Pagamenti di compensi e restituzione di finanziamenti all'amministratore di società fallita: bancarotta fraudolenta o preferenziale?

14 Giugno 2021

Nei procedimenti penali che investono la condotta dei vertici di società fallite viene sottoposta, con frequenza, ad esame critico la scelta degli amministratori e dei principali dirigenti aziendali di ripagarsi di crediti da loro vantati, a vario titolo, verso la società. Il tema presenta molteplici sfaccettature, cui corrispondono una pluralità di soluzioni assai diversificate, che vanno da una ritenuta irrilevanza penale di tali condotte ad una loro qualificazione come ipotesi di bancarotta preferenziale fino alla contestazione della fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale. Per fare ordine fra le diverse posizioni assunte dalla giurisprudenza è opportuno differenziare le diverse ipotesi che possono presentarsi nella pratica.
La restituzione di finanziamenti operati dall'amministratore quale socio dell'impresa fallita

Un primo dubbio investe la discussa qualificazione giuridica della condotta dell'amministratore di una società, che, quale socio creditore della stessa, recupera, in periodo di dissesto, finanziamenti da lui in precedenza concessi.

Inizialmente, la giurisprudenza si è divisa in due orientamenti, entrambi accomunati dalla ritenuta rilevanza penale della vicenda.

Secondo un primo orientamento si sarebbe stati in presenza di un un'ipotesi di bancarotta per distrazione (Cass., sez. V, 21 maggio 2018, n. 37053; Cass., sez. V, 6 giugno 2014, n. 34505), mentre in altre decisioni si è sostenuto che nel caso in esame andasse contestato il delitto di bancarotta preferenziale (Cass., sez. V, 22 gennaio 2018, n. 10117; Cass., sez. V, 19 settembre 2020, n. 25834, secondo cui in tali circostanza non potrebbe ricorre l'ipotesi delittuosa più grave che presuppone l'assenza di un sostanziale titolo giustificativo mentre nel caso di bancarotta preferenziale si registra una mancata attenzione dell'ordine, stabilito dalla legge, di soddisfazione dei creditori. Nello stesso senso Cass., pen., sez. V, 12.1.2021, n. 852).

Infine, altre decisioni richiamavano la fattispecie di cui all'art. 2626 cod. civ., ritenuta applicabile anche ai finanziamenti in conto capitale effettuati durante la vita della società sulla base di un'interpretazione estensiva della nozione di "conferimento" di cui all'indicata disposizione, interpretazione resa possibile - con la conseguente sussumibilità del caso in esame nella figura della bancarotta "da reato societario" ex artt. 223, secondo comma, n. 1), R.D. n. 267/1942 e, appunto, 2626 cod. civ. - dal «fatto che la postergazione - sebbene non comporti una riqualificazione ope legis dei crediti - ne assimila in tutto e per tutto la disciplina ai conferimenti in conto capitale, non incidendo semplicemente sulla loro graduazione» (Cass., sez. V, 19 giugno 2018, n. 42568, secondo cui la fattispecie di cui all'art. 2626 cod. civ. sarebbe riferibile anche ai finanziamenti in conto capitale e quindi il prelievo volto alla restituzione di siffatti finanziamenti andrebbe configurato in termini - non già di bancarotta per distrazione, ma - di bancarotta "da reato societario").

Rispetto a queste impostazioni, tuttavia, recenti decisioni hanno assunto una posizione più articolata sostenendo che la questione possa essere risolta solo muovendo dalla distinzione tra versamenti in conto capitale e finanziamenti a titolo di mutuo.

Secondo il consolidato insegnamento delle sezioni civili della Corte di cassazione, i versamenti operati dai soci in conto capitale (o con altra analoga dizione indicati), pur non incrementando immediatamente il capitale sociale, e pur non attribuendo alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale (onde non occorre che siano conseguenti ad una specifica deliberazione assembleare di aumento dello stesso), hanno comunque una causa che, di norma, è diversa da quella del mutuo ed è assimilabile a quella del capitale di rischio, sicché non danno luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società, e possono essere chiesti dai soci in restituzione solo per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'eventuale residuo attivo del bilancio di liquidazione. Quando invece tra la società ed i soci è convenuta l'erogazione di capitale di credito, anziché di rischio, per cui componenti della persona giuridica effettuano versamenti in favore della società a titolo di mutuo (con o senza interessi), gli stessi soci si riservano in tal modo il diritto alla restituzione anche durante la vita della società.

