Licenziamento per giustificato motivo oggettivo, onere della prova e obbligo di repêchage
28 Maggio 2021
Massima
In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, l'obbligo per il datore di lavoro di dimostrare l'impossibilità di adibire il dipendente da licenziare ad altri posti di lavoro rispetto a quello da sopprimere (cd. obbligo di "repêchage") è incompatibile con motivazioni strettamente collegate alla mera riduzione dei costi per il personale, in quanto il mantenimento in servizio del dipendente, seppure in altre mansioni, contrasterebbe con la predetta esigenza. Il caso
Licenziato per giustificato motivo oggettivo con lettera del 25.09.2014 dalla società Alfa, Tizio, operaio portuale di IV livello, proponeva ricorso ex art. 1, comma 47 ss. legge n. 92/2012, sostenendo che il recesso fosse illegittimo in ragione della mancata indicazione della motivazione posta a suo fondamento e della violazione dei principi di correttezza e buona fede nella scelta dei dipendenti da licenziare. Respinta la domanda all'esito della fase sommaria, essa trovava parziale accoglimento in sede d'opposizione, allorché il Tribunale di Palmi riteneva violati i predetti canoni perché il ricorrente, appartenente al IV livello, era stato selezionato in modo arbitrario insieme ad altri tre operai di VI livello in quanto considerato unità più costosa e in esubero. Proposto reclamo avverso la sentenza così adottata, la Corte di appello di Reggio Calabria confermava la decisione di prime cure sottolineando in sintesi che: a) il giustificato motivo addotto non era manifestamente insussistente perché la società aveva subito perdite negli anni 2012, 2013 e 2014 che giustificavano il numero dei licenziamenti intimati; b) le prove testimoniali raccolte, su richiesta della difesa del lavoratore, avevano dimostrato la vaghezza ed arbitrarietà dei criteri utilizzati per la scelta di licenziare il ricorrente; c) la misura della indennità risarcitoria fissata in venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto appariva congrua.
Tizio ha dunque proposto ricorso per cassazione sostenendo, per un verso, che la Corte d'appello avrebbe dovuto effettuare la valutazione sulla sussistenza del motivo di licenziamento sulla base degli elementi di fatto esistenti al momento della comunicazione del recesso, a nulla rilevando in particolare, quali elementi da cui dedurre il calo di fatturato, vicende extragiudiziali, alcune delle quali inesistenti al momento del licenziamento; per altro verso ha censurato la violazione e falsa applicazione delle norme di diritto di cui agli artt. 3 e 5 legge n. 604/1966 e dell'art. 18, comma 4 legge n. 300/1970, perché la Corte territoriale, attraverso un'indagine parziale, gli aveva negato la tutela reintegratoria debole, non considerando che la questione della impossibilità di ricollocare il lavoratore rientrava nella nozione di giustificato motivo oggettivo. Le questioni giuridiche
A fronte del predetto quadro, la pronuncia in commento, con sintetica ma incisiva motivazione, ha affrontato due questioni.
Da un lato, si è occupata di indicare gli elementi suscettibili di valutazione ai fini della verifica della sussistenza delle ragioni organizzative poste dal datore di lavoro alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Dall'altro lato, ha fornito indicazioni rilevanti per perimetrare l'ambito dell'obbligo di repêchage di cui lo stesso datore di lavoro è onerato. Le soluzioni giuridiche
Rispetto alla prima questione, la Suprema Corte, dopo aver precisato che l'accertamento delle ragioni inerenti alle attività produttive che rendono impossibile impiegare il dipendente nella organizzazione aziendale, della cui prova è onerata la parte datoriale, va condotto avendo riguardo agli elementi di fatto sussistenti alla data della comunicazione del recesso, ha ritenuto corretta la valutazione della Corte territoriale che aveva considerato, allo scopo, rispetto ad un licenziamento adottato il 25.09.2014, non solo le scritture riferibili a quell'anno ma anche le perdite del fatturato degli anni 2012 e 2013, così estendendo l'esame ad un arco temporale idoneo a consentire una valutazione globale e diretta delle circostanze di fatto che avevano determinato la causa del recesso. Nello specifico, la Corte ha ritenuto che l'esame del bilancio consuntivo del 2014, l'irreversibilità del calo di fatturato, la situazione di crisi del settore portuale, l'accumulo di ore pagate e non lavorate e la circostanza di analoghi licenziamenti da parte di altre due società, che confermava la generale crisi economica, non integrasse, come opinato dal lavoratore, un indebito uso di vicende extragiudiziali ai fini del decidere, ma una corretta valutazione complessiva ed analitica di tutto il contesto probatorio rilevante.
