Covid-19, divieto di licenziamento e illegittimità del recesso del datore di lavoro durante il periodo di prova

03 Giugno 2021

Con le sentenze in esame, il Tribunale di Milano ed il Tribunale di Roma sono stati chiamati a valutare la legittimità di alcuni licenziamenti irrogati in costanza del periodo di prova, nel contesto dell'emergenza epidemiologica da Covid-19. Alcune peculiari circostanze contraddistinguono le due distinte fattispecie.
I casi

Con le sentenze in esame, il Tribunale di Milano ed il Tribunale di Roma sono stati chiamati a valutare la legittimità di alcuni licenziamenti irrogati in costanza del periodo di prova, nel contesto dell'emergenza epidemiologica da Covid-19. Alcune peculiari circostanze contraddistinguono le due distinte fattispecie.

Nella fattispecie decisa dal Tribunale di Milano, il datore di lavoro (società che si occupa di educazione all'estero) ha irrogato in data 11 marzo 2020 - quindi pochi giorni prima dell'introduzione del divieto di licenziamento per giustificato motivo oggettivo nel contesto dell'emergenza epidemiologica - n. 16 licenziamenti per mancato superamento del periodo di prova; tra questi, n. 5 dipendenti, recentemente assunti con contratto a tempo determinato, hanno impugnato il relativo licenziamento.

Nel caso esaminato dal Tribunale di Roma, il datore di lavoro (una struttura alberghiera) ha comunicato in data 16 aprile 2020 - in vigenza del suddetto divieto di licenziamento - la volontà di recedere dal rapporto di lavoro a tempo indeterminato, senza alcun riferimento al negativo esito del periodo di prova; è opportuno precisare che il dipendente licenziato, in un primo momento era stato individuato tra i beneficiari del fondo di integrazione salariale (FIS) e successivamente posto in regime di smart-working.

V. anche S. Apa, Nullità del licenziamento intimato a ridosso dell'introduzione delle disposizioni in materia di blocco dei licenziamenti e S. Apa, Radicale nullità del recesso datoriale per illiceità del motivo, in Casi e Sentenze.

Le questioni giuridiche

Le sentenze in commento si soffermano sui limiti del diritto datoriale di recesso durante il periodo di prova nel rapporto di lavoro subordinato.

Le soluzioni giuridiche

Ai sensi dell'art. 2096 c.c. è prevista la possibilità per il datore di lavoro (nonché per lo stesso dipendente) di recedere dal rapporto di lavoro durante il periodo di prova, laddove sia stato stipulato un patto di prova valido ed efficace. Sulla base dell'orientamento giurisprudenziale prevalente "il licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore stesso”. Tuttavia, l'esercizio del suddetto potere di recesso, pur essendo consentito in ogni momento, quindi anche nel corso del periodo di prova (fatta salva l'ipotesi in cui sia stabilito un tempo minimo necessario ai sensi dell'art. 2096 c.c.), non è rimesso al mero arbitrio del datore di lavoro: da un lato dev'essere collegato all'esito dell'esperimento del patto di prova, che ne costituisce la causa tipica, e dall'altro, non può essere diretto ad eludere norme imperative, né essere fondato su un motivo illecito determinante (ex multis, Cass., sez. lav., 11 luglio 2018, n. 18268; Cass., sez. lav., 18 gennaio 2017, n. 1180; Cass., sez. lav., 21 aprile 1993, n. 4669; per la giurisprudenza di merito Trib. Firenze 11 giungo 2020, n. 235; Trib. Venezia 5 novembre 2019, n. 675; Trib. Trento, 6 febbraio 2018).

In tale contesto è stato dunque precisato che “incombe, sul lavoratore licenziato, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, l'onere di provare, secondo la regola generale di cui all'art. 2697 c.c., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova. Risultandone quindi circoscritta la libertà di recesso nell'ambito della funzione cui il patto di prova è finalizzato".

