Licenziamento illegittimo: impossibile la reintegrazione in caso di cessazione dell'attività per intervenuto fallimento

Luigi Andrea Cosattini
11 Giugno 2021

Qualora nel periodo intercorrente fra la data del licenziamento e l'emanazione della sentenza resa all'esito del giudizio di impugnazione di esso l'attività aziendale del datore di lavoro sia interamente cessata (nel caso di specie, per intervenuto fallimento senza esercizio provvisorio), è preclusa al giudice la possibilità di ordinare la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.
Massima

Qualora nel periodo intercorrente fra la data del licenziamento e l'emanazione della sentenza resa all'esito del giudizio di impugnazione di esso l'attività aziendale del datore di lavoro sia interamente cessata (nel caso di specie, per intervenuto fallimento senza esercizio provvisorio), è preclusa al giudice la possibilità di ordinare la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato.

Il caso

Tre dipendenti hanno impugnato il licenziamento collettivo ad essi intimato all'esito della relativa procedura intrapresa dalla società datrice di lavoro, deducendo la violazione dei criteri di scelta adottati per selezionare i dipendenti destinatari del provvedimento.

Il giudizio instaurato dai lavoratori li ha visti soccombenti in primo grado e in appello, ma vittoriosi a seguito della decisione emessa dalla Corte di Cassazione, che ha accolto il loro ricorso con conseguente rinvio alla Corte d'Appello di Roma in diversa composizione.

Nelle more del giudizio la società datrice di lavoro è stata dichiarata fallita e, non essendo stato autorizzato l'esercizio provvisorio dell'impresa, ha totalmente cessato la propria attività provvedendo conseguentemente alla risoluzione del rapporto di lavoro con tutti i propri residui dipendenti. Riassunto il giudizio avanti alla Corte d'Appello, quest'ultima ha accolto il ricorso originariamente proposto dai tre dipendenti e per l'effetto ha dichiarato l'illegittimità dei licenziamenti ad essi intimato e condannato il Fallimento della società convenuta alla reintegrazione dei tre lavoratori nel posto di lavoro precedentemente occupato, nonché al risarcimento del danno a loro favore ai sensi dell'art. 18 L. 300/1970. Nei confronti della sentenza emessa in sede di rinvio dalla Corte d'Appello di Roma il Fallimento della società convenuta ha proposto ricorso per cassazione, affidato a (ben) undici motivi.

Dieci di essi (che pure coinvolgevano questioni interessanti e delicate, ma che in questa sede non rilevano) sono stati respinti ed uno solo, quello oggetto del presente approfondimento e riguardante la legittimità o meno dell'ordine di reintegrazione nel posto di lavoro pur essendo sopravvenuta la totale cessazione dell'attività aziendale, è stato accolto dalla Suprema Corte con conseguente nuovo rinvio al giudice d'appello

Questioni giuridiche

Il tema giuridico affrontato dalla Suprema Corte sul quale in questa sede intendiamo soffermarci è la possibilità per il giudice che dichiari l'illegittimità del licenziamento intimato da un datore di lavoro al quale, sussistendone i presupposti dimensionali, si applichi la disciplina dell'

art. 18 L. 300/1970

- Statuto dei Lavoratori - di ordinare (come fisiologicamente previsto da tale norma, pur alla luce delle modifiche apportatevi dalla L. 92/2012) la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nel suo posto di lavoro, e segnatamente nelle mansioni alle quali egli era addetto al momento del licenziamento, nell'ipotesi in cui sia medio tempore intervenuto il fallimento del datore di lavoro e, non essendo stato autorizzato dal Tribunale fallimentare l'esercizio provvisorio, sia totalmente cessata l'attività aziendale.

Al quesito come sopra riassunto la sentenza in commento offre risposta negativa, escludendo quindi che, qualora sia sopravvenuta la totale cessazione dell'attività aziendale a seguito del fallimento della società datrice di lavoro, il giudice che dichiari l'illegittimità del licenziamento intimato al dipendente possa ordinarne la reintegrazione nel posto di lavoro; si legge infatti in motivazione che “La sopraggiunta impossibilità totale della prestazione si estrinseca, infatti, in una vera e propria causa impeditiva dell'ordine di reintegrazione e della tutela ripristinatoria apprestata dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, precludendo al lavoratore illegittimamente licenziato la possibilità di ottenere il soddisfacimento del suo diritto alla continuazione del rapporto”.

A sostegno delle proprie conclusioni i giudici della nomofilachia affermano che “La definitiva cessazione dell'attività aziendale, nel senso della disgregazione del relativo patrimonio, rende impossibile il substrato della prestazione lavorativa, legittimando - secondo la disciplina degli artt. 1463 e 1256 c.c., da coordinare con quella specifica dei licenziamenti individuali (in particolare con la L. n. 604/1966) - il recesso del datore di lavoro per giustificato motivo oggettivo”.

