I rapporti tra corruzione per l'esercizio della funzione e corruzione propria nel caso Palamara
20 Maggio 2021
Massima
In materia di corruzione, la configurabilità di uno o di plurimi reati dipende dalle pattuizioni, non assumendo rilievo né gli atti da compiere né le dazioni, ove le stesse siano riconducibili alla medesima fonte. Ove non sia accertato il contenuto del patto corruttivo, e pur in presenza di sistematiche dazioni da parte del privato in favore del pubblico agente, la condotta deve essere ricondotta nell'ambito della corruzione per l'esercizio della funzione ex art. 318 c.p., occorrendo al contrario la rigorosa determinazione del contenuto delle obbligazioni assunte dal pubblico funzionario esclusivamente nella diversa e più grave fattispecie della corruzione propria ex art. 319 c.p. Il caso
La nota vicenda posta all'attenzione del G.u.p. di Perugia riguarda la presunta intesa corruttiva asseritamente intercorsa tra l'imprenditore Fabrizio Centofanti e Luca Palamara, già sostituto procuratore presso la Procura di Roma ed esponente di spicco dell'ANM sino al settembre 2014, nonché successivamente componente del CSM e magistrato fuori ruolo. Palamara, in particolare, è accusato di aver asservito le sue funzioni agli interessi privati del Centofanti, integrando così gli estremi della fattispecie di corruzione perl'esercizio della funzione (art. 318 c.p.); condotta che, secondo l'ipotesi accusatoria, sarebbe stata commessa dal 2013 al 30 luglio 2017. L'unicità del contestato fatto di corruzione si giustifica in quanto, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, non si hanno tanti delitti di corruzione quante sono le utilità corrisposte, dipendendo la pluralità dei reati dalla pluralità di pattuizioni (cfr. Cass., sez. VI, 4 maggio 2005, n. 33435). A fronte di tale asservimento, l'imprenditore avrebbe corrisposto all'oramai ex magistrato indebite utilità consistite, tra l'altro, in soggiorni con un'amica e i familiari, lavori edili presso l'abitazione della medesima conoscente nonché altre prestazioni a favore di quest'ultima. In altri termini, la Procura di Perugia accusa Palamara di essersi stabilmente messo a disposizione – a prescindere dal compimento di uno o più atti specifici contrari ai doveri d'ufficio – degli interessi privati di Centofanti, dietro la corresponsione di svariate utilità. Peraltro, nell'ambito dell'imputazione ex art. 318 c.p., il P.M. evidenzia la “capacità-disponibilità del dott. Palamara ad acquisire, anche tramite altri magistrati a lui legati da rapporti professionali e/o di amicizia, informazioni anche riservate sui procedimenti in corso”. Nondimeno, viene rilevata la presunta “capacità-disponibilità del dott. Palamara ad influenzare e/o determinare, anche per il tramite di rapporti con altri consiglieri del CSM e/o di altri colleghi, le nomine consiliari e le decisioni della Sezione Disciplinare del medesimo organo”. In via suppletiva, il P.M. contesta a Palamara altre due ipotesi accusatorie, riferite ai delitti di cui agli artt. 319 (corruzione per un atto contrario ai doveri dell'ufficio) e 319-ter c.p. (corruzione in atti giudiziari). Nel dettaglio, viene imputato al dott. Palamara – in qualità di consigliere del Csm – di avere acquisito e divulgato nonché rivelato a Fabrizio Centofanti, e per suo tramite agli avvocati Pietro Amara e Giuseppe Calafiore, informazioni riservate su procedimenti penali di Roma e Messina nei quali gli stessi erano indagati, al fine di favorirli. Inoltre, si contesta allo stesso Palamara, nella veste di membro del Csm, “di aver incontrato il dott. Longo, su richiesta di Fabrizio Centofanti che veicolava un interesse dell'avv. Amara, promettendogli appoggio per la sua carriera professionale e per l'ottenimento di incarichi di rilievo; nonché di aver interferito, nella medesima veste, nel procedimento disciplinare del dott. Bisogni, inviso all'avv. Amara e al dott. Longo, anche in questo caso su richiesta del Centofanti”. La questione
L'ordinanza in commento è stata pronunciata per risolvere talune eccezioni preliminari sollevate dalla difesa dell'imputato. In particolare, le questioni giuridiche più significative affrontate dalla decisione del G.u.p. sono le seguenti: - la competenza funzionale ex art. 11 c.p.p. del Tribunale di Perugia; - la distinzione tra fatto nuovo e fatto diverso ai fini delle contestazioni precisate successivamente alla richiesta di rinvio a giudizio. In questo senso, infatti, la difesa dell'imputato ha eccepito, in relazione all'art. 423, comma 2, c.p.p., la genericità, indeterminatezza e novità delle imputazioni di corruzione ex art. 318 c.p., corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio ex art. 319 c.p. e di corruzione in atti giudiziari ex art. art. 319-ter c.p., così come integrate e precisate dal p.m. in epoca successiva alla richiesta di rinvio a giudizio; - la legittimazione alla costituzione di parte civile del Ministero della Giustizia, in relazione alle imputazioni per corruzione, nei confronti di magistrati fuori ruolo componenti del Csm. Le soluzioni giuridiche
La corposa ordinanza del G.u.p. di Perugia affronta, come accennato, plurime problematiche processuali e sostanziali. Di seguito verrà data una sintetica lettura dei passaggi argomentativi che pongono soluzione alle questioni sopra evidenziate, al fine di approfondire con maggiore esaustività la problematica dei rapporti tra le fattispecie di corruzione funzionale (art. 318 c.p.) e di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio (art. 319 c.p.).
