Insider trading: la Corte Costituzionale si pronuncia sul diritto al silenzio
11 Giugno 2021
Massima
In merito alla sussistenza del diritto delle persone fisiche di non rispondere nell'ambito dei procedimenti Consob relativi all'illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, la Corte Costituzionale ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 187-quinquiesdecies TUF nella parte in cui tale disposizione si applica “anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d'Italia o alla Consob risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato”.
Il caso
Nel maggio 2012 la Consob irrogava a una persona fisica, due sanzioni amministrative pecuniarie per un importo complessivo di trecentomila euro – rispettivamente euro duecentomila relativamente all'acquisto di azioni di una società quotata, della quale era socio e membro del consiglio di amministrazione, sulla base dell'informazione privilegiata concernente l'imminente lancio di un'offerta pubblica di acquisto della medesima ed euro centomila per induzione di una terza persona all'acquisto delle azioni della predetta società – per l'illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate commesso tra il 19 e il 26 febbraio 2009 mediante compimento operazioni di effettuate con abuso e comunicazione illecita di informazioni privilegiate ai sensi dell'articolo 187-bis T.U.F. Inoltre, la Commissione sanzionava il socio per ulteriori cinquantamila euro ai sensi di quanto previsto dall'articolo 187-quinquiesdecies T.U.F. poiché il medesimo, presentatosi all'audizione dinnanzi alla Commissione, si rifiutava di rispondere alle domande poste nei suoi confronti; altresì disponeva la sanzione accessoria della perdita dei requisiti di onorabilità per un periodo di 18 mesi oltre alla confisca del profitto e dei mezzi utilizzati per la realizzazione dell'illecito; per le medesime condotte era stato altresì contestato il reato di abuso di informazioni privilegiate previsto dall'articolo 184 TUF in separato procedimento penale all'esito del quale l'imputato ha concordato con il pubblico ministero la pena di undici mesi di reclusione e una multa pari ad euro 300.000. Avverso le sanzioni inflitte veniva proposta, senza successo, opposizione dinnanzi alla Corte d'Appello di Roma e, successivamente, ricorso alla Corte di Cassazione al fine di contrastare le conclusioni del giudice di secondo grado. La Suprema Corte, con ordinanza n. 3831 del 16 febbraio 2018, sospendeva il giudizio, investendo la Corte Costituzionale questione di legittimità costituzionale dell'articolo 187-quinquiesdecies T.U.F., nel testo originariamente introdotto dall'art. 9, comma 2, lett. b), l. n. 62/2005, di recepimento della Direttiva 2003/6/CE (Market Abuse Directive), oggi sostituito dall'art. 30, paragrafo 1, lett. b) Reg. UE n. 596/2014 (Market Abuse Regulation), in relazione agli articoli 24, 111 e 117 della Costituzione, all'art. 6 CEDU nonché all'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea nella parte in cui il predetto art. 187-quinquiesdecies sanziona la condotta consistente nella mancata tempestiva ottemperanza alle richieste di Consob o nella causazione di un ritardo nell'esercizio delle sue funzioni di vigilanza nell'ipotesi di contestazione di un illecito di abuso di informazioni privilegiate. La Cassazione sottolinea, infatti, come dalla lettura della Direttiva 2003/6/CE si evinca un generale obbligo di collaborazione con l'autorità di vigilanza, la cui violazione deve essere sanzionata dallo Stato membro ai sensi dell'art. 14, parù. 3, della direttiva medesima; evidenzia altresì come tale obbligo sia sancito anche dal MAR. Secondo l'opinione espressa dai giudici di legittimità la predetta disposizione del T.U.F. si collocherebbe in aperto contrasto con l'art. 24 Cost, il quale individua e sancisce come inviolabile il diritto alla difesa, in ogni stato e grado del procedimento. Pertanto, considerato che nell'ordinamento italiano l'accertamento di un illecito amministrativo può talvolta costituire l'antecedente logico dell'irrogazione di sanzioni, anche penali, nello svolgimento dei procedimenti amministrativi – come, nel caso di specie, quello dinnanzi alla Consob – colui il quale risulti destinatario delle predette sanzioni dovrebbe godere di tutte le garanzie relative al diritto di difesa così come sancite dalla carta costituzionale, ivi incluso il diritto a non rendere dichiarazioni che possano suffragare la propria incolpazione. In secondo luogo, la disposizione censurata contrasterebbe con l'art. 111 Cost., il quale, nel delineare i principi ispiratori del giusto processo, sancisce un sostanziale principio di parità ed eguaglianza delle parti nel processo che, nel caso di specie, sembrerebbe esser venuto meno in ragione dell'obbligo, poi sanzionato, del socio di collaborare attivamente con la Consob e di non potersi dunque astenere dal fornire risposte alle domande formulategli. Del pari, un ulteriore motivo di censura addotto nei confronti dell'art. 187-quinquiesdecies T.U.F. concerneva la sua sospetta incompatibilità con quanto previsto a livello comunitario con particolare riferimento, da un lato, all'art. 6 CEDU e, dall'altro, all'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, rilevando come il diritto di non cooperare alla propria incolpazione e, conseguentemente, il diritto al silenzio debbano essere considerati come una conditio sine qua non del principio del giusto processo anche nel diverso ambito dei procedimenti amministrativi funzionali all'irrogazione di sanzioni punitive. Infatti, pare opportuno rilevare, da un lato, come la menzionata disposizione del T.U.F. rappresenti diretta esplicazione di obblighi assunti in sede europea, essendo stata appositamente introdotta nell'ordinamento italiano al fine di adempiere a quanto previsto dal legislatore europeo in tema di repressione degli abusi di mercato con l'adozione della Direttiva 2003/6/CE (oggi sostituita dal Regolamento UE n. 596/2014 e, per i profili sanzionatori, dalla Direttiva 2014/57/UE).
Le questioni giuridiche e le soluzioni
La Consulta, con ordinanza n. 117 del 6 marzo 2019, considerato che la questione di legittimità costituzionale proposta dalla Suprema Corte implica la valutazione di una pluralità di assetti normativi sia di matrice nazionale sia di diretta derivazione comunitaria, sottoponeva alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea la seguente questione pregiudiziale: “se l'art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l'art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell'autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura punitiva”.
L'orientamento espresso dalla giurisprudenza comunitaria – CGUE Grand Chambre 2 febbraio 2021 Con sentenza del 2 febbraio 2021 (causa C-481/19, D.B. contro Consob) la Grande Sezione della Corte di giustizia ha affrontato la questione pregiudiziale sottoposta dalla Corte costituzionale. Prendendo le mosse dalla nozione di equo processo e dalla giurisprudenza relativa al perimetro di applicazione di tale diritto, la Corte di Giustizia ha evidenziato l'assoluta centralità del diritto al silenzio quale fondamentale garanzia per l'individuo nell'ambito di procedimenti all'esito dei quali possano emergere ipotesi di responsabilità penale o irrogazione di sanzioni amministrative a carattere sostanzialmente penale. Il diritto al silenzio, che trova la sua estrinsecazione nel diritto primario dell'Unione e, in particolare, sia nell'articolo 6 CEDU sia, rispettivamente, negli articoli 47 e 48 CDFUE, si collega indissolubilmente al noto principio processual penalistico nemo tenetur se detegere in forza del quale nessuno può essere obbligato ad affermare la propria responsabilità penale e, pertanto, ad autoincriminarsi; ciò implica necessariamente che una persona fisica non possa essere sanzionata per il solo rifiuto di fornire all'autorità competente risposte dalle quali potrebbe desumersi la propria responsabilità. La Corte di Giustizia, pur affermando che il diritto al silenzio non possa essere invocato per giustificare qualsiasi omessa collaborazione della persona interessata con le autorità competenti, ha precisato i presupposti in presenza dei quali il predetto diritto debba essere rispettato anche nell'ambito di procedimenti finalizzati all'accertamento di illeciti amministrativi: la qualificazione giuridica dell'illecito