La Cassazione chiude il cerchio sull'esenzione da revocatoria dei pagamenti nei termini d'uso

Alessandro Lendvai
08 Giugno 2021

Costituiscono pagamenti nei termini d'uso, ai sensi dell'art. 67, c. 3, lett. a), l. fall., quelli che sono stati eseguiti ed accettati, anche per comportamenti di fatto, con modalità diverse da quelle pattiziamente convenute tra le parti, nell'ambito di plurimi adempimenti, tali da fare ritenere instaurata una prassi, anteriore ai pagamenti oggetto di revocatoria, adeguatamente consolidata e stabile. In tema di esenzione da revocatoria fallimentare, l'art. 67, c. 3, lett. a), l. fall. consente modifiche tacite anche a contratti redatti per iscritto.
Massima

Costituiscono pagamenti nei termini d'uso, ai sensi dell'art. 67, comma 3, lett. a), l. fall., quelli che sono stati eseguiti ed accettati, anche per comportamenti di fatto, con modalità diverse da quelle pattiziamente convenute tra le parti, nell'ambito di plurimi adempimenti, tali da fare ritenere instaurata una prassi, anteriore ai pagamenti oggetto di revocatoria, adeguatamente consolidata e stabile. In tema di esenzione da revocatoria fallimentare, l'art. 67, comma 3, lett. a), l. fall. consente modifiche tacite anche a contratti redatti per iscritto.

Il caso

La Corte d'appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha accolto una domanda revocatoria ex art. 67, comma 2, l. fall. di pagamenti per oltre € 900.000,00, ritenendoli non esenti ai sensi dell'art. 67, comma 3, lett. a), l. fall. perché non eseguiti nei “termini d'uso”, posto che avvennero fra i 112 e i 142 giorni di ritardo, laddove il contratto prevedeva il termine di 30 giorni e dovendo aversi riguardo all'accordo tra le parti, non alla prassi concreta consolidatasi nel corso del rapporto, come ritenuto dal primo giudice.

Tale sentenza è stata impugnata con ricorso per cassazione sulla base di due motivi e, in particolare, per quanto qui d'interesse, per violazione o falsa applicazione dell'art. 67, comma 3, lett. a), l.fall., con riguardo all'interpretazione della nozione di “termini d'uso”, la quale deve riferirsi alle modalità di pagamento invalse nel rapporto tra le parti, come statuito da Cass. n. 25162 del 2016 e da altre successive decisioni, e non alla prassi del settore economico in questione, restando irrilevanti i patti contrattuali.

La Suprema Corte ha ritenuto il motivo fondato, per le ragioni che di seguito si illustrano.

La questione

La pronuncia in commento prende le mosse dall'analisi di come possono concretizzarsi le modalità di deroga delle pattuizioni convenute tra le parti, in cui consistono i pagamenti nei termini d'uso – da intendersi sia come tempi che come complessive modalità di pagamento - rispetto a quelli nei termini negoziali, e individua un parametro sistematico nella giurisprudenza formatasi sull'art. 1277 c.c.

In particolare, Cass. 10 giugno 2005, n. 12324, ma anche decisioni precedenti e successive, affermano che, se la regola dettata dalla norma citata dispone che le obbligazioni aventi ad oggetto il pagamento di una somma di denaro si estinguono con moneta avente corso legale nello stato, tale regola può essere derogata, consentendo il pagamento liberatorio con assegno circolare, quando si è in presenza di un accordo una tantum in tal senso tra le parti o di una prassi preesistente tra le parti medesime, che non necessita di un consenso manifestato di volta in volta o, ancora, di usi negoziali nel settore.

Il principio, trasposto dalla regola legale dell'art. 1277 c.c. a quella negoziale dei pagamenti nei termini previsti nel contratto, consente di ritenere che i pagamenti nei termini d'uso possano derogarvi se rientranti in una delle tre categorie citate. E, secondo la sentenza in commento, la categoria corretta è la seconda sopra menzionata, cioè la prassi preesistente tra le parti. Non l'accordo una tantum, perché un singolo accordo non può configurare un uso, né l'uso negoziale, perché imporrebbe di ricostruire una prassi vigente in ambito troppo esteso.

Se la ratio della revocatoria è quella di preservare la par condicio creditorum, l'eccezionale esenzione ha l'intento di circoscrivere l'estensione del rimedio revocatorio in presenza di un interesse ritenuto dal legislatore superiore, configurato nel fatto che tra imprenditori può ben essere attuata di fatto una modalità di pagamento diversa da quella negozialmente prevista.