Con riferimento al suddetto onere della prova - sulla base dell'orientamento giurisprudenziale prevalente (Cass. 26 settembre 2018, n. 23042; Cass. 23 settembre 2019, n. 23583; Cass. 3 dicembre 2015, 2015; in linea con Cass. 8 agosto 2011, n. 17087), avallato dalle sentenze in commento - la valutazione sulla legittimità del licenziamento durante il periodo di prova deve essere effettuato in maniera complessiva ed unitaria, sia sulla base di quanto dedotto dal ricorrente sia analizzando anche il complesso di tutti gli elementi acquisiti in giudizio.

Alla luce di tali valutazioni, entrambi i giudici di Roma e Milano hanno dichiarato nulli i licenziamenti.

Il Tribunale di Roma ha evidenziato in primo luogo che il datore di lavoro, nella lettera di licenziamento, non avesse menzionato il mancato superamento del periodo di prova, che peraltro - per il principio di non contestazione - è stato ritenuto superato dalla ricorrente “limitatamente all'attività effettivamente dalla stessa espletata”. Ciò premesso il Giudice, sulla base di “indizi gravi, precisi e concordanti”, tra cui in particolare la chiusura temporanea dell'albergo e l'inserimento della ricorrente tra i beneficiari del FIS, ha ritenuto il licenziamento nullo perché irrogato per motivi economici piuttosto che per motivi legati all'espletamento della prova; pertanto, in conformità con il citato e consolidato orientamento giurisprudenziale, il licenziamento è stato ritenuto nullo per motivo illecito ex art. 1345 c.c., essendo stato intimato al fine di aggirare il vigente divieto di licenziamento per motivi economici.

Il Tribunale di Milano, dopo aver esaminato tutte le circostanze caratterizzanti il caso di specie (tra cui in particolare, il “contesto storico-sociale”, la “peculiarità delle tempistiche” nonché la risoluzione massiva di numerosi rapporti di lavoro) ha ritenuto che i licenziamenti, formalmente irrogati per mancato superamento del periodo di prova, fossero nulli in quanto intimati in frode alla legge ai sensi degli articoli 1324 c.c. e 1344 c.c.. È stato infatti sostenuto che il licenziamento irrogato in applicazione dell'art. 2096 c.c. - di per sé legittimo - fosse stato di fatto irrogato per realizzare “mediatamente un fine vietato da una norma imperativa”; nel caso di specie, aldilà del divieto di licenziamento che sarebbe stato introdotto dopo pochi giorni, il datore di lavoro non avrebbe potuto recedere da tali rapporti di lavoro precedentemente la scadenza del contratto a termine.

Osservazioni

Come noto, con l'introduzione del d.lgs. n. 23/2015, essendo prevista la tutela reintegratoria piena soltanto per i licenziamenti nulli orali e discriminatori, l'ambito applicativo della nullità ha assunto una maggiore rilevanza rispetto al passato. Sebbene l'art. 2, d.lgs. n. 23/2015 faccia riferimento alle ipotesi di nullità espressamente previste per legge, sin da subito è stata sostenuta l'interpretazione non letterale della norma che ricomprende infatti anche le ipotesi di nullità previste dall'art. 1418 c.c. (cfr. in tal senso V. Speziale, Il contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti tra law and economics e vincoli costituzionali, Working Paper CSDLE “Massimo D'Antona”.IT - 2015, n. 259, 22 ss.).

Nelle sentenze in commento, dalla disamina di tutti gli elementi caratterizzanti le singole fattispecie, i licenziamenti sono stati ritenuti nulli in quanto implementati per ragioni estranee alla finalità del patto di prova, in un caso, ai sensi dell'art. 1344 c.c. (frode alla legge) e nell'altro ai sensi dell'art. 1345 c.c. (motivo illecito).

Tuttavia, anche alla luce di quanto precisato dalla Suprema Corte (Cass. 22 aprile 2014, n. 9090), si può ritenere che, nel caso di specie, la suddetta distinzione non assume rilevanza, in quanto il comune denominatore comportante la nullità del licenziamento è stata la condotta datoriale finalizzata alla violazione di una norma imperativa (cfr. Vincenzo Bavaro - Madia D'Onghia, Profilo costituzionale del licenziamento nullo, WP CSDLE “Massimo D'Antona”.IT - 2016 n. 305, 10 ss.).

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