In ordine al profilo della competenza tabellare ex art. 11 c.p.p., le difese degli imputati hanno eccepito, facendo leva sulla qualifica di magistrato fuori ruolo rivestita da Palamara al momento dei fatti corruttivi contestati, la competenza funzionale del Tribunale di Trapani ai sensi degli artt. 8, comma 3, e 16, comma 1, c.p.p. Secondo tale prospettazione, infatti, il luogo di consumazione del reato permanente di corruzione richiederebbe la competenza del giudice del luogo di inizio della consumazione (nella fattispecie individuabile a Favignana). Sul punto, l'ordinanza in commento richiama il solido indirizzo giurisprudenziale secondo cui il reato di corruzione si perfeziona “alternativamente con l'accettazione della promessa ovvero con la dazione – ricezione dell'utilità e, tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione – ricezione, è solo in tale ultimo momento che approfondendosi l'offesa tipica, il reato viene a consumazione” (Cass. pen., Sez. Un., 25 febbraio 2010, n. 15208; cfr. Cass. pen., sez. VI, 1 dicembre 2016, n. 4105). Ne consegue che, in caso di plurime dazioni riconducibili alla medesima fonte, il reato corruttivo si consuma nel tempo e nel luogo dell'ultima di esse (cfr. Cass. pen., sez. VI, 2 luglio 2018, n. 40347). Per tali ragioni, il G.u.p. di Perugia evidenzia che l'ontologica diversità tra reato permanente e consecutio che dà luogo a progressione criminosa tra accordo corruttivo e successive dazioni determina l'applicazione della regola di cui al primo comma dell'art. 8 c.p.p. (e non quella, paventata dalla difesa, di cui al terzo comma del medesimo articolo). Su tale linea interpretativa, si pone il principio secondo cui non si realizzano tanti reati quante sono le dazioni, ma un unico reato la cui consumazione comincia con la prima e si protrae nel tempo sino all'ultima (cfr. Cass. pen., sez. VI, 25 settembre 2014, n. 49226; Cass. pen., sez. VI, 27 novembre 2015, n. 3043). Nel caso di specie, applicando tali coordinate ermeneutiche, il luogo di consumazione del reato deve individuarsi in Roma, alla data del 30 luglio 2017 (epoca dell'asserita ricezione dell'ultima utilità). Peraltro, ai fini dell'art. 11 c.p.p., è significativo ribadire che ciò che rileva è la circostanza che un magistrato eserciti le proprie funzioni all'atto della formale assunzione della qualità di indagato per quei fatti. Il dott. Palamara, rientrato nel ruolo organico della Procura di Roma nel 2018, risulta essere stato iscritto nel registro delle persone sottoposte ad indagini della Procura di Perugia nel gennaio 2019. Tanto esposto, ai sensi dell'art. 11 c.p.p., è stata correttamente ravvisata la competenza funzionale del Tribunale di Perugia.