La previsione di cui all'art. 67, comma 3, lett. a) l. fall., quindi, si pone in diretta correlazione con quella dell'art. 67, comma 1, n. 2) l. fall.. Se i pagamenti anormali sono revocati addirittura quando avvenuti nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento e con presunzione di scientia decoctionis, il pagamento nel termine d'uso lo rende normale quando è frutto di una prassi anteriore, consolidata e stabile, che, nel derogare alla clausola negoziale, pone una nuova regola inter partes idonea a configurare comunque come normali i pagamenti avvenuti in conformità.

Osservazioni

La Cassazione si è già, in tempi recenti, più volte occupata dell'esenzione in commento, delineando alcuni principi che sembrano aver acquistato stabilità. Cass. 7 dicembre 2016, n. 25162 ha per prima affrontato il tema, affermando subito in modo perentorio che la nozione di “termini d'uso” “attiene alle modalità di pagamento proprie del rapporto tra le parti e non già alla prassi del settore economico in questione”. Degna di nota, poi, l'individuazione della ratio dell'esenzione, ritenuta inequivocabile in quanto, se “la dizione normativa è di per sé non particolarmente chiara, (…) lo è la ratio della norma, intesa a favorire la conservazione dell'impresa nell'ottica dell'uscita dalla crisi, mentre la precedente disciplina della revocatoria era ritenuta di serio ostacolo alle prospettive di risanamento dell'impresa”.

Tale ratio, generalmente condivisa (ma anche autorevolmente criticata v. GALLETTI, Le nuove esenzioni dalla revocatoria fallimentare, in Giur. comm., 2007, II, che la definisce “nient'altro che una formula vuota”), trova eco anche nella giurisprudenza di merito, dove si legge che “la previsione normativa di cui all'art. 67, comma 2., lett. a) l. fall. che stabilisce la non revocabilità dei pagamenti di beni o servizi effettuati “nell'esercizio dell'attività di impresa” rientra nella categoria di esenzioni dalla revocatoria di quelle operazioni volte ad assicurare la prosecuzione dell'attività di impresa. La finalità sottesa è quella di ridimensionare la portata economica di talune applicazioni dell'azione revocatoria e di evitare in un certo senso l'isolamento dell'impresa che, pur non ancora in palese stato di decozione, si trovi in difficoltà economica. Ne consegue che devono essere esclusi dall'esenzione di cui alla citata norma tutti i pagamenti che, se pur riferibili a pregresse forniture di beni o servizi utili all'esercizio dell'impresa, sono stati però effettuati solo successivamente alla cessazione dell'attività di impresa ovvero alla sua messa in liquidazione, pena la compromissione della par condicio creditorum” (Trib. Asti 23 giugno 2017 n. 554, in ilcaso.it; nello stesso senso Trib. Napoli 17 maggio 2014 n. 7798, in Dir. Fall., 2015, II, 56).

Cass. 8 marzo 2018, n. 5587 ribadisce l'esclusione di rilevanza alla prassi del settore economico e pone il tema dei pagamenti nei termini d'uso in senso non solo cronologico ma anche di modalità di pagamento (nel caso di specie emerge “come nel periodo sospetto i pagamenti fossero stati attuati quasi essenzialmente con la girata di effetti cambiari di terzi” ma è “escluso che tra la fallita e l'odierna istante esistesse la consuetudine di estinguere i debiti attraverso il rilascio di titoli di terzi (…) e che quindi i pagamenti contestati corrispondessero ai predetti termini d'uso”).

In Cass. 18 marzo 2019, n. 7580 emerge con chiarezza che il termine d'uso deve essere configurato con riferimento alla prassi, sia pure fondata sulla tolleranza, perché “ciò che rileva è l'eventuale difformità dei tempi e dei modi dei pagamenti non già rispetto a quanto pattuito ma a quanto verificatosi in precedenza tra le parti”. Nel caso di specie la Corte ha rilevato che, sostanzialmente, le clausole negoziali non sono mai state rispettate, essendosi di fatto creato un uso, condiviso in modo tacito, ma stabile e consolidato, di pagamenti in ritardo costante e regolare. Il concreto atteggiarsi dell'esecuzione del rapporto, quindi, prevale sul contenuto del contratto.