Detto altrimenti, l'erogazione di somme che a vario titolo i soci effettuano alle società da loro partecipate può avvenire a titolo di mutuo, con il conseguente obbligo per la società di restituire la somma ricevuta ad una determinata scadenza, oppure di versamento, destinato ad essere iscritto non tra i debiti, ma a confluire in apposita riserva "in conto capitale" (o altre simili denominazioni), versamento, quest'ultimo, che non dà luogo ad un credito esigibile, se non per effetto dello scioglimento della società e nei limiti dell'eventuale attivo del bilancio di liquidazione, ed è più simile al capitale di rischio che a quello di credito, connotandosi proprio per la postergazione della sua restituzione al soddisfacimento dei creditori sociali e per la posizione del socio quale residuale.

Da questa distinzione, operata in ambito civilistico, consegue che nella materia penal-fallimentare il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale (o indicati con altra analoga dizione) integra la fattispecie della bancarotta fraudolenta per distrazione (Cass., sez. V, 26 febbraio 2019, n. 8431), non dando luogo tali versamenti ad un credito esigibile nel corso della vita della società; al contrario, il prelievo di somme quale restituzione di versamenti operati dai soci a titolo di mutuo integra la fattispecie della bancarotta preferenziale (in questo senso, Cass., sez. V, 7 marzo 2008, n. 14908, che ha qualificato in termini di bancarotta preferenziale la restituzione di finanziamenti che, non avendo «natura di conferimenti di capitale di rischio», «rappresentano il sorgere di un effettivo ed esigibile credito (chirografario) in capo ai soci, senza che da ciò consegua effettivo depauperamento dell'asse patrimoniale»; nella stessa prospettiva, Cass., sez. V, 14 febbraio 2013, n. 13318).

Quanto ai criteri in base ai quali distinguere le due diverse tipologie di versamenti in questione, anche in questo caso viene operato un riferimento alle indicazioni rinvenibili nella giurisprudenza civile ove si è precisato che stabilire se, in concreto, un determinato versamento tragga origine da un mutuo, o se invece sia stato effettuato quale apporto del socio al patrimonio dell'impresa collettiva, è questione di interpretazione della volontà delle parti; più in particolare, «i versamenti in conto capitale sono assoggettati all'onere di contabilizzazione nel patrimonio netto della società come riserve di capitale ed alla distinta indicazione di tale natura nella nota integrativa», mentre «l'individuazione della natura del versamento dipende dalla ricostruzione della comune intenzione delle parti, la cui prova va desunta in via principale dal modo in cui il rapporto ha trovato concreta attuazione, dalle finalità pratiche cui appare diretto e dagl'interessi allo stesso sottesi, e solo in subordine dalla qualificazione che i versamenti hanno ricevuto in bilancio, la cui portata può risultare determinante, in mancanza di una chiara manifestazione di volontà negoziale, in considerazione della sottoposizione del bilancio all'approvazione dei soci» (Cass. Civile, sez. I, 8 giugno 2018, n. 15035).

Quanto alla possibile operatività nel caso di specie della figura della bancarotta "da reato societario" ex artt. 223, comma 2, n. 1), R.D. N. 267 del 1942 in combinato disposto con l'art. 2626 c.c., questa posizione è rigettata (Cass., sez. V, 3 dicembre 2019, n. 49136; Cass., sez. V, 26 febbraio 2019, n. 8431) in quanto la prospettata interpretazione estensiva dell'art. 2626 c.c. si risolverebbe in un'analogia in malam partem poiché i versamenti in conto capitale (o in conto futuro aumento di capitale) consistono in versamenti non imputati (o non ancora imputati) a capitale, tanto da confluire in un'apposita riserva - appunto - "in conto capitale" che non può essere identificata con il capitale, il che esclude la riferibilità anche ai versamenti in esame dello statuto penalistico a tutela del capitale sociale. La giurisprudenza civile confermerebbe questo assunto asserendo che i versamenti dei soci in conto capitale hanno di regola una causa diversa da quella del mutuo e assimilabile a quella del capitale di rischio, il che, come si è visto, esclude che diano luogo a crediti esigibili nel corso della vita della società (con conseguente non configurabilità della bancarotta preferenziale in riferimento ai prelievi volti alla loro restituzione); essi, però, non incrementano immediatamente il capitale sociale e non attribuiscono alle relative somme la condizione giuridica propria del capitale, tanto è vero che vengono iscritti in un'apposita riserva "in conto capitale". Pertanto, la - mera - "assimilabilità" al capitale di rischio dei versamenti in conto capitale conduce, sul terreno penalistico, ad escludere che essi possano essere ricondotti nella nozione di "conferimento" a norma dell'art. 2626 c.c. e che, dunque, la loro restituzione possa integrare la fattispecie di indebita restituzione dei conferimenti e quella di bancarotta "da reato societario".