nell'ordinamento interno, la natura dell'illecito stesso e, infine, il grado di severità della sanzione. Con particolare riferimento alla potestà sanzionatoria esercitabile da Consob la Corte ha puntualizzato che, data la finalità sostanzialmente repressiva in relazione a determinate condotte e la particolare severità, le sanzioni irrogate da Consob si prestano ad essere considerate come di natura sostanzialmente penale (cfr. sul punto Corte Europea dei diritti dell'uomo, Grande Stevens e altri c. Italia, 4 marzo 2014). La Corte, sulla scorta dei rilievi effettuati circa la corretta interpretazione della normativa europea in tema di abusi di mercato (segnatamente, sia la Direttiva 2003/6/CE che il Regolamento n. 596/2014/UE), ha concluso affermando che l'art. 14, paragrafo 3, della Direttiva 2003/6/CE e l'art. 30, paragrafo 1, lett. b), del Regolamento n. 596/2014/UE debbano essere interpretati nel senso che essi consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica che, nell'ambito di un'indagine svolta nei suoi confronti dall'autorità competente, si rifiuti di fornire a quest'ultima risposte dalle quali possa la sua responsabilità per un illecito punibile con sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale. Pertanto, la Corte ha chiarito in via definitiva che la disciplina europea posta a presidio della repressione dell'abuso di informazioni privilegiate non impone agli Stati membri di irrogare simili sanzioni ma, soprattutto, precisa che una loro eventuale applicazione risulterebbe in palese contrasto con il diritto primario dell'Unione all'interno del quale, per effetto di quanto previsto dal Trattato di Lisbona, rientra anche la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea. Il Trattato di Lisbona stabilisce che la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea “ha lo stesso valore giuridico dei trattati” (Art. 6, par. 1, TUE). L'attribuzione di un valore giuridico equivalente a quello dei trattati non concerne, viceversa, la CEDU. L'Art. 6, par. 2, TUE, infatti, attribuisce all'Unione Europea la competenza ad aderire formalmente alla CEDU, diventandone parte contraente. Il percorso di adesione ha tuttavia subito una battuta di arresto a valle dell'adozione di un parere negativo, sul progetto di adesione, da parte della Corte di Giustizia nel dicembre del 2014 la quale ha ritenuto non coerente con il diritto primario dell'Unione l'approccio consistente nell'equiparare l'Unione Europea a qualsiasi altro stato aderente riservando ad essa un ruolo del tutto identico a qualsiasi altra parte contraente.
La posizione della Consulta La Corte Costituzionale, nella pronuncia in commento, sottolinea – come peraltro già affermato nella precedente ordinanza n. 117/2019 – che il diritto al silenzio dell'imputato, sebbene non espressamente riconosciuto a livello costituzionale, “rappresenta un corollario essenziale dell'inviolabilità del diritto di difesa riconosciuto dall'articolo 24 cost.” e che tale principio, sebbene previsto in ambito penalistico, possa altresì estendersi ai procedimenti amministrativi al cui esito vengano irrogate sanzioni di natura punitiva. A suffragio di una simile conclusione viene rilevato che le sanzioni amministrative previste dall'ordinamento italiano in materia di abuso di informazioni privilegiate integrino, in ragione della loro peculiare incisività, misure di carattere sostanzialmente punitivo. Infatti, l'elevato ammontare delle sanzioni pecuniarie (fino ad euro cinque milioni o fino a dieci volte il profitto conseguito per effetto della condotta illecita, oltre alla confisca per equivalente del profitto e dei mezzi utilizzati per la realizzazione dell'illecito) nonché la previsione di ulteriori fattispecie interdittive che limitano – di fatto – possibili sviluppi professionali per i soggetti colpiti dalla sanzione giustificherebbero di per sé il riconoscimento, in capo al soggetto incolpato di una condotta di insider trading, dei medesimi diritti di difesa che la Costituzione garantisce in ambito penale. Osservazioni
