano, occorrerà rinnovare l'attestazione di cui all'art. 57 del decreto, nonché le manifestazioni di consenso dei creditori, parti degli accordi (art. 58 d.lgs. n. 14/2019) .

Il che significa che il percorso normativo non è limitato alla proposta del debitore e al consenso dei creditori, ma è ad efficacia, per così dire, continuata e differita, per la durata "del piano" predisposto dal debitore.

L'esame infine del decreto non può non completarsi con la previsione dei c.d. accordi di ristrutturazione agevolati, previsti dall'art. 60 d.lgs. n. 14/2019, in ordine ai quali l'agevolazione è condizionata alla non applicazione della moratoria ai creditori estranei agli accordi e alla rinuncia a chiedere misure protettive temporanee.

Dunque, il decreto di cui è parola sembra voler potenziare l'efficacia degli accordi di ristrutturazione, non solo allargandone la estensione (anche ai non aderenti) ma riducendo, nel caso di accordi agevolati (art. 60), la percentuale maggioritaria richiesta per la loro introduzione (metà del 60%), ove risulti meglio garantita la posizione dei creditori estranei agli accordi rispetto all'eventualità di dover subire una moratoria nella loro soddisfazione o una misura protettiva temporanea.

Conclusioni

A questo punto è possibile tentare di qualificare gli accordi di ristrutturazione dei debiti, così come si sono venuti evolvendo.

E' necessario allo scopo aver presenti taluni punti fermi. E cioè che negli accordi di cui è parola, sia nella loro versione ordinaria, prevista dall'art. 182 bis l.fall., come in quella più fortemente tipizzata dell'art. 182 septies l.fall., e con le modifiche significative introdotte dal d.lgs. n. 14/2019, la normativa non fornisce che una identificazione "di contenuto". Essi hanno riguardo, sic et simpliciter, ad una operazione di "ristrutturazione dei debiti". Ma dell'iter procedurale che ne anticipa ed accompagna la conclusione, così come dei più particolari aspetti ed elementi della c.d. "strutturazione", non v'è alcuna parola.

Sembra di poter capire che anch'essi vengano preceduti "da trattative", così come accade per la conclusione di ogni contratto. Anzi, dell'obbligo di tali trattative e dei doveri informativi forniti ad ogni singolo creditore è fatta esplicita menzione nella normativa, a tal punto che, almeno ove trattasi dell'estensione di tali accordi anche ai creditori non aderenti, l'informazione da dare anche ad essi è condizione di efficacia dell'estensione degli accordi nei loro confronti (art. 182 septies l.fall.).

La normativa, come si è detto, si limita a definirne genericamente il contenuto come di accordi aventi ad oggetto "la ristrutturazione dei debiti", facendo uso di una espressione del linguaggio aziendale, più che giuridico. Tale indicazione, se giova a far riferimento ad una attività destinata a "rimodulare" il complessivo rapporto che intercorre tra il debitore e i creditori, ridefinendone oggetto e modalità di adempimento nonché garanzie che vengono a presidiare il rapporto debitorio, nulla dice sulle forme concrete che tale ristrutturazione può assumere.

Si è parlato in dottrina di "causa unitaria" e/o meglio "di un univoco atto a struttura plurilaterale con causa unitaria" (cfr. Fauceglia G., L'accordo di ristrutturazione, cit., 728), richiamando il contratto plurilaterale con comunione di scopo.

In giurisprudenza è invece più corrente la tesi che si tratti di contratto bilaterale plurisoggettivo con causa unitaria.

Per meglio concentrare la problematica sui dati che ci appaiono essenziali per la qualificazione degli accordi di cui è causa, è anzitutto il caso di liberare la problematica da elementi che possono apparire ad essa impropri.

Il richiamo ad es. al concetto "di causa", così come ha luogo per ogni contratto (art. 1325 c.c.), sia esso tipico o atipico, appare inutile.

In realtà, la circostanza che tali accordi siano espressamente previsti nel particolare contesto di strumenti negoziali, in sede extragiudiziale, destinati a governare la crisi in cui versa il debitore, con la prospettiva di evitare il fallimento (v. Titolo III legge fall.) ed oggi meglio specificati dal d.lgs. n. 14/2019 come "Strumenti negoziali stragiudiziali" di regolazione della crisi (v. Titolo IV d.lgs. n. 14/2019), non rende più necessario che di tali accordi si vada alla ricerca di un supporto causale, come ha luogo per ogni contratto. Siamo a fronte ad accordi, pienamente contestualizzati in un regime speciale che caratterizza l'impresa in crisi, specie ora in presenza di una normativa, che non è più concentrata sulla liquidazione giudiziale del patrimonio del debitore ma si ripropone lo scopo di regolare la crisi di impresa, sin dal suo inizio, anche in forme "assistite".

Chiedersi dunque se gli accordi di ristrutturazione debbano o meno avere una causa, è domanda che in sostanza sembra ignorare "il contesto" in cui essi sono collocati. Ancora più artificioso è concludere nel senso che la causa di essi possa essere lo stesso oggetto che contribuisce ad identificarli, quale cioè la ristrutturazione dei debiti.

