Riforma processo civile: la riforma Cartabia ai blocchi di partenza

Mauro Di Marzio
19 Maggio 2021

Il presente contributo esamina l'articolato del disegno di legge destinato a curare i mali della giustizia civile, per lo più frutto del lavoro indefesso di un'apposita commissione ministeriale, svolto in vista, si badi, dell'accesso del Paese al recovery plan.

Che dire. La Ministra somministra una tiepida minestra. È sul tavolo l'articolato della legge delega destinata a curare i mali della giustizia civile, per lo più frutto del lavoro indefesso di un'apposita commissione ministeriale, svolto in vista, si badi, dell'accesso del Paese al recovery plan. Il punto è proprio qui. Poco male, se non ci fosse questo piccolo particolare, e cioè se l'Europa non ci chiedesse una giustizia civile che funziona ai fini dell'accesso ai fondi del recovery plan, la qual cosa sta a significare che la qualità, per lo più eufemisticamente discutibile, del progetto di cui brevemente daremo conto potrebbe far perdere all'Italia un paio di centinaia di miliardi di euro: se non fosse per questo, la giustizia civile funziona male, forse ha sempre funzionato male, e non è una gran notizia constatare che continuerà a funzionare male, se non peggio.

Risoluzione alternativa delle controversie. Vi è, nell'articolato, una densa trattazione riservata a mediazione e negoziazione assistita, tutta intesa ad ampliare il rilievo delle c.d. ADR. Ora, tutti i lettori sanno che gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie hanno fatto miracoli, in questi ultimi anni, determinando una poderosa riduzione del contenzioso pendente dinanzi ai diversi uffici giudiziari. Il mondo degli avvocati ne è entusiasta, il pubblico dei litiganti vi accede con piacere e con sollievo. La scelta di puntare in misura significativa sulle ADR, per risolvere i mali della giustizia civile, non può che essere salutata con estremo favore. Solo per chi non fosse esperto di figure retoriche dirò che quella che precede si chiama antifrasi. E con la speranza che i tecnici europei chiamati a scrutinare il progetto abbocchino all'amo.

Fase introduttiva del giudizio civile ordinario. Viene indurito il sistema delle preclusioni, con un meccanismo di ghigliottina che viene anticipato e scatta già con gli atti introduttivi. Il lavoro degli avvocati, che già non è facilissimo, diverrà più difficile. I nostri giudici faranno della ghigliottina un uso da fare invidia al Terrore: se, del resto, per l'ennesima volta, il legislatore non interviene dal versante delle «entrate», il numero delle cause che vengono introdotte, ma solo da quello delle «uscite», il numero di cause che il giudice riesce a definire, sarà giocoforza che l'indurimento delle preclusioni venga impiegato come una falce. C'è da dire che l'articolato prevede «che la contumacia ritualmente verificata del convenuto determina la non contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda ove la stessa verta in materia di diritti disponibili». Personalmente sono dell'opinione che questa novità non sia malaccio: c'è in altri paesi civili in cui la giustizia funziona, per esempio l'Inghilterra, e fa giustizia di un ipergarantismo un po' ottuso, quale quello che tratta il convenuto che si sia costituito, che deve fare contestazioni specifiche per non incorrere nella tagliola della «non contestazione», meglio di quanto non tratti il convenuto contumace, che, ad oggi, della «non contestazione» si ride. Dopodiché, dalla fase introduttiva si può passare senza soluzione di continuità alla fase decisoria. In prima udienza il giudice può «su istanza di parte, pronunciare ordinanza provvisoria di rigetto della domanda proposta, quando quest'ultima è manifestamente infondata ovvero se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito stabilito dall'art. 163, comma 3, numero 3), del codice di procedura civile ovvero se manca l'esposizione dei fatti di cui al numero 4) del predetto terzo comma». Qui occorrerebbero considerazioni approfondite, che non mancherà occasione di fare. Certo stride il ceffone assestato all'art. 164 c.p.c., il cui senso è che, se l'atto è carente dal versante dell'editio actionis, il giudice deve intervenire per rappezzare la situazione, perché lo scopo del processo è arrivare ad una decisione di merito, non ad una decisione in rito. Insomma, nel complesso buio totale: un regime di preclusioni troppo duro produce un effetto ovvio, e cioè dà luogo a decisioni tendenzialmente poco aderenti alla realtà dei fatti, nonché, ineluttabilmente, a molte decisioni di tipo processuale. E cioè le parti si troveranno infine a leggere sovente una sentenza, o un'ordinanza, che discetterà su temi procedurali, ma ometterà di dire chi ha ragione e chi ha torto. Un capolavoro, nell'ottica del funzionamento della giustizia civile.

Fase decisoria. L'intervento si riduce a robetta. Viene stabilito che la sentenza ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c. non deve essere letta in udienza ma può essere depositata successivamente. Una rivoluzione.

Rito sommario di cognizione. Qui siamo all'opera d'arte. È cosa nota che fosse intento del precedente Ministro, Bonafede, promuovere il rito sommario di cognizione, facendone il rito ordinario. L'attuale Ministra, pur lombarda di nascita, opta invece per una soluzione tutta napoletana, all'insegna del «facite ammuina» (se ci fosse qualcuno che non sa di cosa si tratti, ne troverà rapidamente riscontro nella rete). L'articolato prevede difatti «che il procedimento previsto dagli art. 702-bis e seguenti del codice di procedura civile: 1) sia sistematicamente collocato nel libro II del codice di procedura civile; 2) assuma la denominazione di “procedimento semplificato di cognizione”». Insomma il procedimento che nel codice stava convocato là, viene spostato qua. Dopodiché, il procedimento è potenziato e ne è ampliato l'ambito d'applicazione. È previsto che si concluda non più con ordinanza, ma con sentenza. Che senso possa mai avere collocare un procedimento deformalizzato, quale quello previsto dall'attuale art. 702-bis c.p.c., accanto ad un procedimento a preclusioni anticipate al momento degli atti introduttivi, non è facile capire.