L'argomentazione della Consulta si pone in soluzione di continuità con quanto affermato dalla giurisprudenza comunitaria; a ben vedere, i parametri normativi nazionali e comunitari richiamati, segnatamente, l'articolo 24 Cost., l'articolo 6 CEDU, gli artt. 47 e 48 CDFUE contribuiscono, complessivamente considerati, alla definizione della nozione di diritto di difesa e degli standard minimi di tutela per il suo esercizio. Del pari, l'art. 187-quinquiesdecies T.U.F. costituisce puntuale attuazione nell'ordinamento interno di quanto stabilito dalla Direttiva 2003/6/CE prima, e dal Regolamento UE n. 596/2014 poi, rendendo evidente come la risoluzione della questione alla base del caso di specie sia direttamente connessa alla corretta interpretazione in primis del diritto dell'unione e, in secondo luogo, di quello interno. L'interpretazione delle norme del diritto nazionale, d'altro canto, deve essere condotta nell'ottica di addivenire ad un risultato conforme a quanto disposto a livello comunitario; un eventuale disallineamento delle osservazioni fornite dai due organi giudiziari rischierebbe, infatti, di minare l'esigenza di uniformità della disciplina sugli abusi di mercato nel panorama europeo e che si pone alla base dell'utilizzo dello strumento del regolamento, atto notoriamente self-executing in tutti gli Stati membri, in luogo della direttiva. La Consulta, pertanto, nel far propria l'argomentazione della Corte di Giustizia secondo la quale il diritto al silenzio si trova al centro della nozione di equo processo, e partendo dal presupposto che tutti i principi appena delineati presuppongono la comune ratio derivante dal diritto di non essere costretto a deporre contro sé stesso, ritiene che sia incompatibile con il diritto al silenzio la possibilità di sanzionare una persona fisica la quale, a seguito di richiesta di informazioni da parte della Consob nello svolgimento della propria attività di vigilanza nel quadro della repressione degli abusi di mercato, si sia rifiutata di rispondere alle domande, formulate in sede di audizione o per iscritto, dalle quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo sanzionato con misure di carattere punitivo, o addirittura una sua responsabilità di carattere penale. Argomenta tuttavia la Corte che, in ogni caso, il diritto al silenzio non giustifica comportamenti di natura ostruzionistica finalizzati esclusivamente alla causazione di ritardi nella definizione del procedimento; si fa riferimento, in particolare, al rifiuto di presentarsi ad un'audizione, alla messa in atto di condotte indirizzate ad ottenere il rinvio della medesima ovvero al rifiuto di consegnare alla Consob evidenze documentali debitamente richieste dalla medesima conformemente alle disposizioni del T.U.F. (in particolare, l'art. 187-octies T.U.F. prevede che la Consob possa compiere tutti gli atti necessari all'accertamento delle violazioni relative alla disciplina degli abusi di mercato e può pertanto richiedere, a chiunque possa essere informato sui fatti, notizie, dati o documenti sotto qualsiasi forma, registrazioni di conversazioni telefoniche, dati sulle operazioni effettuate nonché procedere ad ispezioni e perquisizioni. Risulta evidente che, onde non svuotare completamente di contenuto l'approdo raggiunto dalla Consulta, la particolare pervasività dei poteri ispettivi attribuiti all'autorità di vigilanza debba essere necessariamente parametrata con le garanzie imposte dal diritto di non autoincriminarsi. Difatti, se il soggetto incolpato non potesse opporre il proprio rifiuto alla richiesta documentale avanzata dall'autorità di vigilanza, e dalla produzione della quale potrebbe desumersi un'ipotesi di responsabilità a carico dell'incolpato, l'utilità del diritto al silenzio sarebbe – di fatto – completamente esautorata). Conclusioni
Sulla scorta delle precedenti argomentazioni, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 187-quinquiesdecies T.U.F., sia nella formulazione vigente al momento del fatto addebitato al ricorrente, sia in quella attuale, nella parte in cui tale disposizione trova applicazione anche nei confronti della persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Consob (o alla Banca d'Italia) risposte dalle quali possa emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato.
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