Nessun bilanciamento dei diritti in caso di rifiuto di trattamento sanitario salvifico: la Cassazione definisce e conferma i principi

Pasquale Giuseppe Macrì
03 Giugno 2021

La sentenza della Cassazione oggetto delle nostre riflessioni (Cass. n. 29469/20) pare un segno dei tempi, un punto di arrivo di un cammino, lungo e tenace: quello intrapreso dalla giurisprudenza che, “guardando oltre”, ha inteso dare concreta ed effettiva attuazione ai principi di libertà, attingendo direttamente alla Costituzione ed “anticipando” un Legislatore da troppo tempo inerte.
Introduzione

La sentenza della Cassazione oggetto delle nostre riflessioni (Cass. n. 29469/20) pare un segno dei tempi, un punto di arrivo di un cammino, lungo e tenace: quello intrapreso dalla giurisprudenza che, “guardando oltre”, ha inteso dare concreta ed effettiva attuazione ai principi di libertà, attingendo direttamente alla Costituzione ed “anticipando” un Legislatore da troppo tempo inerte.

I Giudici, nella loro nobile ed indispensabile funzione di ius dicere, sono intervenuti a sciogliere le tensioni quando le complessità dei “casi della vita” – spesso le più intense e drammatiche vicende umane – hanno chiesto una risposta urgente, ed hanno definito il tessuto delle “regole di diritto”, traendole direttamente dalla Carta fondamentale e dalle fonti sovranazionali. La decisione qui annotata non manca infatti di ricordare l'orientamento della Consulta secondo cui “a fronte della carenza di una specifica fattispecie legale nella quale sussumere il caso concreto, spetta al giudice ricostruire la regola di giudizio attingendo direttamente ai principi costituzionali”. In questo quadro, le linee prospettiche non potevano che convergere verso un unico, necessario approdo, etico prima ancora che giuridico: è la persona che si pone al centro dell'ordinamento, con il fascio di diritti inviolabili che connotano e riempiono la dimensione del suo spazio.

Nel prosieguo cercheremo di meglio spiegare le ragioni di affinità che hanno suggerito l'abbrivio; per ora, conviene illustrare il “fatto” e la cornice entro cui la pronuncia in esame trova le proprie coordinate.

Il caso

L'attrice (che per facilità espositiva qui chiameremo L. G.), professando da molti anni il credo dei Testimoni di Geova, in occasione della seconda gravidanza si rivolse al prof. A. R., specialista in Ostetricia e Ginecologia, affinché questi seguisse la progressione della gravidanza sino al parto e, in particolare, affinché consigliasse le modalità di espletamento del parto che offrivano le migliori garanzie non solo in ordine al buon esito dello stesso ma segnatamente in relazione alla tecnica operatoria che, per quanto prevedibile, avrebbe garantito il minor consumo di sangue, evitando, l'indesiderato ed espressamente dissentito ricorso all'emotrasfusione.

Nel novembre 2004, la signora G, prese contatto con il prof. A. R., il quale prospettò un “percorso clinico che avrebbe consentito all'attrice di partorire in sicurezza, senza far ricorso alle terapie emotrasfusionali” (così dalla sentenza di primo grado, Trib. Milano, sentenza n. 6052/2015, pubblicata il 13/05/2015 (RG n. 13832/2010). Lo specialista, “in considerazione delle convinzioni religiose della sig.ra L. G., propose un taglio cesareo elettivo con lo scopo di ridurre il rischio emorragico e di conseguenza quello di ricorrere a emotrasfusioni, vietate dalla religione della paziente” (Relazione di CTU, pag. 18).

Come convenuto, l'attrice, in data 9 giugno 2005, venne ricoverata presso la struttura sanitaria per essere sottoposta all'intervento di parto cesareo; all'ingresso in ospedale la stessa “aveva ripetuto verbalmente ai sanitari che l'avevano accolta il proprio rifiuto alle terapie emotrasfusionali, e aveva consegnato una dichiarazione di volontà firmata da due testimoni ed inserita in cartella clinica” (Trib. Milano, n. 6052/2015, p. 3, cit). L'intervento fu eseguito in pari data (alla 38esima settimana e 5 giorni), ebbe inizio alle ore 8,25 e si concluse alle 8,32 con la nascita del neonato vivo e vitale.

Dopo le ore 18,00 della stessa giornata, la signora L. G. accusò dolori addominali di tipo compressivo, per i quali i sanitari disposero in via d'urgenza un'indagine emocromocitometrica. L'esame evidenziò che “il livello dell'emoglobina era passato da 12 g/dl prima del parto a 9,6 g/dl, dopo il parto” (Trib. Milano, sentenza n. 6052/2015, p. 3, cit). Il giorno seguente, 10 giugno 2005, si registrava un ulteriore decremento del livello di emoglobina e pertanto, alle ore 18,20, la paziente “venne trasferita in sala operatoria e, nonostante il suo dissenso, acquisito il parere telefonico di un magistrato, probabilmente il Procuratore della Repubblica in turno, ed ottenutolo altresì dalla direzione sanitaria, si procedette a somministrare emotrasfusioni, proseguite anche nel corso del successivo intervento... unitamente a plasma-expanders (soluzione salina più colloidi)” (Relazione di CTU pag. 20).

Raggiunto – mediante le emotrasfusioni coatte – un livello tranquillizzante di emoglobina, i sanitari, alle 20,45, procedevano ad “intervento chirurgico di laparotomia esplorativa dopo il quale era stata eseguita una nuova emostasi dell'area addominale” (Trib. Milano, sentenza n. 6052/2015, p. 3, cit).