La successiva Cass. 9 aprile 2019, n. 9851 sviluppa il concetto in piena continuità, affermando che l'esenzione da revocatoria in commento richiede “la dimostrazione non tanto dell'assenza di precedenti inadempimenti, ma della consistenza della quotidianità sotto il profilo delle modalità di adempimento invalse fra le parti, al fine di consentire al giudice di apprezzare se le parti nel caso di specie si fossero scostate dai termini consueti fino ad allora seguiti”.

La sentenza n. 27939/20 oggi annotata, all'esito del percorso giurisprudenziale sintetizzato, si pone l'obiettivo di fare, in qualche modo, il punto definitivo sulla nozione di “termini d'uso”, realizzando la funzione assegnata dall'ordinamento alla Corte di cassazione, che impone di ricercare non una qualsiasi delle plurime interpretazioni in astratto possibili, ma quella più esatta (art. 65 ord. giud.), sulla base del diritto positivo. Si può quindi tentare di verificare se questo programma indubbiamente ambizioso è stato realizzato.

Colpisce, in primo luogo, l'accantonamento della presunta ratio dell'istituto, individuata nella conservazione e nella prosecuzione dell'attività di impresa e invero data spesso un po' per scontata e ripetuta in modo acritico. Come si è visto, invece, la sentenza n. 27939/20 individua una ratio comune a tutte le esenzioni, previste dalle lettere di cui si compone l'art. 67, comma 3 l. fall., nell'esigenza di circoscrivere, pur in situazioni del tutto diverse, il rigore del rimedio revocatorio, volto a tutelare la par condicio, quando si è in presenza di un interesse ritenuto superiore dal legislatore, che specificamente, con riguardo alla lett. a), consiste nella libertà per gli imprenditori di attuare di fatto una modalità di pagamento diversa da quella inizialmente negoziata. Non emergendo in alcun modo citato all'interno della fattispecie l'elemento della prosecuzione, la ratio tradizionale era stata già messa in discussione da parte della dottrina. Se l'azione revocatoria fallimentare ha la finalità di disincentivare i terzi dall'intrattenere rapporti con l'imprenditore in crisi, nell'ipotesi di pagamenti conformi a una prassi consolidata la revocatoria non può realizzare la funzione tipica attribuitale perché l'accipiens non avrebbe motivo di sentirsi in alcun modo disincentivato a ricevere quei pagamenti, in quanto totalmente inconsapevole, data la regolarità comportamentale instauratasi, delle condizioni di salute del debitore (così GALLETTI, cit.; concorda DOLMETTA, Sulla revocatoria fallimentare riformata: problemi applicativi su «termini» ed «esenzioni», in ilcaso.it).

Alcune categorie di controparti dell'imprenditore, come, per quello che qui rileva, i fornitori, non sono coinvolte dall'onere di monitoraggio che spetta invece ai finanziatori, “esonerandole dal rischio di revocatoria se operano secondo modalità standardizzate o secondo modalità che non sono comunque assimilabili a quelle dei finanziatori. A questo mirano, a ben vedere, le esenzioni dall'azione revocatoria poste dalle lettere a), c) ed f) dell'art. 67 comma 3 l. fall. (…) Si è cioè ritenuto che l'onere di vigilare sulla solvibilità del debitore debba ricadere su altri soggetti: le banche, i creditori professionali, e ancor prima gli organi amministrativi e di controllo del debitore”. L'esenzione a favore dei fornitori si giustifica proprio con la necessità di esonerarli dall'onere di monitoraggio qualora operino con modalità standardizzate e il rapporto non denoti anomalie (STANGHELLINI, La nuova revocatoria fallimentare nel sistema di protezione dei diritti dei creditori, in Riv. dir. comm., 2009).

Altro elemento degno di nota è la correlazione posta tra l'esenzione in parola e la revocatoria dei pagamenti avvenuti con mezzi anormali prevista dall'art. 67, comma 1, n. 2) l. fall. Il pagamento anormale, si legge, è revocato “proprio in quanto l'accettazione di un mezzo inusuale di pagamento lascia presumere iuris et de iure la violazione della par condicio”.

L'eccezione posta dall'esenzione, pertanto, “è necessariamente nel senso che, pur quando le modalità di pagamento siano estranee alla previsione della relativa clausola contrattuale, il pagamento resta fermo ed efficace, tutte le volte che fra le parti si sia instaurata una prassi anteriore – adeguatamente consolidata e stabile, così da potersi definire tale – volta a derogare a quella clausola contrattuale ed introdurre, come nuova regola inter partes, il pagamento nei termini diversi e più lunghi”.