Rispetto alla seconda questione, la Corte ha affermato che l'obbligo di repêchage è incompatibile con motivazioni strettamente collegate alla mera riduzione dei costi per il personale in quanto, in tal caso, il mantenimento in servizio del dipendente, seppure in altre mansioni, contrasterebbe con tale esigenza.
In conseguenza di ciò, ha escluso che esso possa ritenersi violato quando l'ipotetica ricollocazione del lavoratore nella compagine aziendale sia incompatibile con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale
Ha ritenuto dunque corretto il fatto che la pronuncia impugnata avesse limitato la sua valutazione al solo profilo della violazione dei criteri di scelta dei lavoratori, avendo riguardo alle mansioni espletate e avesse escluso la manifesta insussistenza delle ragioni economiche poste a fondamento del recesso, così riconoscendo esclusivamente l'indennità risarcitoria di cui all'art. 18, comma 5 e 7, legge n. 300/1970. Osservazioni
La pronuncia in commento offre nuove ed utili indicazioni per orientare la valutazione in ordine alla legittimità del giustificato motivo oggettivo.
Nel risolvere nei termini che precedono le questioni giuridiche coinvolte nella fattispecie, la Corte ha infatti fornito indicazioni rilevanti per perimetrare tanto l'ambito dei fatti rilevanti per accertare la sussistenza del motivo oggettivo posto alla base del recesso, quanto l'obbligo di repêchage in capo al datore di lavoro.
Sotto il primo profilo, la sentenza in esame ha preso le mosse da taluni precedenti di legittimità secondo cui il giudice, nell'indagine sulla sussistenza di un giustificato motivo oggettivo di licenziamento, non può rivolgere la sua attenzione, con formalistica valutazione, alla sola situazione aziendale esistente alla data del licenziamento, risultando per converso necessario, specie nelle situazioni connotate da maggiori margini d'incertezza, estendere l'accertamento ad un arco di tempo idoneo a svelare ogni eventuale predeterminazione di circostanze di fatto finalizzate ad un licenziamento effettuato al di fuori delle ipotesi consentite in caso di ristrutturazione aziendale (così Cass. n. 2810/2003 e Cass. n. 13116/2015).
Se in tali precedenti, oggetto d'espresso richiamo nella motivazione della decisione in commento, la Corte aveva indicato la necessità di allargare lo spettro temporale utile alla valutazione del recesso per verificare l'eventuale natura solo “apparente” della ristrutturazione aziendale, nel caso in esame l'allargamento di quello spettro viene suggerito in vista di una conferma delle difficoltà economiche allegate dal datore di lavoro; ciò ha condotto la Corte non solo a ritenere corretto il riferimento alle scritture contabili degli esercizi precedenti a quello in cui si è inserito il recesso, ma anche a considerare, quali dati confermativi della crisi dell'impresa, la crisi del settore entro cui questa opera, valorizzando allo scopo la circostanza, ritenuta non avulsa dai fatti rilevanti ai fini del decidere, che anche altre imprese appartenenti a quest'ultimo avessero proceduto al licenziamento di propri dipendenti.
Per quanto la valorizzazione di un elemento quale quello da ultimo menzionato vada correttamente intesa come utile a corroborare un impianto probatorio già solido e fondato su presupposti strettamente attinenti alla situazione interna dell'imprenditore recedente, la valutazione formulata dalla Corte segnala, in ogni caso, la necessità che il giudice, debitamente stimolato dalla parte datoriale, formuli una valutazione globale che consenta di verificare la sussistenza del motivo fondante il licenziamento in base ad un esame sostanziale dell'effettiva situazione fronteggiata dall'impresa, anche alla luce delle conferme eventualmente derivanti dall'apprezzamento del contesto economico di riferimento.
In merito all'adempimento dell'obbligo di repêchage, la decisione in esame si inserisce nel novero delle pronunce con cui la Corte, da ultimo, ha precisato la natura, gli aspetti probatori e i confini del predetto obbligo.
Invero, da una parte, la Corte ha ormai chiarito che l'impossibilità di reimpiego del lavoratore in mansioni diverse costituisce, unitamente alle ragioni economiche alla base del recesso, un presupposto necessario della tipologia di licenziamento in esame, trattandosi di un elemento che, inespresso a livello normativo, trova giustificazione sia nella tutela costituzionale del lavoro che nel carattere necessariamente effettivo e non pretestuoso della scelta datoriale (v., tra le altre, Cass. n. 24882/2017; Cass. n. 21715/2018), con la conseguenza che la nozione di “manifesta insussistenza del fatto” attiene anche all'impossibilità di ricollocazione del dipendente licenziato (cfr. Cass. n. 29102/2019).