Il successivo decorso post-operatorio proseguiva senza complicanze e segnatamente in assenza di recidive emorragiche.

Le questioni affrontate

a) Se il consenso prestato dalla paziente per un dato trattamento chirurgico (laparotomia esplorativa) possa automaticamente dirsi esteso anche alla trasfusione ad esso connessa.

b) Se il rifiuto delle trasfusioni espresso ex ante dalla partoriente Testimone di Geova al momento dell'accettazione in ospedale possa considerarsi (ancora) attuale una volta che la situazione evolva negativamente ed intervenga un pericolo concreto per la vita della stessa.

La questione sub a) rappresenta il punctum saliens intorno al quale ruota la vicenda; i Giudici di merito avevano ,infatti, rigettato la domanda dell'attrice, muovendo da queste premesse: non era necessario valutare l'attendibilità delle testimonianze assunte (relative al rifiuto che la paziente avrebbe espresso con il capo e con le braccia dopo il parto) perché il consenso (validamente) prestato all'intervento di laparotomia esplorativa implicava, ad avviso del Tribunale e della Corte d'appello, accettazione anche della trasfusione ad esso connessa.

La Cassazione accoglie il motivo di doglianza formulato dalla ricorrente e censura la decisione gravata rilevando che “l'accettazione dell'intervento di laparotomia esplorativa non ha implicato l'accettazione anche dell'emotrasfusione. La dichiarazione anticipata di dissenso all'emotrasfusione, che possa essere richiesta da un'eventuale emorragia causata dal trattamento sanitario, non può dunque essere neutralizzata dal consenso prestato a quest'ultimo".

La posizione assunta dalla Corte di legittimità trova conferma, in parte qua, in alcuni suoi precedenti: vengono qui alla mente le pronunzie in cui si sottolinea che il consenso deve essere riferito ad ogni singolo atto terapeutico, ad ogni fase del percorso (Cass. civ. 15 gennaio 1997 n. 364), e non può mai ritenersi presunto o tacito (Cass. 29 settembre 2015 n. 19212).

Ma il principio ribadito dalla decisione in commento è anche speculare: l'adesione ad un certo trattamento non implica automaticamente e presuntivamente accettazione di un'altra terapia, ove pure connessa, ed il paziente, come è libero di rifiutare, così pure può revocare la propria volontà, ha cioè diritto di cambiare idea, non potendo la sua decisione “pregressa” vincolarlo in alcun modo ove egli ritenga di rivedere i propri intendimenti.

Per quanto concerne il quesito sub b), la Cassazione sembrerebbe condividere le perplessità mostrate dai giudici di merito circa la validità del diniego alle trasfusioni espresso ex ante dalla ricorrente al momento del ricovero (questo profilo viene poi superato dal Tribunale e dalla Corte d'Appello valorizzando l'assenso all'intervento di laparotomia, ritenuto – erroneamente, secondo il giudice di legittimità - “comprensivo” di tutte le fasi ad esso connesse).

La decisione annotata sottolinea infatti la necessità di una attenta verifica circa il requisito della attualità del dissenso (sulla scorta di un orientamento già adottato da Cass. 15 settembre 2008 n. 23676 proprio con riferimento ad una vicenda relativa ad un testimone di Geova, e prima ancora da Cass. 4211/2007, riguardante un caso di un rifiuto espresso preventivo) e, nell'enunciare il principio da applicare in sede di rinvio, specifica che è necessario che "(..) emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita", richiamando in motivazione "le condizioni fissate da Cass. n. 23676 del 2008, e cioè un'articolata, puntuale, espressa ed attuale dichiarazione dalla quale inequivocamente emerga la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita".Giova qui rilevare come la vexata quaestio sull'attualità del dissenso sia stata superata dalla disciplina dettata dalla L. 219/2017, attraverso lo strumento delle Direttive Anticipate di Trattamento (D.A.T.) e della pianificazione condivisa delle cure.

Il “principio – premessa” e l'orizzonte delle libertà

Il principio che sta sullo sfondo della decisione e costituisce il presupposto di ogni successivo sviluppo è tratteggiato in quella che la stessa Cassazione definisce come “premessa”: "4. (..)Va premesso che secondo la giurisprudenza di questa Corte il paziente ha sempre il diritto di rifiutare le cure mediche che gli vengono somministrate, anche quando tale rifiuto possa causarne la morte".

E il punto che, a nostro avviso, rappresenta l'essenza, il fuoco prospettico che riconduce ad unità le articolazioni della motivazione è racchiuso in un breve passaggio, di poco più di dieci righe, e in una frase incidentale, delimitata dallo spazio di due parentesi.

La Corte, dopo aver chiarito che nel caso di specie "i principi costituzionali che entrano in gioco sono quelli per un verso riconducibili all'autodeterminazione sanitaria, per l'altro alla libertà religiosa", afferma che: "(..) Tale osmosi di principi costituzionale non incontra, nel caso di specie, per come accertato dal giudice di merito, principi di segno contrario suscettibili di bilanciamento. L'accertamento di fatto compiuto dal giudice di merito evidenzia esclusivamente la circostanza della necessità dell'emotrasfusione per il mantenimento in vita della paziente. Da tale circostanza emerge la tutela della salute quale diritto dell'individuo, sancito dall'art. 32 Cost., e dunque un principio nuovamente riconducibile alla posizione soggettiva della ricorrente e non ad un bene-interesse contrapposto a tale posizione (non potendosi ritenere il riferimento nella norma costituzionale all'interesse della collettività alla salute dell'individuo in contraddizione al principio di autodeterminazione enunciato nella medesima norma)".