Di qui, la pronuncia in commento passa ad esaminare la sollevata questione attinente alla genericità e novità delle imputazioni di corruzione,così come riformulate in epoca successiva alla richiesta di rinvio a giudizio. Sul punto, basti sottolineare che il Giudicante, diversamente da quanto ritenuto dalla difesa, non ha ravvisato nelle precisazioni delle contestazioni ex artt. 318, 319 e 319-ter c.p. alcuna enunciazione di fatti nuovi ai sensi dell'art. 423, comma 2, c.p.p.. Nella vicenda Palamara, cioè, non sarebbe possibile mettere in dubbio la chiarezza e la precisione delle accuse mosse dalla Procura di Perugia, assunto che per soddisfare i menzionati requisiti processualistici “non ci si deve riferire solo al capo di imputazione in senso stretto, ma occorre anche considerare quegli atti, inseriti nel fascicolo processuale, che pongono l'imputato nelle condizioni di avere contezza in modo più ampio dell'addebito” (Cass. pen., sez. III, 23 novembre 2020, n. 9910). A tal proposito, peraltro, viene enunciato un passaggio giuridico di particolare interesse, attinente ai rapporti tra la figura della corruzione propria ex art. 319 c.p. e della corruzione per l'esercizio della funzione ex art. 318 c.p. Ponendosi in linea di continuità con quanto affermato dalla Sesta Sezione della Corte di cassazione nella sentenza sul caso “mafia capitale” (Cass. pen., sez. VI, 22 ottobre 2019-12 giugno 2020, n. 18125), il G.u.p. di Perugia sostiene che “ciò che accomuna le fattispecie di cui agli artt. 318 e 319 c.p. è il divieto di “presa in carico” d'interessi differenti da quelli che la legge persegue attraverso il pubblico agente; nella corruzione propria detta presa in carico riguarda e si manifesta con il compimento di un atto contrario, dunque con un atto specifico; nella corruzione per l'esercizio della funzione, invece, la “presa in carico” realizza un inquinamento di base, un asservimento diffusivo che ha la capacità di propagarsi in futuro, in modo non preventivo e non preventivabile rispetto al momento della conclusione del patto corruttivo”. In questi termini, la fattispecie di corruzione funzionale, sanzionando “la violazione del principio rivolto al pubblico funzionario di non ricevere denaro o altre utilità in ragione della funzione pubblica esercitata e, specularmente, al privato di non corrisponderglieli”, ha natura di reato di pericolo. Si ritiene cioè che l'art. 318 c.p.puniscal'accordo corruttivo – anche probatoriamente silente – tra il pubblico ufficiale e il privato. Conseguentemente, al momento della contestazione del delitto ex art. 318 c.p. può anche non essere “individuabile nessuno specifico atto che il pubblico ufficiale si sia impegnato a compiere”; così come “è possibile che a fronte della dazione di denaro da parte del privato corruttore – anche con scadenze temporali fisse (es. una determinata somma al mese) – il pubblico ufficiale assuma solo l'impegno “di sorvegliare”, di “vigilare” che gli interessi del privato, presi indebitamente “in carico”, non siano danneggiati nel corso del procedimento amministrativo”. Secondo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, quindi, non v'è difetto di imputazione allorquando, in sede di contestazione del reato di corruzione funzionale, non venga descritto l'oggetto del patto corruttivo, essendo tale evenienza fisiologicamente rientrante nel perimetro del fatto tipico della corruzione per l'esercizio della funzione. Più precisamente, non è ravvisabile alcuna incertezza sulla imputazione quando il fatto sia contestato nei suoi elementi strutturali e sostanziali, in modo da consentire all'imputato di difendersi. In definitiva, in relazione al reato ex art. 318 c.p. non è necessaria un'indicazione rigorosa e dettagliata dell'oggetto della contestazione (cfr. Cass. pen., sez. V, 19 novembre 2017, n. 10033; Cass. pen., sez. V, 5 novembre 2014, n. 51248; Cass. pen., sez. V, 18 ottobre 2013, n. 6335; Cass. pen., sez. II, 27 marzo 2008, n. 16817). Diversamente, la prospettazione della più grave fattispecie di corruzione per un atto contrario ai doveri dell'ufficio (art. 319 c.p.) richiede la rigorosa determinazione del contenuto delle obbligazioni assunte dal pubblico ufficiale. Per queste ragioni, la pronuncia in commento ha respinto le eccezioni di genericità, indeterminatezza e novità delle imputazioni ex artt. 318, 319, 319-quater c.p. formulate dal P.M. nei confronti degli imputati.