Non solo, ma anche la liquidazione del danno risarcibile a favore del dipendente illegittimamente licenziato è condizionata dalla sopravvenuta cessazione dell'attività aziendale; afferma infatti la sentenza in commento che esso deve essere limitato al solo periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto (da intendersi, sembra che si possa desumere dal contesto, come la data in cui cessa l'attività aziendale).

Osservazioni

Le conclusioni alle quali la Suprema Corte giunge impongono alcune riflessioni sia sull'iter motivazionale, sia sulla conformità della decisione ad altre in precedenza assunte dal Supremo Collegio, sia sulle conseguenze che trae dalla propria affermazione di principio.

Sotto il primo profilo, il percorso argomentativo pretende di trovare il proprio fondamento su un “coordinamento” fra le norme generali del codice civile in materia di impossibilità sopravvenuta della prestazione (art. 1256 c.c.) e risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta (art. 1463 c.c.) e quelle che regolano il licenziamento (L. 604/1966), che risulta foriero di non pochi problemi. A tacer d'altro, le norme civilistiche generali riconducono l'estinzione dell'obbligazione e/o la risoluzione del contratto ad un fatto giuridico (l'impossibilità sopravvenuta della prestazione) che comporta l'estinzione di diritto dell'obbligazione o del contratto e che prescinde quindi dalla manifestazione di volontà della parte del rapporto obbligatorio o contrattuale, mentre la disciplina giuslavoristica (e segnatamente la L. 604/1966) disciplina la cessazione del rapporto di lavoro per effetto di un atto unilaterale (il licenziamento) posto in essere dal datore di lavoro. In tale ottica, sostenere che la cessazione dell'attività aziendale legittima (rectius, legittimerebbe) l'intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo da parte del datore di lavoro non consente di superare l'evidenza che tale atto di recesso unilaterale nel caso esaminato dalla Corte in concreto non esiste, essendo pacifico che il datore di lavoro/fallimento non ha affatto intimato un (nuovo) licenziamento per giustificato motivo oggettivo in considerazione dell'avvenuta cessazione dell'attività aziendale.

L'argomentazione sconta dunque le difficoltà di una contrapposizione mai affrontata con metodo sistematico e mai definitivamente risolta fra chi ritiene che le norme specialistiche del diritto del lavoro disciplinino ed assorbano interamente ogni ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro, e chi invece ancora individua fattispecie nelle quali la cessazione del rapporto di lavoro è disciplinata (solo) dalle norme generali del codice civile. Se ne ritrova traccia evidente nella diversa impostazione seguita ad esempio da Cass. 9556/2021, ove si afferma che, in caso di impossibilità totale della prestazione lavorativa per sopravvenuta inidoneità del lavoratore, non si verte in ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo in quanto “la risoluzione del rapporto consegue al “fatto in se” dell'inidoneità fisica allo svolgimento del lavoro e quindi non richiede alcuna manifestazione di volontà del datore di lavoro, né tanto meno esige che sia rispettato il termine di preavviso. Lo scioglimento del vincolo negoziale, invero, scaturisce dall'impossibilità definitiva di adempiere la prestazione lavorativa (art. 1256 c.c.) e dalla conseguente impossibilità totale di chiedere la controprestazione (art. 1463 c.c.)” rispetto a quella seguita da (fra le tante) Cass. 29622/2018, che riconduce la cessazione del rapporto di lavoro per sopravvenuta inidoneità del lavoratore all'ambito di applicazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo ai sensi dell'art. 3 L. 604/1966.

Le conseguenze dell'applicazione dell'una o dell'altra prospettiva non sono di poco rilievo: basti considerare il fatto che l'intimazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo impone comunque al datore di lavoro l'obbligo di riconoscere al dipendente il preavviso previsto dal CCNL (ovvero la relativa indennità sostitutiva) e l'onere di dimostrare l'impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni (cd. “repechage”), se del caso anche di livello inferiore e financo con obbligo di dar corso ai necessari “adattamenti” della propria organizzazione aziendale, ove essi non risultino eccessivamente gravosi.