La Cassazione sottolinea che il fatto-trasfusione, benché necessario per la stessa sopravvivenza della paziente, non incide, limitandola, sulla sua libertà di autodeterminazione e di religione e non la condiziona non c'è spazio per scelte obbligate, imposte dall'esterno, in forza di presunti interessi “altri e superiori”: la volontà espressa dalla persona che ha già stabilito se e come orientarsi di fronte alle prospettive, pur gravi e terribili, che il medico le abbia rappresentato, si pone come limite insuperabile all'attività sanitaria, e non può che essere integralmente rispettata. La decisione finale compete solo al soggetto della cui salute si discute, il quale può rifiutare l'intervento anche laddove sia salvifico, sulla base di valutazioni assolutamente personali e non sindacabili, purché fondate su una corretta ed esaustiva informazione.

Questo principio può sembrare, oggi, quasi scontato: ma se si guarda la “storia” del diritto all'autodeterminazione del paziente, ci si rende conto di come tale acquisizione sia relativamente “recente” e frutto di un lungo e travagliato percorso. Si potrebbe tornare con la memoria ai casi di Piergiorgio Welby e di Eluana Englaro per rendersi conto, già solo leggendo le sentenze che sono intervenute a regolare le fattispecie, del fervido dibattito che animava (e che è certamente ancora attuale) il mondo culturale, sociale, politico, religioso e giuridico sulle questioni del “fine vita”.

L'orizzonte pareva nettamente diviso in due correnti di pensiero: secondo un primo orientamento, l'art. 32, c. 2, della Costituzione, a mente del quale "Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge", è destinato a “cedere” di fronte alla obiettiva necessità di salvaguardare la vita, intesa come bene supremo ed indisponibile, da proteggere ad ogni costo (anche dalle aggressioni del suo “titolare”). La salute viene insomma ad essere concepita come interesse non solo del singolo, ma della collettività (come stabilito, del resto, dal comma 1 dello stesso art. 32 Cost.): l'idea della affermazione di un valore “superindividuale” e generale porta dunque a sostenere che non si possa consentire, al paziente che intenda farlo, di rifiutare terapie indispensabili per scongiurarne la morte.

Nell'ambito di quello stesso “bilanciamento” che la Cassazione n.29469/2020 ritiene di dover escludere, la teoria in esame reputava che la libertà di autodeterminazione non potesse spingersi sino al punto di provocare il sacrificio della propria esistenza (per questa posizione si vedano: Eusebi, Il diritto penale di fronte alla malattia pag 131 ss. in Fioravanti (a cura di) La tutela penale della persona, Giuffrè, 2001, 119 ss.; S. MangiameliI, Autodeterminazione: diritto di spessore costituzionale?, in www.forumcostituzionale.it, 2009, 18-19. Per un'impostazione analoga, v. A. Ruggeri, Il testamento biologico e la cornice costituzionale (prime notazioni), in www.forumcostituzionale.it, 2009, spec. 7 ss, e 13 dove si parla di un «diritto-dovere di prendersi cura di sé fino in fondo»).

In questo solco si colloca il provvedimento con cui, nel maggio 2007, il GIP impose al P.M di formulare l'imputazione per il reato di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.) contro il medico che “staccò il respiratore” , su richiesta lucida e cosciente del sig. Piergiorgio Welby (costretto a letto da una gravissima malattia ad esito infausto, collegato ad un ventilatore polmonare). Il giudice, dopo aver osservato che il principio di libertà sancito dall'art. 32 Cost. deve ricevere attuazione anche in assenza di una specifica normativa a ciò finalizzata, osservò tuttavia che era necessario tener conto anche degli altri diritti costituzionalmente garantiti, che dovevano essere “armonizzati” tra di loro. In ragione di ciò il GIP rilevava: " (..ritiene questo Giudice) che il diritto alla vita nella sua sacralità, inviolabilità ed indisponibilità costituisca il limite per tutti gli altri diritti che, come quello affermato dall'art. 32 Cost., siano posti a tutela della dignità umana", osservando che tale preminenza trovava fondamento giuridico nella previsione dei reati di cui agli artt. 579 e 580 c.p. nonché nel divieto sancito dall'art. 5 del codice civile (si veda, per i necessari riferimenti, “Interruzione di cure vitali e diritto all'autodeterminazione: il caso Welby” in Cass. pen., 5 , 2008, pagg. 57 ss.)

Nella stessa direzione si era mosso, pochi mesi prima, il Tribunale civile di Roma (Sez. I civile, Ord. 16 dicembre 2006) a cui Piergiorgio Welby aveva presentato istanza ex art. 700 cpc. al fine di ottenere l'interruzione della terapia.
In quella occasione il Giudice, nel dichiarare inammissibile il ricorso, aveva ritenuto che l'attuazione pratica del principio costituzionale di "autodeterminazione individuale e consapevole” richiedesse una legge ad hoc, all'epoca mancante, ed aveva sostenuto che il quadro normativo esistente confermasse il principio di indisponibilità della vita umana, alla luce di quanto disposto "dagli artt. 5 cc che vieta gli atti di disposizione del proprio corpo tali da determinare un danno permanente, 575, 576, 577 n. 3, 579 e 580 c.p. che puniscono, in particolare, l'omicidio del consenziente e l'aiuto al suicidio" (Trib. Roma, ord. 16 dicembre 2006)

Gli argomenti utilizzati riposavano, dunque, sulla (asserita) esistenza, nel nostro ordinamento, di un principio di assoluta indisponibilità della vita (da parte dello stesso titolare), ricavabile dall' art. 5 c.c. nonché dagli artt. 579 e 580 c.p.