Da ultimo, un breve cenno sulla legittimazione alla costituzione di parte civile del Ministero della Giustizia, in relazione alle imputazioni per corruzione, nei confronti di magistrati fuori ruolo componenti del Csm. L'ordinanza ritiene sussistente tale legittimazione, individuando i profili di danno – patrimoniale, d'immagine e alle sue attribuzioni costituzionali – che il mercimonio della funzione consiliare determina nei confronti del Ministero della Giustizia. Viene poi ricordato che le funzioni attribuite al Csm dall'art. 105 Cost. in materia di status dei magistrati sono strumentali alla garanzia del fondamentale principio dell'autonomia e dell'indipendenza della magistratura. Attribuzioni che vengono ritenute collegate con quelle spettanti al Ministro della Giustizia ai sensi dell'art. 110 Cost. in materia di organizzazione e funzionamento dei servizi relativi alla giustizia (cfr. Corte cost. n. 379/1992, in cui si è sottolineato il “rapporto di collaborazione” tra Csm e Ministero della Giustizia. Nell'ottica dell'interesse pubblico, il Csm quando esercita i poteri riguardanti provvedimenti di stato di magistrati ex art. 105 Cost. deve tenere in considerazione gli interessi relativi all'organizzazione e al funzionamento dei servizi giudiziari, imputati al Ministro della Giustizia ai sensi dell'art. 110 Cost.). Ciò posto, l'ordinanza riconosce la legittimazione attiva del Ministro della Giustizia anche con riferimento al pericolo di lesione delle attribuzioni ministeriali ex artt. 107 e 110 Cost. Osservazioni
La vicenda processuale in esame interroga in particolar modo l'interprete sul contrastato rapporto tra corruzione funzionale e corruzione propria. Sul punto, al fine di approfondire le soluzioni fornite dal G.u.p. di Perugia, verrà di seguito fornita una breve ricostruzione che terrà conto dei più rilevanti interventi legislativi e giurisprudenziali.
Il reato di corruzione per l'esercizio della funzione è stato introdotto, come noto, nel 2012, con la l. n. 190/2012. L'ultima modifica è intervenuta ad opera della l. n. 3/2019, con cui è stata rideterminata, sia nel minimo che nel massimo, la cornice edittale, prevedendo la reclusione da tre a otto anni. Incremento, quest'ultimo, che si è accompagnato con l'aggravamento delle sanzioni accessorie del codice penale, attinenti all'interdizione dai pubblici uffici e all'incapacità di contrattare con la pubblica amministrazione, nonché delle sanzioni interdittive che il d.lgs. n. 231/2001 prevede a carico delle persone giuridiche. La Relazione di accompagnamento al disegno di legge cd. Spazza corrotti evidenzia che il potenziamento degli strumenti di contrasto ai fenomeni corruttivi «non può esaurirsi nell'inasprimento sanzionatorio, destinato a rimanere privo di effettività se non accompagnato da efficaci strumenti di prevenzione e di accertamento dei reati». Anche in quest'ottica, dunque, si pone la radicale modifica della disciplina della prescrizione, che contempla la sospensione sine die dopo la sentenza di primo grado.
Ancor prima della riforma del 2012, la dottrina ha posto in luce il «processo di progressiva rarefazione dell'atto di ufficio» (PELISSERO). Nella stessa ottica, la giurisprudenza di legittimità sosteneva, per la sussistenza del reato di corruzione propria, la non necessarietà dell'individuazione di uno specifico atto, essendo sufficiente che al momento del patto l'atto fosse individuato nel genere. Così facendo, cioè, il diritto vivente operava quello che è stato definito come “il passaggio dall'atto alla funzione”,ai fini di colmare un vuoto di tipicità e sanzionare gli episodi corruttivi più significativi, in cui il pubblico funzionario vende la propria funzione e si mette a disposizione del privato, servendo i suoi interessi. In questo modo, la corruzione propria era ritenuta sussistente nelle ipotesi di asservimento delle funzioni pubbliche al soddisfacimento di interessi privati, a prescindere dal compimento di uno specifico atto. Il cd. pactum sceleris, in questi casi, riguardava l'asservimento globale della funzione. Sulla base di queste linee ermeneutiche, la l. n. 190/2012, introdusse il delitto di induzione indebita (art. 319-quater c.p.), e riscrisse la fattispecie di cui all'art. 318 c.p., dedicata alla corruzione impropria, prevedendo una pena inferiore a quella prevista dall'art. 319 c.p. Preso atto delle intervenute modifiche, la Cassazione sostenne, ai fini dell'integrazione del reato di cui all'art. 319 c.p., la non necessarietà dell'individuazione di uno specifico atto contrario, in relazione al quale l'agente pubblico avesse ricevuto elargizioni non dovute, purché il suo comportamento evidenziasse un atteggiamento volto a svilire, in concreto, la pubblica funzione, violando i doveri di fedeltà, di imparzialità e di perseguimento esclusivo degli interessi pubblici (cfr. Cass. pen., sez. VI, 23 febbraio 2016, n. 15959; Cass. pen., sez. VI, 11 febbraio 2016, n. 8211; Cass. pen., sez. VI, 13 luglio 2018, n. 51765). Si notò, inoltre, l'irragionevolezza di una lettura del rapporto tra artt. 318 e 319 c.p. che legittimasse la punizione della “vendita della funzione”, che rappresenta la forma più grave di corruzione, in maniera meno grave (da uno a sei anni di reclusione, ora da tre a otto anni) rispetto a quanto previsto per la corruzione riferita ad un unico atto (da quattro ad otto anni di reclusione, ora da sei a dieci anni) [in questi termini, Cass. pen., sez. VI, 15 ottobre 2013, n. 9883, n. 258521].