Ma il vero è che, se siffatti accordi sono già di per sé "causalizzati" e/o meglio "contestualizzati" per le considerazioni fatte, essi tuttavia non si sottraggono all'esigenza di doverli qualificare nella tipologia dei possibili accordi o contratti che si conoscono.

E già una prima risposta può essere data, nel senso che essi sembrano sottrarsi a quel profilo "di conflittualità" che, com'è noto, è proprio di ogni contratto, sia bilaterale che plurilaterale.

Non è un caso che la stessa legislazione abbia usato l'espressione più propria di "accordi". Se anche il contratto è un accordo, ben diverso è l'accordo cui si giunge a partire da una proposta del debitore, che deve essere assentita dai creditori, e che ha come scopo una ri-definizione del rapporto di debito - credito tra di essi. Può non essere improprio richiamare il concetto di "comunione di scopo", avendo appunto riguardo ad una situazione che non presenta un conflitto di interessi ma proprio il suo superamento attraverso una diversa definizione del rapporto di debito - credito tra i soggetti di esso, attivi e passivi.

Ma in ciò anche la qualifica di contratto "plurilaterale" può apparire impropria. Essa allude, per definizione, ad un contratto caratterizzato da una comunione di scopo ma "con prestazioni diverse" a carico di ciascuna delle parti (come nel contratto di società dati i diversi conferimenti dei soci), così da doversi porre il problema, laddove fosse nullo il vincolo di una delle parti, se debba o meno dichiararsi nullo l'intero contratto (art. 1420 c.c.).

Ebbene, tale problematica è del tutto assente per gli accordi di ristrutturazione, in ordine ai quali non sono ipotizzabili "prestazioni" a carico del debitore o di ciascun creditore, ma soltanto il comune intento avente ad oggetto una diversa ridefinizione del rapporto di debito - credito.

Il vero è che, andando veramente a verificare l'oggetto degli accordi di ristrutturazione e la mancanza in essi di ogni profilo di conflittualità, tale da richiamare lo schema del contratto bilaterale, nel quale da una parte v'è il debitore proponente e dall'altra il ceto creditorio (magari in percentuale), si rischia di applicare un profilo di contrattualità, che sempre presuppone posizioni contrapposte, ad un accordo, che, invece, si basa non già sulla contrapposizione di posizioni, che il contratto ha lo scopo di conciliare, bensì - si ribadisce - sul comune obiettivo di fornire una rimodulazione del rapporto debito - credito.

Ed è a tal punto che occorre anche specificare come ha luogo tale rimodulazione. Essa, si può dire, non fa capo ad effetti immediati o diretti, quali l'assunzione di obblighi e/o il trasferimento di diritti, come per ogni contratto, sia esso ad effetti obbligatori o reali, bensì ha luogo più propriamente attraverso la predisposizione di regole o criteri, destinati, si è detto, a rimodulare il rapporto di debito - credito. Ed è in base alle regole e criteri, così enunciati negli accordi, che potranno poi prendere forma, quali atti attuativi di enunciazione di termini, rinunce, modalità di pagamento, cessioni, remissioni, assunzioni di garanzie, intervento di terzi assuntori e quant'altro. E' il campo dunque assai vasto dell'area di attuazione degli accordi, per il quale anche l'espressione "atti dovuti" sembra insufficiente.

Se è consentito proporre una qualificazione più propria di accordi non destinati “ad effetti immediati o diretti”, ma destinati ad operare su di un rapporto già esistente tra le parti e la cui diversa modulazione appare propedeutica a costituire risposta alla crisi dell'impresa, si può richiamare la categoria degli accordi normativi, cioè degli accordi fonti di regole (più che di effetti), da valere tra le parti e/o meglio (di fonti) di regole di comportamento, come tali pienamente vincolanti e bisognose tuttavia di essere verificate ed attuate attraverso atti successivi. La causa più prossima di tali secondi è nello stesso potere di autonomia delle parti, debitrici e creditrici, che, così come hanno dato vita a suo tempo al rapporto debitorio, sono in grado di diversamente definirlo in un contesto, che non è quello del tradizionale conflitto di interessi, proprio di ogni contratto, ma dell'obiettivo di superare la crisi del comune debitore attraverso strumenti negoziali che, per mezzo della ridefinizione del rapporto debito - credito, abbiano a risolvere la crisi del debito.

Del resto, giova osservare che già il rapporto di debito - credito, su cui interviene la ristrutturazione in via diretta, è un rapporto regolato da norme, onde alle norme di esso vanno aggiunte altre norme, che meglio ne ridefiniscano, nel caso di specie, entità e modalità, sì da giustificarne il piano attuativo. Ma ciò è il segno che si è fuori da un normale contratto, bilaterale o plurilaterale, fonte di effetti immediati, siano essi obbligatori o reali, trattandosi più propriamente dell'instaurazione di un diverso regime normativo (di modulazione) del rapporto, che va a costituire il percorso verso la soluzione della crisi dell'impresa insolvente.

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