Ma vi era anche una diversa corrente di pensiero – poi seguita dalla giurisprudenza maggioritaria ed oggi confermata anche da Cass. 29469/2020 - alla quale aderì il GUP (Trib. Roma, 23.07.2007 n. 2049) che, facendo applicazione dell'art. 51 c.p., mandò assolto il medico che aveva concretamente attuato la volontà di Piergiorgio Welby. Il Giudice, dopo aver rilevato che gli arti. 5 cc. e 579- 580 c.p. sono fonti subordinate rispetto ai principi della Costituzione, evidenziò che, dal quadro normativo delineatosi sulla base degli interventi della Consulta, discendeva con chiarezza che l'individuo ha il diritto inviolabile di rifiutare trattamenti medici anche quando si tratti di terapie salvavita "e tutto ciò vale non solo nel rapporto tra Stato e cittadini, ma anche tra privati ovvero tra il paziente ed il suo medico che dovrà attenersi alla volontà del malato come regola generale". Il Gup sottolineò, in particolare (richiamando anche Corte Cost. 238/1996), che il principio posto dall'art. 32 comma 2 Cost. ha "pari dignità formale e sostanziale" rispetto al diritto alla vita "perché entrambi finalizzati a concretizzare quel ristrettissimo nucleo di valori supremi facenti capo all'individuo, la tutela dei quali non può mai venire meno senza che ciò costituisca violazione dei diritti fondamentali dell'individuo" ed osservò icasticamente che, pertanto, "alla luce di ciò appare quindi essere un falso problema quello attinente al bilanciamento del principio della libera autodeterminazione in materia di trattamento terapeutico con gli altri principi di rango costituzionale, come, ad esempio, quello alla vita od integrità fisica", concludendo in questi termini: "in caso di conflitto, il sistematico depotenziamento del primo [del diritto di autodeterminazione] in ragione della prevalenza del diritto alla vita non sarebbe giustificato da alcuna norma o principio neanche di rango costituzionale “ (Trib. Roma, 23.07.2007 n. 2049, in Cass. pen., 5, 2008).

Il percorso argomentativo a suo tempo seguito dal GUP fa proprio l'indirizzo dottrinale secondo cui al principio di autodeterminazione terapeutica sancito dall'art. 32 Cost., in collegamento con l'art. 13 Cost., deve riconoscersi la massima estensione, in considerazione del fatto che il diritto alla salute "implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, ecc” (Modugno, Trattamenti sanitari non obbligatori e Costituzione (A proposito del rifiuto delle trasfusioni di sangue) in Dir. Soc., 1982, p. 303 ss. e spec. 312).

Nello stesso senso si esprimono quegli autori (D'Aloia, “Eutanasia, voce (dir. Cost.)”, Digesto delle Discipline Pubblicistiche 2012, vol. V, pag. 300) secondo i quali<<per sostenere il contrario bisognerebbe riuscire a costruire una argomentazione costituzionale incentrata sul dovere di vivere, e prima ancora di mantenersi in salute: un dovere verso la collettività e verso la propria famiglia o le persone comunque “vicine”. Ma questa non appare una strada costituzionalmente possibile, alla luce dell'art. 32 Cost, al di là di quelle situazioni in cui non sia la legge a prevedere (direttamente) trattamenti sanitari obbligatori, perché la malattia di un soggetto può influenzare o condizionare la salute (o la malattia) di altri soggetti>> (come si potrebbe pensare, in quest'ultimo caso, nelle situazioni di drammatica attualità della pandemia da Covid…).

La lettura dei principi costituzionali condotta dal GUP nel caso Welby ha poi trovato la più autorevole conferma nella nota sentenza (Cass. 16 ottobre 2007 n. 21748) relativa al caso di Eluana Englaro. Qui la Corte ha enunciato in modo adamantino il principio per cui: "Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita" (..) "Lo si ricava dallo stesso testo dell'art. 32 Cost., per il quale i trattamenti sanitari sono obbligatori nei soli casi espressamente previsti dalla legge, sempre che il provvedimento che li impone sia volto ad impedire che la salute del singolo possa arrecare danno alla salute degli altri e che l'intervento previsto non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi è sottoposto (Corte Cost. sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996). Soltanto in questi limiti è costituzionalmente corretto ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute, il quale, come tutti i diritti di libertà, implica la tutela del suo risvolto negativo: il diritto di perdere la salute, di ammalarsi, di non curarsi, di vivere le fasi finali della propria esistenza secondo canoni di dignità umana propri dell'interessato, finanche di lasciarsi morire".

Si tratta di affermazioni lucide, di chiara potenza espressiva ed applicativa, nelle quali risuona l'eco di quell'orientamento dottrinale che aveva valorizzato a tutto tondo l'art. 32 Cost. comma 2, negando la possibilità di un “bilanciamento” che portasse al sacrificio della libertà (di scegliere se curarsi) in nome di un interesse superiore (la indisponibilità della vita).

Ed il punto della motivazione di Cass. 21748/2007 su cui non possiamo non soffermarci è proprio quello in cui si dichiara che "Benché sia stato talora prospettato un obbligo per l'individuo di attivarsi a vantaggio della propria salute o un divieto di rifiutare trattamenti o di omettere comportamenti ritenuti vantaggiosi o addirittura necessari per il mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che la salute dell'individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva".