Pur con quella che pare un'inesattezza (accettare un mezzo inusuale di pagamento configura una presunzione iuris tantum di scientia decoctionis, non iuris et de iure di violazione della par condicio, che è violata anche da pagamenti con mezzi normali), il raffronto offre utili spunti di riflessione. Il pagamento anormale diviene normale, quindi non revocabile, se originariamente oggetto di pattuizione contrattuale (“secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza della Corte di cassazione, la cessione di credito, quando "effettuata in funzione solutoria di un debito scaduto ed esigibile, si caratterizza come anomala rispetto al pagamento effettuato in danaro od altri titoli di credito equivalenti, in quanto il relativo processo satisfattorio non è usuale, alla stregua delle ordinarie transazioni commerciali". Resta unicamente salva, va precisato, l'eventualità che la cessione sia stata nel concreto prevista come mezzo di "estinzione contestuale al sorgere del credito" al cui specifico soddisfacimento venga per l'appunto destinata” Cass. 2 novembre 2017, n. 26063), mentre il pagamento normale sarebbe sempre revocabile, pur col regime aggravato di prova dell'elemento soggettivo e il termine semestrale, senza l'esenzione del comma 3, lett. a). In presenza dell'esenzione, invece, i pagamenti nei termini negoziali regolarmente rispettati divengono anche pagamenti nei termini d'uso, in quanto tali esentati, e i pagamenti nei diversi termini attuati rispetto alle pattuizioni contrattuali, che di per sé sarebbero anormali, se acquistano di fatto carattere di prassi consolidata come nuova regola inter partes, vanno esenti da revocatoria in quanto pagamenti nei termini d'uso. In proposito, si ritiene “indubbio che questa esenzione sia «capace» – ove non convenientemente interpretata – di assorbire la regola: di mangiarsi praticamente lo spazio di principio che il sistema vigente ha ritenuto di lasciare alla revoca degli atti normali” (DOLMETTA, cit.).

Quindi non sembra tanto che la locuzione “termini d'uso” non “afferisca alle clausole negoziali come previste in contratto, interpretazione che la priverebbe di qualsiasi portata innovativa”, ma piuttosto che non sia evidentemente limitabile solo alle stesse. Infatti, con l'esenzione in parola, i pagamenti normali, in quanto rispettosi delle clausole negoziali, che altrimenti sarebbero revocabili, non lo sono, ma ciò vale anche per quelli avvenuti in termini diversi da quelli contrattuali, se espressione di una nuova prassi consolidata che li configura come esatti adempimenti.

Proseguendo nell'intento di realizzare un'idonea collocazione sistematica dell'istituto, la sentenza evidenzia come l'impossibilità di considerare inesatto l'adempimento avvenuto nei termini d'uso, configurati come si è detto, abbia rilevanti conseguenze civilistiche, individuando tra le principali quelle in ordine alla mora, all'eccezione di inadempimento, all'azione di risoluzione, al risarcimento del danno.

Un altro punto interessante della sentenza in commento è quello in cui, ribadito che l'onere della prova che i pagamenti siano avvenuti nei termini d'uso ricade sull'accipiens, precisa che l'art. 67, comma 3, lett. a), l. fall. consente modifiche tacite anche a contratti redatti per iscritto, “posto che non avrebbe senso ammettere l'applicabilità dell'esenzione ai soli contratti conclusi verbalmente”.

Non è chiaro se la sentenza, con queste poche parole, abbia inteso superare quello che è un consolidato principio giurisprudenziale. Secondo la Cassazione, infatti, in tema di forma degli accordi modificativi delle originarie clausole contrattuali di un contratto per il quale sia prevista dalla legge la forma scritta ad substantiam ex art. 1350 c.c., le modifiche che riguardino elementi essenziali del contratto devono rivestire a loro volta la forma scritta, essendo consentite solamente le modifiche tacite o verbali che abbiano ad oggetto elementi non essenziali del contratto (Cass. 12 gennaio 2006 n. 419; Cass. 25 giugno 2005 n. 13703).