Da ciò consegue che il prelievo di somme a titolo di restituzione di versamenti operati dai soci in conto capitale deve essere qualificato in termini di distrazione: nozione, questa, che la giurisprudenza di legittimità ricollega al distacco del bene dal patrimonio dell'imprenditore poi fallito (con conseguente depauperamento in danno dei creditori), che può realizzarsi in qualsiasi forma e con qualsiasi modalità, non avendo rilevanza la natura dell'atto negoziale con cui tale distacco si compie, né la possibilità di recupero del bene attraverso l'esperimento delle azioni apprestate a favore della curatela (Cass., sez. V, 5 giugno 2014, n. 30830), in una prospettiva che attribuisce alla nozione di distrazione una funzione anche "residuale", tale da ricondurre ad essa qualsiasi fatto diverso dall'occultamento, dalla dissimulazione, etc. determinante la fuoriuscita del bene dal patrimonio del fallito che ne impedisca l'apprensione da parte degli organi del fallimento.

Questa conclusione, peraltro, è particolarmente significativa con riferimento al tema della cosiddetta bancarotta riparata, intendendosi con tale espressione fare riferimento al comportamento dell'imprenditore che reintegri in un dato momento la parte del patrimonio dell'impresa da lui gestita che in precedenza aveva distratto o sottratto. Secondo la giurisprudenza, infatti, si ritiene che qualora i soggetti responsabili di una precedente distrazione di somme dal patrimonio azienda non possano sostenere di aver restituito quanto in precedenza prelevato laddove partecipino ad un aumento del capitale sociale, perché la prestazione fondata su una precisa causa contrattuale (sottoscrizione del capitale sociale) è diversa da quella effettuata in adempimento dell'obbligo di rendere quanto indebitamente percepito (Cass. pen., sez. V, 13/06/2019, n. 26211).

La percezione di compensi da parte dell'amministratore nella fase di dissesto della società

Assolutamente diverso è il caso in cui le somme prelevate dall'amministratore dalle casse della società in stato di dissesto siano imputate da costui a titolo di compenso a lui spettante.

Anche in questo caso, sorprendentemente a nostro parere, si registra una diversificazione di opinioni fra quanti richiamano la bancarotta patrimoniale e quanti invece sostengono, correttamente a nostro avviso, la natura di bancarotta preferenziale di tale condotta. Tale ultima tesi ci pare decisamente preferibile giacché la circostanza che nel caso in esame l'amministratore favorisca sé stesso e non un qualsiasi creditore non preclude il richiamo all'art. 216, comma 3, R.D. n. 267/1942, mentre la particolare gravità della condotta, consistente nell'approfittamento da parte dell'aministratore della sua particolare posizione all'interno dell'azienda, può essere apprezzata in sede di trattamento sanzionatorio, ben potendo l'autoliquidazione valutarsi, ai fini della pena, condotta più grave sotto il profilo soggettivo ed oggettivo rispetto ad altre condotte preferenziali (così Cass., sez. V, 3 gennaio 2020, n. 81; Cass., sez. V, 3 dicembre 2015, n. 48017, che tuttavia insiste sulla circostanza che il credito dell'amministratore per lo svolgimento della propria attività sia congruo e ragionevole; Cass., sez. V, 15 aprile 2011, n. 28007).

Queste considerazioni, tuttavia, non trovano ascolto nella giurisprudenza prevalente, secondo cui non si potrebbe scindere in capo al medesimo soggetto la qualifica di creditore da quella di amministratore, come tale vincolato alla società dall'obbligo di fedeltà e di tutela degli interessi sociali nei confronti dei terzi (Cass., Sez. V, 4 gennaio 2021, n. 82; Cass., sez. V, 8 aprile 2019, n. 15280; Cass., sez. V, 29 ottobre 2018, n. 49506. Peraltro, si afferma che in caso di avvenuta riqualificazione come bancarotta per distrazione piuttosto che preferenziale del pagamento effettuato in favore dell'amministratore non si sarebbe in presenza di una modifica dell'imputazione ma di una semplice modifica della qualificazione giuridica del fatto che rimane il medesimo, con conseguente mancata lesione del diritto della difesa: Cass., sez. V, 11 maggio 2018, n. 21129). In ogni caso, secondo la giurisprudenza in esame, quand'anche si volesse accedere alla tesi secondo cui l'ipotesi in esame andrebbe sussunta nella figura della bancarotta preferenziale, tale conclusione non potrebbe comunque operare (ricorrendo quindi il delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale) laddove l'amministratore, in assenza di qualsiasi atto formale di pagamento, si sia appropriato semplicemente delle somme dell'impresa sostenendo così di compensare un credito da lui vantato nei confronti della persona giuridica (Cass., sez. V, 26 gennaio 2018, n. 3797).