Questa affermazione - solare, limpida, dirompente, è il fil rouge che rimanda a Cass. 29469/2020 qui annotata, e riporta a quell'inciso più sopra richiamato, ossia al punto in cui la Corte precisa che " la tutela della salute quale diritto dell'individuo, sancito dall'art. 32 Cost.", si pone come " un principio nuovamente riconducibile alla posizione soggettiva della ricorrente e non ad un bene-interesse contrapposto a tale posizione (non potendosi ritenere il riferimento nella norma costituzionale all'interesse della collettività alla salute dell'individuo in contraddizione al principio di autodeterminazione enunciato nella medesima norma)".

Non esiste, dunque, un interesse “esterno e superindividuale” di fronte al quale la libertà dell'individuo – di professare la religione in cui crede e di scegliere se e come curarsi – possa cedere, neppure di fronte alle decisioni più estreme: quelle di rifiutare l'atto medico ove pure sia indispensabile per la propria sopravvivenza. Cass. 29469/2020 in commento suggella così l'orientamento che si è andato consolidando ed afferma, con estrema chiarezza, che :" La circostanza della necessità dell'emotrasfusione è inoltre priva di rilievo ai fini dell'insorgenza di un principio da contrapporre a quello dell'autodeterminazione e della libertà religiosa (la giurisprudenza di questa Corte, come si è visto, ha già ritenuto esclusivamente operante, con riferimento alla circostanza in discorso, il principio di cui all'art. 19 Cost.). Il complesso di principi evidenziati non incontra perciò principi costituzionali di segno opposto i quali impongano una forma di bilanciamento. Non essendovi materia di ponderazione con altri principi costituzionali, essi possono trovare piena e diretta attuazione".

Con l'affermazione della irrilevanza e dell'inconferenza dell'accertamento della necessità di procedersi all'emotrasfusione al fine del ripristino dello stato di salute e finanche del mantenimento in vita del paziente che aveva opposto valido dissenso la Cassazione pone fine, con estrema chiarezza, all'indebito ma frequentissimo richiamo di molti medici e di alcuni giuristi alla scriminante di cui all'art. 54 del codice penale. Nessuno stato di necessità potrà essere più evocato per superare il dissenso validamente espresso del paziente, segnatamente laddove, come nel caso di specie, esso sia sostenuto e giustificato da norme costituzionali dettate a tutela dei diritti fondamentali della persona, quale è certamente il diritto all'autodeterminazione (Corte Cost. 438 del 2009).

Nello stesso senso procede una recente sentenza del Tribunale di Tivoli, affermando che, in casi analoghi, “non possono trovare applicazioni le scriminanti dello stato di necessità o dell'adempimento di un dovere”, in quanto “l'imputato era consapevole di agire nonostante il dissenso al trattamento legittimamente manifestato ...” (Sentenza n. 1179/20 emessa in data 1 ottobre 2020, depositata il 9 dicembre 2020 Tribunale di Tivoli, Sezione Penale, Giudice Chiara Pulicati).

Principi chiaramente espressi dalla giurisprudenza di legittimità: “integra il reato di violenza privata la condotta dell'infermiere il quale sottoponga a trattamento terapeutico un paziente che in relazione ad esso abbia, invece, manifestato un libero e consapevole rifiuto, non potendosi ritenere applicabili, in tali ipotesi, neppure le scriminanti dell'adempimento di un dovere o dello stato di necessità, condizioni esimenti che cedono il passo rispetto al diritto all'inviolabilità della libertà personale” (Cass. pen. Sez. V sentenza 38914 del 24.09.2015).

Ed è proprio il riferimento a questa operazione di “bilanciamento” che fa tornare attuali le parole a cui abbiamo voluto affidare l'apertura delle presenti note. Non si può infatti dimenticare che, come rilevato da autorevole dottrina, l'art. 5 del codice civile - su cui, come si è visto, faceva leva l'orientamento che negava la libertà di autodeterminazione di fronte alle scelte estreme - è norma a cui non è estranea "un'esigenza più direttamente ispirata all'ideologia fascista, di limitazione della disponibilità per salvaguardare l'integrità del singolo (e della stirpe) ai fini di maggior potenza dello Stato" M. Dogliotti, Le persone fisiche, in Trattato di diritto privato, diretto da P. Rescigno, I, Persone e famiglia, Torino, 1982, p. 77;così anche M. C. Cherubini, Tutela della salute e cc.dd. atti di disposizione del corpo, in F.D. Busnelli - U.Breccia, Tutela della salute e diritto privato, Milano, 1978, 91 ss.; M. Dell'Utri, in Commentario del codice civile diretto da Gabrielli, Le persone, sub art. 5 cc., Torino 2012, 416).

E non deve nemmeno stupire che nella Relazione introduttiva del 1929 di Giovanni Appiani, Presidente della Commissione ministeriale incaricata di dare parere sul progetto preliminare del nuovo codice penale (il cd. - attuale - Codice Rocco) si affermi: "Non vi è dubbio, per ragioni che non è qui luogo a diffusamente ripetere, ma che si ricollegano con la prevalenza dell'interesse statuale e sociale sull'egoismo individuale, che la vita umana e l'integrità fisica siano beni di cui non si può liberamente disporre" (cfr. “Lavori preparatori” 1929 pt I, 478).

