La competenza del giudice del lavoro sull'illegittimità del licenziamento intimato da una società in caso di intervenuto fallimento

Jacopo Ierussi
07 Giugno 2021

Nel caso in cui il lavoratore agisca in giudizio per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento con tutela obbligatoria, il fallimento del datore di lavoro non esclude la competenza del giudice del lavoro in ordine a siffatte domande, in quanto soltanto per le pretese creditorie eventualmente proposte in correlazione alla declaratoria di illegittimità del licenziamento...
Massima

Nel caso in cui il lavoratore agisca in giudizio per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento con tutela obbligatoria, il fallimento del datore di lavoro non esclude la competenza del giudice del lavoro in ordine a siffatte domande, in quanto soltanto per le pretese creditorie eventualmente proposte in correlazione alla declaratoria di illegittimità del licenziamento (con il correttivo di cui si dirà), ovvero dipendenti dal rapporto di lavoro sottostante, è funzionalmente competente il tribunale fallimentare in base al combinato disposto degli artt. 24, 52 e 93 legge fallimentare (r.d. n. 267/1942).

Tanto in quanto il fallimento del datore di lavoro non determina il venire meno dell'interesse del lavoratore all'accoglimento delle domande sopra indicate, poiché siffatto interesse ha ad oggetto non solo il ripristino della prestazione lavorativa, ma anche le utilità connesse al ripristino del rapporto in uno stato di quiescenza attiva dalla quale possono scaturire una serie di utilità, quali la ripresa del lavoro e la possibilità di ammissione ad una serie di benefici previdenziali.

Il caso

Come anticipato dal titolo della presente pubblicazione, la fattispecie in esame concerne il licenziamento intimato da una società (per la quale, in epoca successiva, è intervenuto il fallimento) ad un lavoratore che deduceva di aver svolto mansioni di varia natura, non limitate a quella di “disegnatore di elementi elettrici” contrattualizzate al momento dell'assunzione, ma comprensive anche di quelle di “montatore/manutentore elettrico”.

Al contempo, il ricorrente eccepiva la presenza di un centro unico di imputazione in virtù dell'uso promiscuo delle sue prestazioni di lavoro di cui avevano beneficiato tanto la parte datoriale quanto un'ulteriore società ad essa funzionalmente collegata.

La questione giuridica

Partiamo dal presupposto che la sentenza ruota intorno ad almeno tre questioni di diritto tutte aventi carattere precipuamente processuale. La massima di cui al presente scritto riguarda soltanto una di queste e la ragione è attribuibile alla pura volontà dell'autore di fare buona opera di sintesi e concentrarsi su quella più dibattuta e (tuttora) controversa.

Se però andare all'essenziale “è cosa buona e giusta”, sfociare nell'oscurantismo o censura, che dir si voglia, non è un merito per chi fa dottrina, indi per cui si esporrà in maniera concisa il quadro complessivo delle eccezioni pregiudiziali e/o preliminari poste all'attenzione del Giudice di merito.

Innanzitutto, il magistrato si è interrogato sull'applicabilità del rito speciale ex art. 1, commi 47 ss., l. n. 92/2012, alla domanda di accertamento inerente la sussistenza di un centro unico di imputazione ipotizzato dal lavoratore che ha invocato la tutela di cui all'art. 18 st. lav. sul presupposto specifico dell'esistenza del requisito dimensionale richiesto dalla predetta norma sulla scorta della connotazione da questi offerta circa “uno stretto collegamento” (forse avente finalità simulatoria) operante tra le due società convenute in giudizio, essendo pacifico che, invero, la società datrice occupava meno di 15 dipendenti.

Il Giudice del Lavoro, con un ragionamento più che condivisibile, ha statuito come ammissibile nel cd. Rito Fornero “la verifica in via incidentale della fondatezza della questione relativa all'unitarietà del centro di imputazione, ove dalla risoluzione della medesima dipenda l'esito del giudizio di merito sulle domande ex art.18 cit.. Invero, deve ritenersi che condizione necessaria e sufficiente per l'applicazione del rito previsto dall'art.1 comma 47 l. n. 92/2012 è la proposizione di una domanda ex art. 18 l. n. 300/70, non essendo consentita alle parti la scelta di un rito diverso; pertanto, nel caso in cui nelle conclusioni del ricorso introdotto con il rito speciale, venga richiesta una delle tutele introdotte dal nuovo art. 18, ancorché nei confronti di un datore di lavoro diverso da quello formale, deve essere adottata una pronuncia di merito (e dunque di accoglimento o di rigetto), e non di rito”.