Sarebbe quindi responsabile del reato di bancarotta per distrazione e non di bancarotta preferenziale il socio amministratore di una società di capitali che preleva dalle casse sociali somme asseritamente corrispondenti a crediti da lui vantati per il lavoro prestato nell'interesse della società, senza l'indicazione di dati ed elementi di confronto (quali, ad esempio, gli impegni orari osservati, gli emolumenti riconosciuti a precedenti amministratori o a quelli di società del medesimo settore, i risultati raggiunti) che ne consentano un'adeguata valutazione (Cass., sez. V, 9 ottobre 2018, n. 45296) ovvero nel caso in cui si sia in presenza di una mera delibera del consiglio di amministrazione, in quanto la previsione di cui all'art. 2389 c.c. stabilisce che la misura del compenso degli amministratori di società di capitali, qualora non sia stabilita nello statuto, sia determinata con delibera assembleare (Cass., sez. V, 18 marzo 2015, n. 11405. Afferma che debba concludersi senz'altro in questo senso quando manchi la delibera assembleare che stabilisce la misura dei compensi, Cass., sez. V, 23 febbraio 2017, n. 17792).

(segue): La percezione di compensi da parte dell'amministratore fra bancarotta preferenziale e dissipazione

Abbiamo accennato alla circostanza che la tesi che valuta in termini di bancarotta fraudolenta patrimoniale non pare convincente, giacché non vi è alcuna ragione per differenziare, in termini concettuali, la posizione di un qualsiasi terzo creditore da quell'amministratore, che abbia diritto alla percezione di somme da parte della società da lui gestita, in quanto spettantogli a titolo di compenso.

Al contempo, siamo consapevoli delle esigenze che la tesi più severa intende tutelare nel caso di specie: se, infatti, è vero che la posizione dell'amministratore che abbia diritto al pagamento del suo compenso non è differenziabile, sotto un profilo giuridico, da qualsiasi altro soggetto titolare di un diritto di credito verso la società, è altresì evidente che, sotto un profilo fattuale, una differenza fra le due posizioni ricorre ed è rinvenibile nella circostanza che l'amministratore, proprio in ragione della sua posizione di vertice all'interno dell'azienda, può condizionare il venire in essere il suo credito e soprattutto il suo ammontare. E' innegabile, in sostanza, che sono principalmente (seppure non in via esclusiva) le determinazioni dello stesso amministratore a condizionare la definizione dei presupposti per l'insorgenza del diritto al compenso e la determinare di quanto gli spetta, sicché egli ben potrebbe profittare di questa posizione per definire un compenso eccessivamente alto o per continuare a percepire tale compenso in presenza di uno stato di indiscussa decozione dell'azienda o per assegnarsi bonus straordinari di produttività in relazione a risultati aziendali in realtà non raggiunti ecc.: orbene, in tali circostanze, escludere la sussistenza del delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale per il solo fatto che l'amministratore agisce sulla base di un titolo di credito che al venire in essere lui stesso ha contribuito può apparire non corretto.

A tali osservazioni critiche, tuttavia, può darsi una soluzione, che di recente si sta affacciando anche in giurisprudenza. In particolare, a nostro parere, la riflessione va articolata in questi termini.

In primo luogo, il punto dirimente della questione deve essere rinvenuto nella presenza o meno di una delibera relativa a tali corrispettivi compensi da corrispondere all'amministratore, il quale risponde dell'illecito di bancarotta preferenziale solo se agisca in presenza della relativa deliberazione assembleare, che gli riconosce il compenso (Cass. Pen., sez. V, 26.1.2021, n. 3191; Cass., sez. V, 12.1.2021, n. 852).

In secondo luogo, il contenuto di tale delibera deve essere ben determinato per cui risponde di bancarotta fraudolenta per distrazione l'amministratore che prelevi dalle casse sociali somme a lui spettanti come retribuzione, se tali compensi sono solo genericamente indicati nello statuto e non vi sia stata determinazione di essi con delibera assembleare, perché, in tal caso, il credito è da considerarsi illiquido, in quanto, sebbene certo nell'"an", non è determinato anche nel "quantum".

Infine, pare debba tenersi conto anche della congruità del compenso, sia rispetto all'attività effettivamente esercitata dall'amministratore ed al momento in cui lo stesso decida di soddisfare il proprio diritto mediante prelievo delle somme dalle casse sociali. Ciò dunque comporta che debba rispondere di bancarotta fraudolenta patrimoniale l'amministratore di una società che si attribuisca compensi spropositati rispetto all'attività svolta e al periodo di crisi economica che l'azienda sta attraversando (Cass., sez. V, 30 marzo 2017, n. 16111), con la precisazione, non rilevante sotto il profilo pratico stante l'identico trattamento sanzionatorio, ma utile sotto il profilo dell'inquadramento giuridico della vicenda, che nel caso di specie non si sarà in presenza di una condotta di distrazione ma di dissipazione delle disponibilità aziendali.

Fonte: www.iltributario.it

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