Nel corso degli anni la Cassazione - come conferma la sentenza qui annotata - ha dunque valorizzato a tutto tondo i principi di libertà (artt. 2,13, 32 Cost.) traendo il fondamento della propria elaborazione dalla Carta fondamentale, la quale - come afferma Cass. 21748/2007 "vede nella persona umana un valore etico in sé, vieta ogni strumentalizzazione della medesima per alcun fine eteronomo ed assorbente, concepisce l'intervento solidaristico e sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa (..)". E la stessa Consulta (Corte Cost., ordinanza 207/2018 e sentenza 242/2019), nel dichiarare - da ultimo - la parziale illegittimità dell'art. 580 c.p., ha richiamato quei principi e portato ad ulteriore compimento il percorso (subordinando la non punibilità di chi agevoli il proposito di suicidio al rispetto di specifiche cautele e stabilendo alcune rigorose condizioni , tratte in parte già dalla disciplina dettata dalla L. 219/2017, e limitando comunque la declaratoria di incostituzionalità ai soli casi di soggetti che già potrebbero alternativamente lasciarsi morire mediante la rinuncia a trattamenti sanitari necessari alla loro sopravvivenza, ai sensi dell'art. 1, comma 5, della legge ora citata ( Per approfondimenti, ex plurimis, P. Malacarne, B. Pezzini “E se il paziente chiede al medico di essere “aiutato a morire”? Aiuto al suicidio e relazione terapeutica dopo Corte Cost. n.. 242/2019, in Resp. medica, 2020 n. 1).

Muovendosi in un contesto ben diverso da quello che aveva accompagnato l'emanazione del codice penale e di quello civile, la giurisprudenza ha dunque superato, nella prospettiva di uno Stato laico, ogni tipo di condizionamento etico, filosofico e sociale (basti pensare alla rilevanza non solo mediatica, ma anche politica che ebbe la vicenda “Englaro” ed alle “resistenze” che portarono i due rami del Parlamento a sollevare questione di conflitto di attribuzioni , poi dichiarata inammissibile dalla Consulta (Corte cost. ord. 08.10.2008 n. 334) che in tal modo ha aperto nuovi orizzonti così invitandoci ad andare oltre “i fili spinati”.

Questioni di bioetica: Noli me tangere!

I fondamenti storici della giustificazione della necessità del consenso e dell'insuperabilità del dissenso all'atto medico possono essere individuati, da un lato, nell'emanazione della Magna Charta inglese (1215) e, dall'altro, nei principi sanciti con la Rivoluzione francese, che conferivano ad ogni individuo la dignità di “cittadino” ovvero di soggetto ed oggetto di diritti inalienabili ed inviolabili. La Charta garantiva a tutti gli individui, in forza della propria esistenza, la protezione dall'uso indiscriminato e dagli effetti della forza da parte dello Stato: “nessun uomo libero verrà arrestato, imprigionato, multato, bandito, esiliato o in qualsiasi modo danneggiato, inseguiti o fatto inseguire, se non per effetto di un legittimo giudizio dei suoi pari e secondo la legge del Regno”( Magna Charta; sezione 39).

Nei secoli successivi filosofi ed eticisti, nell'indicare i canoni della Eudaimonìa (la vita buona), hanno cercato - ovviamente senza riuscirci - di individuare la fonte universale dell'autorità morale. In assenza di una fonte condivisa di autorità morale la persona viene ad assumere una posizione di supremazia. Osserva a tal proposito H. Tristram Engelhardt Junior (Manuale di Bioetica, Il Saggiatore Editore, Milano 1999 pag. 304): “Un diritto fondamentale delle persone è quello di essere lasciate sole. Esso è al centro della morale laica … e costituisce la fonte dell'autorità morale. Dal momento che la morale non è in grado di fornire una visione canonica del bene … il principio del permesso è la fonte suprema dell'autorità”. Secondo Engelhardt, la centralità assunta dal principio del permesso, in ambito etico e giuridico, rappresenta il fallimento del progetto illuministico di fondare una etica sostanziale universale: “nel fallimento della Ragione e nell'assenza della Fede … gli individui sono la fonte originaria della autorità morale laica. Il diritto di essere lasciati soli comprende il diritto di non essere ostacolati ... i rapporti tra pazienti, medici, ed altri operatori della salute devono essere plasmati sulla base dell'espressione del principio del permesso”. Osserva infine Engelhardt che sia eticamente insostenibile la tesi “che è possibile vietare il rifiuto del trattamento in quanto tale rifiuto comprometterebbe la sacralità della vita... gli individui capaci hanno il diritto morale laico di perseguire … la realizzazione della loro particolare visione della vita e della morte moralmente buona” (Manuale di Bioetica, Milano 1999 pag. 374).

La posizione del medico

Merita qualche riflessione l'ultimo punto della motivazione in cui la Corte osserva: "È doveroso aggiungere, con lo sguardo alla L. 22 dicembre 2017, n. 219, che la posizione del medico non è esente da garanzie in circostanze come quella del caso di specie. Prevede l'art. 1, comma 6 citata legge, non solo che "il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale", ma anche che "il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali".

Prestare il consenso ad un intervento chirurgico, al quale è consustanziale il rischio emorragico, con l'inequivoca manifestazione di dissenso all'esecuzione di trasfusione di sangue ove il detto rischio si avveri, significa esigere dal medico un trattamento sanitario contrario, oltre che alle buone pratiche clinico-assistenziali, anche alla deontologia professionale. A fronte di tale determinazione del paziente, “il medico non ha obblighi professionali” purché al paziente sia garantita, senza pericolo nel ritardo, tutta l'assistenza di cui necessiti ovviamente diversa da quella validamente rifiutata.