Ordinanza provvisoria di accoglimento. In materia di diritti disponibili il giudice può, «su istanza di parte, pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda proposta, quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate». È insomma una previsione speculare a quella del rigetto immediato. La pronuncia dell'ordinanza innescherà il meccanismo del reclamo cautelare. Difficile credere che tale ordinanza possa avere un gran successo. Si potrebbe provare a stabilire, tra il serio ed il faceto, la regola che tale ordinanza, per il giudice, fa due punti di statistica, a fronte della sentenza che ne fa solo uno. Certo, nel procedimento si innesta un subprocedimento che ne allunga i tempi.

Appello. Si rende più pressante l'esigenza di specificità dei motivi di appello, ai sensi dell'art. 342 c.p.c. Si mantiene in vita, con modificazioni tutto sommato trascurabili, il congegno dell'art. 348-bis-ter c.p.c.: se l'appello non ha probabilità di accoglimento è dichiarato non più inammissibile, ma manifestamente infondato. Gli avvocati e i giudici, dall'uno e dall'altro versante del banco, scioccati dall'innovazione, balleranno ebbri di felicità. Si aggiunge un ulteriore giro di vite sul rilascio della sospensiva in appello. Ritorna in vita, come Lazzaro, il consigliere istruttore. Si restringe il campo di applicazione della rimessione al primo giudice.

Cassazione. Questa è la parte peggiore di tutto il pacchetto. Si procede sulla linea che potremmo dire della «tribunalizzazione» della Cassazione. Viene abolita la cosiddetta sesta sezione, e l'attuale procedimento di sesta viene spostato presso le singole sezioni semplici, che decidono, quando tutto va bene, con «ordinanza, succintamente motivata». Ora, che senso può mai avere interpellare la Corte di cassazione per avere ordinanze succintamente motivate rimane un mistero. Non sarebbe il caso di abrogare allora l'art. 65 dell'ordinamento giudiziario, laddove stabilisce che la Corte di cassazione (nella norma si parla di Suprema, ma forse è meglio lasciar perdere) assicura l'esatta osservanza e l'uniforme interpretazione, il diritto oggettivo nazionale? Facciamo del cassazionista un cottimista, chi scrive più provvedimenti, anche da far invidia al peggior Ungaretti, vince il premio del consigliere dell'anno. E badate bene, il procedimento che si conclude con cotale ordinanza succintamente motivata è quello, tra i camerali, che ha l'esito più approfondito, perché poi c'è «un procedimento accelerato, rispetto alla ordinaria sede camerale, per la definizione dei ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente fondati o infondati»: in questo caso il consigliere fa una proposta che è comunicata alle parti e «se nessuna delle parti chiede la fissazione della camera di consiglio» tutto finisce lì. Altra novità totalmente deleteria: è previsto che il giudice di merito, quando ha una questione di diritto nuova, ne devolve la decisione alla Corte di cassazione. Nell'idea c'è anche qualcosa di buono, in fondo, ma l'attuazione è pessima. La Corte in questo modo viene trasformata da organo supremo della giustizia, secondo l'aulica formulazione dell'ordinamento giudiziario, in un ufficio di consulenza legale. Il carico di lavoro della Corte di cassazione aumenterà, grazie ai giudici di merito che avranno la bontà di far fare ad altri il lavoro che dovrebbero fare loro. Il tempo del giudizio di merito si allungherà enormemente. Sembra che Stephen King stia prendendo spunto dal progetto per il suo nuovo romanzo. Nemmeno la previsione di un limite all'estensione degli atti, limite che invece normativamente previsto dal 2012 per il Consiglio di Stato, è stato inserito: e quello, davvero, era il minimo sindacale di un intervento sensato sulla Corte di cassazione.

A questo punto, se possibile, vorrei solo per un attimo essere serio. Mi trovo come consigliere della prima sezione civile della Corte di cassazione ad occuparmi, tanto per fare un esempio, dei riconoscimenti di sentenze straniere: sentenze che il vincitore ha ottenuto in Paesi prossimi al nostro in tempi brevissimi, a volte non anni ma mesi, mentre il procedimento di riconoscimento (uso ora il vocabolo in senso atecnico, non è questo il punto) dura anni e anni. Io mi vergogno. Non voglio fare paragoni irriverenti, né rivendicare alla giustizia civile una pari importanza, che non ha, ma credo che una simile vergogna l'abbiano provata i medici che nei primi mesi della pandemia non avevano mascherine, non avevano ossigeno, non avevano sufficienti posti letto, e vedevano i malati morire senza poter fare nulla. Non è possibile che non si riesca a comprendere che se non funziona la Corte di cassazione, anzi la Suprema Corte di cassazione, nel suo scopo istituzionale, la giustizia civile non può funzionare.

Ma torniamo subito ad un tono più leggero. Per un verso possiamo gioire di questo progetto di riforma. Tante norme vengono modificate, per comprenderne il significato e la portata applicativa occorreranno anni. Le riviste giuridiche non possono che rallegrarsi. Noi de ilprocessocivile.it aumenteremo il numero, già non indifferente, di abbonati. Speriamo soltanto che i tecnici di Bruxelles di funzionamento della giustizia civile ne capiscano poco, e che il progetto della Ministra non ci faccia perdere i denari del recovery plan.

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