Viene così superato questo primo profilo che introduce inevitabilmente il secondo, ovvero la domanda proposta in via subordinata dal lavoratore per l'ottenimento della tutela obbligatoria ai sensi dell'art. 8, l. n. 604/1966. D'altro canto, trattasi di una strategia processuale inevitabile, quasi scontata, laddove si presenti il rischio che non venga accertata la sussistenza di un centro unico d'imputazione e, dunque, non si possa accedere alle tutele di cui all'art. 18 st. lav.

In questo caso, come nel precedente, il giudicante ha ritenuto infondata la questione processuale, illustrando come la “relativa domanda è fondata sulla medesima causa petendi, cioè pur sempre sulla mancanza del giustificato motivo, mentre ciò che cambia sono gli effetti giuridici da ricollegare alla tutela obbligatoria ovvero alla tutela reale (oggi potremmo dire ex art. 18 dello Statuto, che non è più necessariamente reintegratoria). È indubbio che gli effetti della prima sono inferiori a quelli della seconda, ma la tutela più ampia comprende quella inferiore applicabile ai datori di lavoro con meno di quindici dipendenti (cfr. Cass. n. 14486/2001). La Corte di Cassazione, del resto, (cfr. Cass. n. 9460/1991, di cui non constano pronunce successive in senso contrario) ha precisato che “proposta dal lavoratore una domanda … ai sensi dell'art. 18 della legge 20 maggio 1970 n. 300, tale "petitum" deve ritenersi comprensivo di quello concernente il riconoscimento della minore tutela di cui all'art. 8 della legge 15 luglio 1966 n. 604, con la conseguenza che non viola il principio di corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato la sentenza con la quale il giudice adito, ritenendo carenti le condizioni per l'operatività dell'invocata tutela reale, condanni, tuttavia, il datore di lavoro, che abbia intimato il licenziamento illegittimo, alla riassunzione del lavoratore o, in alternativa, a corrispondergli l'indennità di cui al citato art. 8 della legge n. 604 del 1966”.

In claris non fit interpretatio.

E con questo, tralasciando ogni residuo profilo di merito, si entra nel vivo della questione qui oggetto di più attenta disamina: in caso di sottoposizione della società datrice di lavoro ad una procedura concorsuale, qual è il giudice competente a decidere ex lege sulle domande di accertamento dell'illegittimità del licenziamento nonché su quelle conseguenti di condanna alla tutela reintegratoria e/o al pagamento della relativa indennità risarcitoria?

Secondo l'orientamento ormai consolidato a cui si conforma la sentenza de qua, le domande, svolte nei confronti della procedura fallimentare e finalizzate all'ottenimento della reintegrazione nel posto di lavoro ed all'accertamento del diritto al risarcimento del danno sono ammissibili e vanno trattate nella loro naturale sede del “giudizio del lavoro”; inammissibile, perché di competenza funzionale del giudice fallimentare, invece, è la domanda di condanna della procedura al pagamento di somme di denaro. A tutto voler concedere, invero, soltanto in tale ultima domanda non può essere ravvisato un legittimo interesse ad agire che si sostanzi in una pretesa ulteriore rispetto ad una squisitamente di natura economica.

Sul punto, la Corte di cassazione ha avuto modo di precisare come l'indennità risarcitoria prevista dall'art. 18 S.L. (a differenza della tutela reintegratoria) è ugualmente soggetta alla vis attractiva del foro fallimentare, tant'è che i Giudici di legittimità, nell'esaminare un caso analogo a quello in esame, hanno statuito che: “ne discende che alla data dell'impugnata sentenza era ormai divenuta improponibile la (sola) domanda di risarcimento ex lege n. 300 del 1970, art. 18, mentre quella di invalidità del licenziamento e di reintegra nel posto di lavoro restavano proponibili e conoscibili da parte del giudice del lavoro” (sentenza n. 19271 del 20 agosto 2013).

In definitiva, ci troviamo innanzi ad un precedente privo di portata innovativa, ma che è segno di un principio giuridico ormai assimilato al diritto vivente, tanto da aver eclissato le tesi avverse esposte in passato anche dalla migliore giurisprudenza, forse involontariamente influenzata dal periodo di crisi globale caratterizzato dall'insorgere di numerose procedure di Amministrazioni Straordinarie (cfr. d.lgs. 279/1999 cd. “Prodi bis” e d.l. n. 347/2003, convertito in l. n. 39/2004, cd. “Marzano”) e, quindi, dall'apertura di altrettante procedure di licenziamento collettivo.