In relazione al primo aspetto, giova ricordare che già la giurisprudenza di merito aveva avuto occasione di escludere la responsabilità del medico che, su richiesta espressa da Testimone di Geova, non aveva eseguito la trasfusione indispensabile per la sopravvivenza (Pret. Roma 3.04.1997 in Cass. Pen. 1998, 950 ). In quella fattispecie, i sanitari si erano astenuti dalla esecuzione del trattamento (in quanto rifiutato dal paziente) ed il Giudice li aveva assolti dall'accusa di omicidio colposo "perché il fatto non sussiste in quanto era stata rispettata la volontà del ricoverato contraria, per motivi di fede religiosa, a tale terapia; (...) una volontà non superabile in quanto le trasfusioni di sangue non sono ricomprese fra i trattamenti sanitari obbligatori previsti dalla legge a norma dell'art. 32, c. 2, Cost.". Conformemente, la già citata sentenza della sezione penale del Tribunale di Tivoli condannava un medico, imputato del reato di violenza privata, in quanto “quale medico anestesista in servizio presso l'ospedale di Tivoli, praticava una emotrasfusione sul paziente … nonostante il dissenso espresso comunicato ai medici”, alla pena di due mesi di reclusione oltre al pagamento delle spese processuali.

Con l'esplicito richiamo, anzi con la pedissequa citazione, del VI comma dell'art. 1 della legge n. 219/2017, la sentenza in esame suggella il principio secondo il quale nessuna conseguenza giuridica potrà derivare all'esercente la professione sanitaria per aver egli rispettato il dissenso validamente espresso dal paziente, ovvero che nessun evento dannoso, causalmente conseguito all'atto terapeutico volontariamente omesso dal medico in ossequio al dissenso del paziente, potrà essere imputato alla di lui condotta.

In tal senso si è orientata anche la normazione interna della classe medica. Negli ultimi Codici di Deontologia (del 2006 e 2014) non emerge alcuna espressione di doverosità all'intervento salvifico del medico non espressamente consentito dal paziente o, meglio, da questi dissentito. I doveri del medico sono sanciti dall'art. 3 del vigente CdM che recita: “Doveri del medico sono la tutela della vita, della salute psico-fisica, il trattamento del dolore e il sollievo della sofferenza, nel rispetto della libertà e della dignità della persona, senza discriminazione alcuna, quali che siano le condizioni istituzionali o sociali nelle quali opera”.

L'articolo è di univoca interpretazione, il medico è tenuto - configurandosi il dovere - alla tutela della vita e della salute del paziente ma - ammonisce il Codice - “nel rispetto della libertà e della dignità della persona”. In altri termini il dovere e la conseguente posizione di garanzia si ingenerano nel momento in cui il paziente capace consente all'atto medico mentre, a fronte di un valido dissenso non si prefigura alcun dovere.

La relazione di cura infatti, a mente dell'art. 20 CdM “è costituita dalla libertà di scelte e sulla individuazione e condivisione delle rispettive autonomie e responsabilità”. Ricorda poi il codice, all'art. 35, che il medico “non intraprende né prosegue in procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato”. Ancora più chiaro e conferente nel caso di specie il disposto dell'art. 36 CDM secondo il quale, in caso di urgenza ed emergenza, il medico assicura l'assistenza indispensabile “nel rispetto delle volontà se espresse o tenendo conto delle dichiarazioni anticipate di trattamento se manifestate”. Ma vi è di più: all'art. 53, il Codice di Deontologia Medica asserisce che “Il medico informa la persona capace sulle conseguenze che un rifiuto protratto di alimentarsi comporta sulla sua salute, ne documenta la volontà e continua l'assistenza, non assumendo iniziative costrittive né collaborando a procedure coattive di alimentazione o nutrizione artificiale”. La citata norma deontologica assume particolare rilevanza e pregnanza in ordine al divieto che impone al medico di assumere iniziative costrittive o di collaborare a procedure coattive. Ancora una volta il medico è chiamato a riconoscere come prioritari i diritti di libertà e dignità della persona a fronte di ogni altra considerazione o prospettazione.

La regola di giudizio e il principio di diritto

La sentenza in commento esplicita la seguente regola di giudizio: “il Testimone di Geova ha diritto di rifiutare l'emotrasfusione. Sulla base della fonte costituzionale, avente qui efficacia orizzontale, sorge uno specifico rapporto giuridico contrassegnato dall'obbligazione negativa del sanitario di non ledere la sfera giuridica vantata dal testimone di Geova, cui spetta la titolarità attiva del rapporto”.

Tale principio, conformemente alla norma sul consenso informato (Legge n. 219/2017), pone l'acquiescenza al dissenso del paziente tra i doveri del medico. Ne consegue il principio di diritto secondo il quale “il Testimone di Geova, che fa valere il diritto di autodeterminazione in materia di trattamento sanitario a tutela della libertà di professare la propria fede religiosa, ha il diritto di rifiutare l'emotrasfusione pur avendo prestato il consenso al diverso trattamento che abbia successivamente richiesto la trasfusione, anche con dichiarazione formulata prima del trattamento medesimo, purché dalla stessa emerga in modo inequivoco la volontà di impedire la trasfusione anche in ipotesi di pericolo di vita”.

Il risarcimento del danno

Gravate di pari o maggiori problematicità si prospettano le tematiche concernenti il quantum debeatur.