Come si è anticipato, la modifica operata all'art. 318 c.p. dalla l. n. 3/2019 attiene al semplice incremento sanzionatorio. Per l'effetto, come visto poco sopra, l'entità della differenza edittale prevista per le figure di corruzione propria e funzionale risulta particolarmente ridimensionata rispetto al passato. Sul punto, “le obiezioni che evidenziavano una irragionevolezza del sistema che prevedeva per la corruzione funzionale una pena notevolmente inferiore rispetto alla corruzione propria, avente ad oggetto un singolo e specifico atto, sono destinate ad essere ridimensionate non solo perché le due fattispecie oggi contemplano livelli sanzionatori più omogenei, ma soprattutto perché la corruzione di cui all'art. 318 c.p., per quanto possa riferirsi a forme di corruzione per asservimento della funzione, è comunque destinata a punire quegli accordi funzionali a realizzare future condotte favorevoli con i soggetti interni alla pubblica amministrazione, senza che siano individuati specifici abusi collegati ad atti contrari ai doveri di ufficio” (FIDELBO). In questi termini, la giurisprudenza, ha evidenziato che mentre l'art. 318 c.p. prevede un reato di pericolo rispetto al bene dell'imparzialità dell'amministrazione (cfr. Cass. pen.,sez. VI, 11 dicembre 2018, n. 4486), la corruzione propria ex art. 319 c.p. contempla un reato di danno. Ciò posto, si pone il problema di chiarire la qualificazione delle ipotesi in cui il singolo atto contrario ai doveri d'ufficio sia solamente determinabile. Stimolata sul punto, la dottrina ha sottolineato la necessità di un accertamento del caso concreto, onde indagare se il patto corruttivo possa interpretarsi in funzione dell'individuazione di uno specifico atto, anche solo determinabile nel genere. In questa ipotesi, si è osservato, potrà configurarsi il più grave reato di corruzione propria.
Da ultimo, si noti che il reato di corruzione funzionale si può manifestare attraverso condotte dotate di gradi assai diversi di offensività: dai casi di corruzione impropria susseguente, ad episodi – ben più gravi – di corruzione per asservimento della funzione. A tal proposito si è criticamente osservata la scelta del legislatore di innalzare il minimo della cornice edittale della pena (da uno a tre anni) prevista dall'art. 318 c.p., tanto che alcune voci sono tornate ad auspicare la depenalizzazione della corruzione impropria susseguente (già proposta, prima del 2012, da BRICOLA, BALBI e SEMINARA). Infatti, nell'ottica del diritto penale inteso come extrema ratio, potrebbe rivelarsi più efficace proporre – per queste ultime fattispecie – sanzioni amministrative e, se del caso, interdittive a carico del pubblico funzionario. In ogni caso, l'eterogeneità di disvalore delle condotte riconducibili nel genus della corruzione per l'esercizio della funzione richiede un equilibrato e ragionevole apprezzamento da parte del Giudice, chiamato ad assicurare un proporzionato trattamento sanzionatorio, anche grazie all'applicazione delle circostanze rilevanti nel caso concreto. DOLCINI - VIGANÒ, Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. contemp., 2012; FIDELBO, La corruzione “funzionale” e il rapporto con la corruzione propria, in Giustizia Insieme, 14 maggio 2020; GAMBARDELLA, Il grande assente nella nuova legge spazzacorrotti: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, 61 ss.; PADOVANI, La spazzacorrotti. Riforma delle illusioni e illusioni della riforma, in Arch. pen. web, 2018 MANTOVANI, Il rafforzamento del contrasto alla corruzione, in Dir. pen. proc., 2019, 608 ss. |