Osservazioni

Per concludere l'analisi della sentenza in esame, si rende opportuno ricostruire, passo dopo passo, il quadro generale delineato negli anni dalla magistratura in materia di ripartizione della competenza tra il giudice del lavoro e quello fallimentare.

Partiamo dal presupposto che, sul punto, la Corte di cassazione, ha riconosciuto comel'esistenza della procedura di Amministrazione Straordinaria impone la trattazione innanzi al Giudice della procedura, trattandosi di domande di condanna al pagamento di somme di denaro che andrebbero senza dubbio ad incidere sulla “par condicio creditorum”, e che detta competenza riguarda, alla stessa stregua del fallimento, anche la specifica procedura di Amministrazione Straordinaria”(cfr. Cass., sez. lav., ord. n. 15964/2007).

È pacifico che, infatti, “in caso di sottoposizione della società datrice di lavoro alla amministrazione straordinaria, deve distinguersi tra domande del lavoratore che mirano a pronunce di mero accertamento oppure costitutive e domande con contenuto di condanna, comprese quelle di accertamento e condanna. Devono, però, ritenersi collegate alla procedura non soltanto le controversie che derivano direttamente dalla stessa e si basano su di essa, ma anche quelle che sono destinate comunque ad incidere sulla procedura concorsuale e come tali debbono necessariamente essere esaminate nell'ambito di quest'ultima per assicurarne l'unità e per garantire la parità tra i creditori” (Cass., 9 ottobre 2006, n. 21634; Cass., 18 luglio 2007, n. 15964), in quanto per quest'ultime “opera la regola dell'improponibilità o improseguibilità della domande” (Cass., 23 luglio 2004, n. 13877; Cass., 5 dicembre 2000,, n. 15447).

Ampliando lo spettro della nostra disamina, applicando i principi soprarichiamati, in materia di lavoro, la giurisprudenza di merito ha in più occasioni statuito l'improcedibilità delle domande avanzate nei confronti di una procedura concorsuale quando aventi ad oggetto, a titolo esemplificativo, (i) la giusta causa delle dimissioni (Trib. di Roma, 28 dicembre 2015, n. 9235), (ii) l'illegittimità del recesso ante tempus da un rapporto di lavoro a termine con un dirigente e conseguente risarcimento del danno (Trib. di Bologna, 28 giugno 2016, n. 374), (iii) il diritto al trasferimento del lavoratore e conseguente risarcimento del danno (Trib. di Palermo, 5 maggio 2017, n. 1441), (iv) il diritto alla provvigione dell'agente (C. App. di Torino, 31 maggio 2016, n. 188), nonché (v) il diritto al pagamento di differenze retributive in genere (C. App. di Firenze, 12 febbraio 2018, n. 113).

Torniamo ora, però, nell'alveo delle controversie afferenti l'impugnativa di un licenziamento.

Fermo quanto sinora illustrato, è bene porre l'attenzione sul fatto che la giurisprudenza di merito, alle volte, si è discostata dall'orientamento qui massimato ed esteso la declaratoria d'improcedibilità anche ai giudizi in cui il petitum si sostanzia nell'accertamento dell'illegittimità del recesso, come riportato di seguito: “Vanno poi dichiarate improponibili ex art. 52 l. fall. le domande di reintegrazione e di condanna al risarcimento del danno, secondo la previsione dell'art. 18, comma 2, stat. lav., già proposte con il ricorso introduttivo contro la […] s.r.l. e rinnovate con il ricorso in riassunzione contro la curatela del fallimento della stessa società: la reintegra non è, infatti, possibile dal momento che non risulta che gli organi del fallimento abbiano disposto l'esercizio provvisorio, mentre le richieste risarcitorie, in quanto incidenti direttamente sul patrimonio della società fallita, sono attratte alla competenza degli organi concorsuali ai sensi dell'art. 52 l. fall., e debbono essere fatte valere nelle forme degli artt. 93 ss. l. fall.. La stretta strumentalità dell'accertamento dell'illegittimità del licenziamento per ottenere far valere il credito risarcitorio pecuniario (unica tutela possibile, non risultando autorizzato l'esercizio provvisorio) comporta l'attrazione, come sopra, alla competenza del Tribunale fallimentare anche della domanda di declaratoria di nullità dello stesso recesso datoriale. La permanenza di una competenza del Giudice del lavoro su tale domanda è configurabile soltanto laddove la pronuncia del Giudice specializzato non sia meramente funzionale alla partecipazione del lavoratore alla ripartizione dell'attivo – come è nella specie – ma corrisponda alla necessità di veder tutelata, attraverso l'accertamento dell'illegittimità del licenziamento, diritti non patrimoniali del prestatore estranei all'esigenza di tutela della par condicio creditorum – qui inesistenti, o comunque non allegati in alcun modo dalla ricorrente” (Trib. Alessandria, sez. lav., ordinanza del 7 novembre 2019).