Sotto il secondo profilo, occorre evidenziare che la decisione assunta dalla sentenza in commento (che trova peraltro precedenti conformi, ad esempio in Cass. 1888/2020, alla quale si sono adeguate App. Roma Sez. lav., sent., 12 febbraio 2021 e T. Cosenza, 19 febbraio 2021) si pone in contrasto con altre sentenze con le quali la stessa Corte ha invece sostenuto che anche in caso di cessazione dell'attività per intervenuto fallimento può essere ordinata la reintegrazione, con ciò ricostituendo la continuità giuridica del rapporto di lavoro. Ha infatti sostenuto Cass. 2975/2017 (richiamando in motivazione alcuni propri precedenti) che “in caso di fallimento dell'impresa datrice di lavoro dopo il licenziamento di un suo dipendente, questi ha interesse ad una sentenza di reintegra nel posto di lavoro, previa dichiarazione giudiziale dell'illegittimità del licenziamento, pronuncia che non ha ad oggetto solo il concreto ripristino della prestazione lavorativa (che presuppone la ripresa dell'attività aziendale previa autorizzazione all'esercizio provvisorio dell'impresa), ma anche le possibili utilità connesse al ripristino del rapporto”; in tal senso ha evidenziato tale decisione che, pur determinando la dichiarazione di fallimento (in assenza di prosecuzione dell'attività) la sospensione degli effetti del rapporto di lavoro ai sensi dell'art. 72 L.F., dalla perdurante pendenza di esso possono scaturire una serie di utilità, quali la ripresa del lavoro (in relazione all'eventualità di un esercizio provvisorio, d'una cessione dell'azienda o della ripresa della sua amministrazione da parte del fallito a seguito di concordato fallimentare o di ritorno in bonis) o l'eventuale ammissione ad una serie di benefici (indennità di cassa integrazione, di disoccupazione, di mobilità).

Da ultimo, assume rilievo il criterio adottato dai giudici di legittimità per individuare le conseguenze del proprio assunto. Esclusa la possibilità di ricostituire il rapporto di lavoro per effetto dell'ordine di reintegrazione, la decisione in commento limita la domanda del lavoratore alla possibilità di ottenere il risarcimento del danno commisurato al periodo compreso tra la data del licenziamento e quella della sopravvenuta causa di risoluzione del rapporto. Tale conclusione risulta coerente ove si qualifichi la cessazione dell'attività aziendale come “fatto giuridico” che comporta la risoluzione di diritto del rapporto di lavoro ai sensi e per gli affetti degli artt. 1256 e 1463 c.c.; non lo è, invece, ove si aderisca all'orientamento giurisprudenziale che richiede (anche) in ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione un atto di recesso unilaterale qualificabile come giustificato motivo oggettivo, posto che (come detto) nel caso di specie esso non risulta essere stato adottato dal datore di lavoro/fallimento e, ove lo fosse, darebbe origine alle conseguenze sopra menzionate.

Conclusioni

La questione che ha formato oggetto della pronuncia in rassegna sembra ancora lontana dall'aver trovato la sua definitiva soluzione.

Non può infatti dirsi definitivamente risolto il contrasto fra la posizione secondo la quale l'impossibilità sopravvenuta della concreta ripresa dell'attività lavorativa, conseguente alla definitiva cessazione dell'attività aziendale, costituisce ostacolo insormontabile all'ordine di reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro, e quella secondo la quale tale impossibilità non preclude al giudice il potere/dovere di ordinare la reintegrazione, intesa come ricostituzione del vincolo giuridico/rapporto di lavoro al quale il lavoratore ha comunque interesse per le finalità, diverse da quella del concreto svolgimento della propria attività ed al conseguente diritto alla retribuzione (ormai impossibili a causa della disgregazione del substrato aziendale nell'ambito del quale operare), sopra descritte. Così pure non risolto è il nodo del contemperamento, in materia di cessazione del rapporto di lavoro per cause indipendenti dalla volontà delle parti, fra la disciplina per così dire “generale” del codice civile e quella “specialistica” del diritto del lavoro e, per certi aspetti, del diritto concorsuale.

In proposito è auspicabile un intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, che consenta agli interpreti di valutare le fattispecie alla luce di principi di diritto per quanto possibile chiari ed inequivocabili.

Guida all'approfondimento

Oltre alla giurisprudenza citata nel testo, in merito alla possibilità per il giudice di ordinare la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato in ipotesi di sopravvenuta cessazione totale dell'azienda, si veda Cass. civ., sez. lav., 12 giugno 2017, n. 14554.

Sul coordinamento fra disciplina civilistica e norme specialistiche del diritto del lavoro A. Viscomi, L'adempimento dell'obbligazione di lavoro tra criteri lavoristici e principi civilistici, in AA.VV., Il diritto del lavoro nel sistema giuridico privatistico, Atti delle giornate di studio di diritto del lavoro Aidlass, Parma, 4-5 giugno 2010, Milano, 2011, 185; A. Vallebona, Tutele giurisdizionali e autotutela individuale del lavoratore, Padova, 1995; V. Ferrante, Potere e autotutela nel contratto di lavoro subordinato, Torino, 2004; M. Marazza, Limiti e tecniche di controllo sui poteri di organizzazione del datore di lavoro, in M. Marazza (a cura di), Contratto di lavoro e organizzazione, Diritti e obblighi, in M. Persiani e F. Carinci (diretto da), Trattato di Diritto del Lavoro, Padova, 2012, IV, II, 1321; V. Miraglia, L'eccezione d'inadempimento - l'impossibilità sopravvenuta per factum principis esclude l'obbligo di erogare la retribuzione.

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