Dall'altra parte, la giurisprudenza di legittimità, nel configurare la ripartizione degli oneri di allegazione e prova rispetto alla sussistenza di posti in cui ricollocare il lavoratore, ha significativamente mutato il proprio orientamento; se in passato, infatti, era solita esigere dal lavoratore una collaborazione nell'accertamento di un possibile repêchage, mediante l'allegazione dell'esistenza di quei posti e facendo conseguire a tale allegazione l'onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del lavoratore nei posti predetti (cfr. Cass. n 15157/2011, Cass. n 7474/2012; Cass. n. 9467/2016), l'attuale panorama giurisprudenziale ha espressamente superato quell'indirizzo, affermando che grava sul datore di lavoro l'onere di provare in giudizio che al momento del licenziamento non sussisteva alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l'espletamento di mansioni equivalenti e, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al dipendente, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale (Cass. n. 4509/2016; Cass. n. 23789/2019).
Attualmente, dunque, il lavoratore è esonerato dall'onere di allegazione attribuitogli in precedenza, fermo restando che qualora egli, in un contesto di accertata e grave crisi economica ed organizzativa dell'impresa, indichi le posizioni lavorative a suo avviso disponibili e queste risultino insussistenti, tale verifica può essere utilizzata dal giudice al fine di escludere la possibilità del predetto repêchage (Cass. n. 15401/2020).
Ne deriva un rafforzamento di quest'ultimo, tanto dal punto di vista delle conseguenze della sua violazione, quanto da quello relativo agli oneri di allegazione e prova, integralmente gravanti sulla parte datoriale.
Tuttavia, e corrispondentemente, la Suprema Corte ha però progressivamente bilanciato questi approdi con una rinnovata valorizzazione della discrezionalità imprenditoriale, e dell'assetto organizzativo che deriva dal suo esercizio, discendente dalla libertà di iniziativa economica consacrata nell'art. 41 Cost.
Per questa via, la Corte ha chiarito che l'interpretazione dell'art. 18, comma 7, legge n. 300/1970, nella parte in cui, a fronte della manifesta insussistenza del fatto posto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (come detto riguardante anche l'impossibilità di ricollocazione), stabilisce che il giudice “può” fare applicazione della tutela reale debole di cui al comma 4, impone un ulteriore vaglio giudiziale, il quale secondo la Corte, nel silenzio legislativo rispetto ai profili da valutare in vista della selezione del tipo di tutela, va orientato avendo riguardo ai principi generali forniti dall'ordinamento in materia di risarcimento del danno, e, in particolare, tenendo conto del concetto di eccessiva onerosità al quale il codice civile fa riferimento nel caso in cui il giudice ritenga di sostituire il risarcimento per equivalente alla reintegrazione in forma specifica. Individuato per quel tramite il parametro di riferimento per l'esercizio del potere discrezionale del giudice, questi potrà valutare se la tutela reintegratoria sia, al momento dell'adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa, sicché un'eventuale eccessiva onerosità del ripristino del rapporto di lavoro può consentire al giudice di optare - nonostante l'accertata manifesta insussistenza di uno dei due requisiti costitutivi del licenziamento e privilegiando le scelte adottate dall'impresa - per la tutela indennitaria (cfr. Cass. n. 10435/2018).
Quest'affermazione è del resto pienamente coerente con il fatto che la stessa valutazione relativa all'adempimento dell'obbligo di repêchage da parte del datore di lavoro deve confrontarsi con la coerenza del ricollocamento con le scelte organizzative da egli compiute; infatti, per ritenere non assolto quell'obbligo non è sufficiente l'ipotetica possibilità di ricollocazione lavorativa del soggetto, in quanto astrattamente utilizzabile come risorsa nell'attività propria dell'impresa, ma è necessario che la verifica della possibilità della sua utile ricollocazione lavorativa si confronti con il concreto assetto organizzativo stabilito dalla parte datoriale.
Così opinando, è stato ad esempio escluso che l'obbligo in esame potesse ritenersi violato in una vicenda in cui quella ricollocazione sarebbe stata possibile ma solo in posizioni che la Corte ha ritenuto irrilevanti in quanto generalmente ricoperte, con scelta imprenditoriale insindacabile, mediante l'assunzione di lavoratori stagionali (cfr. Cass., n. 21715/2018).
La pronuncia in esame, dunque, affermando che l'obbligo per il datore di lavoro di dimostrare l'impossibilità di adibire il dipendente da licenziare ad altri posti di lavoro rispetto a quello da sopprimere è incompatibile con motivazioni strettamente collegate alla mera riduzione dei costi per il personale, in quanto il mantenimento in servizio del dipendente, seppure in altre mansioni, contrasterebbe con la predetta esigenza, ribadisce il parametro (e il perimetro) invalicabile cui avere riguardo per bilanciare il diritto al mantenimento del posto di lavoro con la libertà datoriale di imprimere all'impresa, con scelta discrezionale insindacabile, l'indirizzo organizzativo ritenuto preferibile. |