La logica dietro queste considerazioni ha una sua solidità. A voler essere più realista del re, infatti, v'è da chiedersi quale sia il “bene della vita” cui può aspirare il dipendente che, fattivamente, non può essere reintegrato nel proprio posto di lavoro poiché non è stato disposto l'esercizio provvisorio dell'impresa fallita. In definitiva, questi potrebbe beneficiare unicamente di una tutela di natura economica con il possibile riemergere di tutti i dubbi interpretativi del caso già espressi in questa sede in termini di competenza; dubbi che possono essere risolti avendo a mente che la domanda di accertamento, a prescindere dalle conseguenze aventi a riferimento le eventuali statuizioni condannatorie, restano e devono restare in capo al Giudice del lavoro.

Al contempo, i Giudici di legittimità hanno in più occasioni stabilito come una simile prospettazione, a loro dire, squalificherebbe e svuoterebbe di contenuto la tutela reintegratoria, espressione di un legittimo interesse del lavoratore che si sostanzia in qualcosa di più del semplice reinserimento nell'organizzazione aziendale. Ed invero, secondo il loro insegnamento: “permane la competenza funzionale del giudice del lavoro, in quanto la domanda proposta non è configurabile come mero strumento di tutela di diritti patrimoniali da far valere sul patrimonio del fallito, ma si fonda anche sull'interesse del lavoratore a tutelare la sua posizione all'interno dell'impresa fallita, sia per l'eventualità della ripresa dell'attività lavorativa (conseguente all'esercizio provvisorio ovvero alla cessione dell'azienda, o a un concordato fallimentare), sia per tutelare i connessi diritti non patrimoniali, estranei all'esigenza della par condicio creditorum” (ex multis: Cass., sez. lav., 3 febbraio 2017, n. 2975).

In continuità con quanto poc'anzi rappresentato e con volontà di completezza di analisi (o di mero esercizio intellettuale), appare opportuno esplicare quali siano eventualmente le conseguenze di aver adito un giudice incompetente anziché il Giudice che ha dichiarato lo stato d'insolvenza con la speciale procedura di cui agli artt. 93 e ss. l. fall.

Al riguardo, chi scrive si limiterà a richiamare i precedenti giurisprudenziali che, nell'esaminare fattispecie analoghe a quella di cui sopra, hanno avuto modo di chiarire e precisare che “Le questioni concernenti l'autorità giudiziaria dinanzi alla quale va introdotta una pretesa creditoria nei confronti di un debitore dichiarato fallito costituiscono questioni attinenti al rito, che non implicano questioni di competenza, quando il tribunale fallimentare coincida con il tribunale ordinario; pertanto, qualora una domanda sia diretta a far valere, nelle forme ordinarie, una pretesa creditoria soggetta al regime del concorso, il giudice adìto è tenuto a dichiarare non la propria incompetenza, bensì, secondo i casi, l'inammissibilità, l'improcedibilità o l'improponibilità della domanda, siccome proposta secondo un rito diverso da quello previsto come necessario dalla legge, quindi inidonea a conseguire una pronuncia di merito, configurando detta questione una vicenda litis ingressus impediens, concettualmente distinta dalla incompetenza, che deve essere esaminata e rilevata dal giudice di merito prima ed indipendentemente dall'esame della questione di competenza che, eventualmente, concorra con essa (fattispecie avente ad oggetto una domanda di risarcimento danni proposta con il rito ordinario nei confronti di un imprenditore dichiarato fallito)” (cfr. Cass. 23 dicembre 2003 n. 19718; in senso conforme vedi anche: Cass. 23 aprile 2003 n. 6475; Cass. 26 luglio 2004 n.14028).

Si spera di aver proficuamente approfittato di questa sentenza per riprendere le fila di una vexata quaestio sulla quale la giurisprudenza sembra essersi ormai uniformata, augurandoci che la stessa, a danno dell'interprete, non venga riaperta come il “Vaso di Pandora” con il sopraggiungere del Codice della Crisi d'Impresa e dell'Insolvenza emanato con il d.lgs n. 14/2019.

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