La sentenza in commento, nell'ammettere in termini così generali, ai fini dell'esenzione da revocatoria, le modifiche tacite anche ai contratti redatti per iscritto, sembra superare implicitamente la distinzione tra elementi essenziali e non essenziali del contratto sopra indicata, anche se bisogna tenere presente che gli accordi modificativi riguardanti l'esecuzione del contratto si possono stipulare anche verbalmente o per fatti concludenti, non riguardando di regola elementi essenziali del contratto stesso (Cass. 12 gennaio 2006 n. 419, cit.).

Un secondo dubbio riguarda i mezzi di prova ammissibili, in quanto la sentenza prosegue affermando che “onde si avrà ampia applicazione, quanto alla prova testimoniale eventualmente richiesta, degli artt. 2721, comma 2, e art. 2723 c.c.; la soluzione è coerente, altresì, con l'art. 2722 c.c., il quale vieta la prova per testimoni solo dei patti contrari conclusi prima o contemporaneamente al contratto”.

Ad una prima lettura, Cass. n. 27939/20 sembrerebbe così ammettere la prova testimoniale anche in caso di modifiche verbali ai contratti formali. La sentenza, infatti, prima afferma su quale parte ricade l'onere della prova, quindi ammette le modifiche tacite anche in caso di contratti formali e, di conseguenza (“onde”), l'ampio ricorso alla prova testimoniale.

Ad una lettura più attenta, però, si nota che, tra le norme richiamate in sentenza, manca proprio la norma più importante, ai fini della valutazione dell'ammissibilità della prova testimoniale in riferimento a contratti redatti per iscritto, ossia l'art. 2725 c.c.

Come è noto, la testimonianza è considerata con una certa sfiducia dal legislatore, il quale ha tipizzato diversi limiti di ammissibilità di tale prova, disciplinati nel codice civile negli artt. 2721, 2722, 2723 e 2725, mentre l'art. 2724 disciplina alcune ipotesi in cui la prova per testi è sempre ammessa. In estrema sintesi, i limiti in questione sono:

1) limite per valore. La prova testimoniale non è ammissibile quando sia invocata per provare il perfezionamento o il contenuto di un contratto avente un valore superiore ad € 2,58 (art. 2721, comma 1, c.c.). Tale previsione non ha un reale contenuto precettivo, non essendo mai stata adeguata al mutato valore della moneta, considerato anche che il giudice può derogarvi, consentendo la prova oltre il limite predetto tutte le volte in cui lo ritenga opportuno (e in effetti nella prassi, visto il valore irrisorio del limite, ciò avviene sempre), tenuto conto della qualità delle parti, della natura del contratto e di ogni altra circostanza;

2) limite per la prova di patti aggiunti o contrari al contenuto di un documento, vietata qualora la loro stipulazione sia anteriore o contemporanea alla redazione di detto documento (art. 2722 c.c.). Come rilevato dalla sentenza qui annotata, tale divieto non opera per patti contrari posteriori al contratto. In tal caso, infatti, il giudice può ammettere la testimonianza se ritiene verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali al contratto stesso (art. 2723 c.c.);

3) limite per la prova di contratti che richiedono la forma scritta ad substantiam ovvero ad probationem, anche nel caso di forma convenzionale (art. 2725 c.c.). Di regola, l'inammissibilità della prova testimoniale non è rilevabile d'ufficio e deve essere eccepita dalla parte interessata (Cass. 19 febbraio 2018 n. 3956), ma si ritiene che, in caso di contratti soggetti alla forma scritta ad substantiam, i limiti di ammissibilità della prova testimoniale siano dettati da ragioni di ordine pubblico, con la conseguenza che l'inammissibilità della prova assunta in violazione di detti limiti non è sanata dalla mancata tempestiva opposizione della parte interessata (Cass. 24 novembre 2015 n. 23934).

Dei vari limiti legali alla prova testimoniale, quindi, la sentenza non nomina proprio la norma principale che regola i rapporti tra testimonianza e contratti aventi forma scritta.

Sembra difficile ipotizzare che la sentenza qui annotata abbia inteso introdurre un'eccezione al divieto di prova testimoniale in modo così sbrigativo, considerato anche l'approfondimento dedicato alle altre questioni giuridiche trattate.

C'è da chiedersi, esclusa la prova testimoniale, quali possibilità abbia l'accipiens di provare le nuove modalità di pagamento in caso di contratti formali.

Al riguardo, occorre distinguere tra forma richiesta per la validità o per la prova del contratto, poiché l'adempimento del requisito della forma scritta richiede modalità differenti nei due casi.