La Cassazione, nella sentenza in commento, non se ne occupa (né potrebbe farlo, trattandosi di una questione di puro merito), rinviando all'uopo alla Corte territoriale. Non pare fuori luogo interrogarsi su quali potranno essere i requisiti ed i criteri onde pervenire all'equo risarcimento. In casi analoghi a quello di specie, la valutazione risulta comunque complessa; non semplice pare, infatti, procedere alle considerazioni in termini “differenziali”, tra ciò che “è”, e quello che “sarebbe stato” se non si fosse verificato il vulnus.

Il termine di raffronto (laddove, nel merito, sia stato accertato che l'emotrasfusione dissentita e subìta con violenza dalla paziente, avesse effettivamente avuto valenza salvifica, ricorrendo un reale, attuale e non altrimenti evitabile o differibile pericolo di vita) sarebbe costituito, per un verso, dalla morte e, per l'altro, dalla conseguita sopravvivenza, una condizione dunque che generalmente e collettivamente viene percepita come valore positivo.

Si potrebbe fare un paragone con i casi di nascita indesiderata di un figlio sano (es. la non corretta esecuzione dell'intervento di legatura delle tube per colpa del medico); in simili ipotesi, come autorevolmente rilevato in dottrina, il problema della risarcibilità è valso a "tormentare gli interpreti in relazione al quantum più che all'an debeatur"; ciò in ragione del fatto che le esegesi giurisprudenziali sono state spesso "ispirate da un sentire sommessamente condiviso, ovvero che la nascita di un figlio sano, pur non programmata e quindi inizialmente non voluta, col tempo si tramuti nella stessa considerazione dei genitori in un beneficio; da qui l'esigenza di non largheggiare nella quantificazione dell'ammontare del danno" (A. Belvedere, Trattato di biodiritto, Le responsabilità in medicina, 2011, Giuffrè, pag.386).

L'orientamento della Cassazione, come ricorda la Sentenza n. 2070 del 29 gennaio 2018, si è in parte modificato; le pronunzie più recenti ammettono, per il caso di nascita indesiderata di un figlio comunque sano, "(..) che la tutela invocata prescinda del tutto dalle condizioni di salute della neonata, e debba essere riconosciuta rispetto alle negative ricadute esistenziali che si verifichino nella vita dei genitori in conseguenza della violazione del diritto a non dar seguito alla gestazione, esercitato nell'ambito dei tempi e delle modalità disciplinate dalla normativa della Legge n. 194 del 1978, e non esercitato in conseguenza del colpevole inadempimento dei medici e/o della struttura sanitaria a ciò preposti".

Vero è che, sulla scorta dell'orientamento consolidato (Cass. n. 28985/2019; Cass. n. 28989/2019; Cass. 24471/2020) il danno non è mai in re ipsa; se così è, si deve concludere che la mera lesione in sé del diritto all'autodeterminazione (e della libertà religiosa) non può comportare, automaticamente, un risarcimento. L'interessato dovrà spiegare, mediante specifiche allegazioni, in cosa sia consistita la natura della perdita subita, e quali realmente siano, invero, le effettive “ricadute negative”. Non dovrà, dunque, trovare credito l'argomentare volto a sostenere che il soggetto, preservato in vita dall'illecita trasfusione, forse, alla fine, potrà diversamente apprezzare la circostanza e persino giungere (l'esempio è volutamente portato agli estremi) a godere dei “benefici” che - secondo la communis opinio - ne potrebbero conseguire (es. un rapporto intenso e totalizzante con il coniuge o un legame con i figli).

Siffatto modo di ragionare mina alla base l'effettiva tutela dei diritti di autodeterminazione e di libertà di religione.

In merito alla determinazione del quantum, giova evidenziare come si prospettino situazioni alquanto diverse laddove l'illecito sia consistito nella mera offesa al diritto all'autodeterminazione (ad esempio di un soggetto laico) ovvero - come nel caso di specie – laddove sia stata violata una regola del credo religioso. Nel primo caso, invero, il danno morale, ormai rettamente inteso, nella sua autonoma dimensione risarcitoria (Cass. 901/2018; Cass. 7513/2018), quale sofferenza interiore, ha una coordinata temporale assai più ristretta che nella seconda ipotesi. Per il primo paziente, infatti, la sofferenza è relativa al momento coercitivo e alla percezione di perdita di dignità nel momento in cui subisce violenza. Tale doloroso sentire presenta caratteristiche di retentio ovvero di dolorosa memoria che si rivolge al passato e pertanto con una vis lesiva che si depotenzia nel tempo, facendo ritenere assai probabile la rapida elaborazione e la storicizzazione del vissuto. Per il Testimone di Geova, invece, “la verginità ematologica” costituisce un valore da mantenere continuamente per tutta la vita. Di converso, “l'impurezza ematologica” genera nel credente un drammatico senso di smarrimento esistenziale con sentimenti catastrofali di perdita della vita eterna.

A nostro avviso, in una ipotesi come quella considerata dalla sentenza in commento, l'elemento che pare destinato ad assumere rilievo decisivo è, dunque, quello attinente alla qualità ed alla completezza delle allegazioni che dovranno essere formulate in termini possibilmente descrittivi e tali da illustrare la modificazione peggiorativa della condizione esistenziale del soggetto danneggiato.

Sarà certamente da ammettere il ristoro risarcitorio laddove il paziente violato alleghi o adduca elementi di prova che dimostrino che la circostanza di essere stato trasfuso contro volontà e contro i principi del proprio credo religioso, abbia cagionato gravi e perduranti sofferenze morali, modificato le proprie abitudini e relazioni e segnatamente abbia resa penosa la condizione - malamente tipizzante nel relativo contesto sociale - di “soggetto impuro in quanto trasfuso”.

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