Nel caso di forma ad probationem, la forma scritta è forma della prova e non dell'atto, con la conseguenza che il requisito formale è soddisfatto anche in caso di confessione scritta dei contraenti o se risulta per iscritto la quietanza. Perciò la prova scritta del contratto, e quindi delle sue modifiche, è compatibile con la conclusione orale o tacita del contratto stesso.

Per quanto riguarda il caso di forma scritta ad substantiam, il requisito della forma non richiede necessariamente l'espressione della volontà delle parti con la sottoscrizione di un documento cartolarmente unico (Cass. 22 febbraio 2000 n. 1989), potendo così risultare dalla combinazione di più documenti. È essenziale, però, che la volontà contrattuale delle parti sia in forma scritta (non è sufficiente una scrittura che, come la ricevuta, abbia carattere di dichiarazione di scienza), che l'atto comporti la sottoscrizione di tutte le parti e che l'intero contenuto del contratto sia in forma scritta, senza la possibilità di distinguere tra clausole essenziali e non essenziali.

In caso di revocatoria fallimentare, quindi, qualora per il contratto, le cui clausole siano state oggetto di modifica, la forma scritta sia richiesta solamente ad probationem, il convenuto potrà provare i termini d'uso, ad esempio, tramite il deposito in giudizio di quietanze, ricevute di bonifici ed estratti conto bancari, documenti che, invece, non saranno sufficienti nell'ipotesi in cui per il contratto la forma scritta sia richiesta a pena di nullità.

Conclusioni

Con la sentenza n. 27939/20 è verosimile che la Cassazione abbia messo un punto fermo sulla nozione dei termini d'uso da intendere come prassi instauratasi tra le parti, anteriore ai pagamenti oggetto di revocatoria, adeguatamente consolidata e stabile, trovando anche un'idonea ricostruzione sistematica dell'istituto in ambito civilistico. Una corretta applicazione dei principi dalla stessa enunciati dovrebbe impedire in futuro di leggere motivazioni del tenore di quella che si va a illustrare.

Una decisone di merito, dopo aver premesso che nove dei dieci pagamenti, di cui il fallimento aveva chiesto la revoca, sono avvenuti nel rispetto dei termini negoziali, prosegue evidenziando che l'unico ritardo “ammontante a 33 giorni – non è di per sé sufficiente a rendere revocabile il relativo pagamento, posto che il ritardo non appare significativo e in precedenza risulta che il creditore avesse già tollerato pagamenti effettuati anche oltre un mese dalla scadenza (…) si vedano le fatture con scadenza al 14.03.2014 e 30.03.2014, tutte pagate il 17.04.2014. Ne consegue che il pagamento è stato fatto nei termini d'uso, perché eseguito con normali mezzi di pagamento (bonifici sul conto della società) e nell'ambito della regolamentazione contrattuale e delle prassi sussistenti tra le parti” (Trib. Roma 25 settembre 2020, n. 12919/20, inedita). In realtà, se i pagamenti per lo più avvenivano nel rispetto dei termini negoziali, quelli devono essere considerati i termini d'uso, che pertanto esentano da revocatoria, mentre il pagamento ritardato non può giovarsi del regime del comma 3, lett. a), sia perché un paio di casi analoghi sono ben lungi dal configurare la prassi consolidata richiesta, sia perché possono essere considerati nei termini d'uso (quindi normali e non revocabili) alternativamente i pagamenti avvenuti nei termini negoziali o nei diversi termini idonei a configurare una nuova regola inter partes, ma certamente mai entrambi in modo cumulativo.

Infatti non basta, afferma la sentenza annotata, che alcuni pagamenti fossero compiuti ed accettati in un lasso temporale maggiore: oggetto di prova è la circostanza di un “uso” diverso tra le parti, quale condotta reiterata sul piano oggettivo, stabilizzatasi già prima dei pagamenti sospetti. Per l'individuazione di una dilazione dei pagamenti secondo i “termini d'uso”, dunque, non vale la mera esistenza di alcuni pagamenti in ritardo, rispetto ai termini pattuiti, ove essa derivi da singoli momenti patologici della vita dell'impresa, caratterizzati da specifici accadimenti di fatto e da un'isolata tolleranza da parte del creditore”.

Vuoi leggere tutti i contenuti?

Attiva la prova gratuita per 15 giorni, oppure abbonati subito per poter
continuare a leggere questo e tanti altri articoli.