Rapporti tra giudicato civile di divorzio e sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio

Sergio Matteini Chiari
15 Giugno 2021

Le Sezioni Unite si sono pronunciate sui rapporti tra giudicato civile di divorzio e sentenza ecclesiastica di nullità, in particolare al fine di stabilire se e quale incidenza abbia la dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario, pronunciata dal Tribunale ecclesiastico e delibata in Italia, sul giudicato di divorzio, in specie sulle statuizioni di carattere patrimoniale rese in quest'ultimo giudizio.
Massima

In tema di divorzio, il riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili ma prima che sia divenuta definitiva la decisione in ordine alle relative conseguenze economiche, non comporta la cessazione della materia del contendere nel giudizio civile avente ad oggetto lo scioglimento del vincolo coniugale, il quale può dunque proseguire ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile.

Il caso

Un Tribunale pronunciava la cessazione degli effetti civili del matrimonio contratto con rito concordatario da AAA e BBB, ponendo a carico di BBB (l'uomo) l'obbligo di corrispondere ad AAA (la donna) un assegno mensile, da rivalutare annualmente secondo l'indice Istat.

La sentenza veniva gravata da BBB esclusivamente per il capo relativo al riconoscimento dell'assegno divorzile.

Il gravame veniva respinto dall'adita Corte di merito, che riteneva sussistente il diritto al suddetto assegno, considerati la situazione economica dell'uomo e l'incontestato stato di assoluta indigenza della donna e l'impossibilità per la stessa di procurarsi i mezzi necessari per migliorare la propria condizione.

Avverso tale sentenza BBB proponeva ricorso per cassazione ed AAA resisteva con controricorso.

Avviata alla trattazione in camera di consiglio innanzi alla Sesta Sezione, la causa veniva da questa rinviata alla pubblica udienza della Prima Sezione, sul rilievo che, unitamente alla memoria di cui all'art. 380-bis, comma 2, c.p.c., il ricorrente aveva depositato copia di una sentenza con cui una Corte di merito, successivamente alla proposizione del ricorso, aveva reso esecutiva nell'ordinamento italiano una pronuncia emessa da Tribunale Ecclesiastico Regionale e ratificata dal Supremo Tribunale della Segnatura Apostolica, che aveva dichiarato la nullità del matrimonio fra le parti.

La Prima Sezione respingeva l'eccezione, proposta dalla controricorrrente, di inefficacia della sentenza di delibazione, dando atto del passaggio in giudicato della stessa, per effetto di sentenza della Suprema Corte con cui era stata dichiarata l'inammissibilità del ricorso per cassazione proposto da BBB avverso la sentenza di delibazione della decisione del Tribunale ecclesiastico.

Avendo, poi, il ricorrente BBB richiesto che fosse dichiarata la cessazione della materia del contendere, in forza della sopravvenuta dichiarazione di nullità del matrimonio, la Prima Sezione, ritenendo sussistere contrasto di giurisprudenza su tale oggetto, rimetteva gli atti al Primo Presidente, che disponeva l'assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

La questione

Alle Sezioni Unite è stata rimessa la questione di stabilire se il giudicato interno (per effetto di sentenza parziale o capo autonomo non impugnato della sentenza) sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario sia idoneo a paralizzare gli effetti della nullità del matrimonio, dichiarata con sentenza ecclesiastica successivamente delibata dalla Corte d'appello (con sentenza passata in giudicato), solo in presenza di statuizioni economiche assistite dal giudicato o anche in assenza di dette statuizioni, con l'effetto (nel secondo caso) di non precludere al giudice civile il potere di regolare i rapporti patrimoniali tra gli ex coniugi il cui vincolo sia consacrato in un atto matrimoniale nullo.

Le soluzioni giuridiche

i) A fondamento della rimessione alle Sezioni Unite della ricordata questione, la Prima Sezione (Cass. civ., sez. I, ord. interlocutoria, 25 febbraio 2020, n. 5078) rilevava che, con riguardo ad una fattispecie analoga a quella sottoposta al suo esame, una recente pronuncia della stessa Sezione (Cass. civ., sez. I, ord., 23 gennaio 2019, n. 1882) aveva affermato che il riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, intervenuto dopo il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili del medesimo matrimonio, non precludeva la prosecuzione del giudizio di divorzio ai fini della decisione in ordine alla domanda di determinazione dell'assegno divorzile.

Tale conclusione era stata fondata, da un lato, sull'assunto dell'insussistenza di un rapporto di primazia della pronuncia di nullità, secondo il diritto canonico, del matrimonio concordatario sulla pronuncia di cessazione degli effetti civili dello stesso matrimonio, «trattandosi di procedimenti autonomi, aventi finalità e presupposti diversi», e, da un altro lato, sul fatto che, nel nostro ordinamento, il titolo giuridico dell'obbligo del mantenimento dell'ex coniuge doveva ritenersi fondato sull'accertamento dell'impossibilità della continuazione della comunione spirituale e morale fra i coniugi; dipendendo, cioè, la trattazione della relativa questione dal matrimonio-rapporto, da tenere distinto dal matrimonio-atto, la cui invalidità non determinerebbe alcuna preclusione in ordine alla prosecuzione del giudizio di divorzio ancora pendente sulle questioni di carattere patrimoniale: «la questione della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile non è preclusa quando l'accertamento inerente all'impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi [...] sia passato in giudicato prima della delibazione della sentenza ecclesiastica di nullità del medesimo matrimonio, come si verifica nell'ipotesi in cui nell'ambito di un unico giudizio la statuizione relativa allo stato sia stata emessa disgiuntamente da quelle inerenti ai risvolti economici».

A parere della Sezione remittente, tale conclusione si poneva in contrasto con il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in tema di divorzio, che, in riferimento all'ipotesi della sopravvenienza della dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio religioso, escludendone l'incidenza sulle statuizioni dì ordine economico conseguenti alla pronuncia di cessazione degli effetti civili, che fossero già divenute definitive (veniva fatto richiamo alle pronunce della Prima Sezione n. 21331/2013, n. 4795/2005 e n. 4202/2001n.d.r.), ne aveva, invece, riconosciuto l'idoneità ad impedire la prosecuzione del giudizio ed a travolgere la stessa sentenza di divorzio, se in ordine a quest'ultima non fosse ancora intervenuta la formazione del giudicato (veniva fatto richiamo alle pronunce della Prima Sezione n. 24933/2019, n. 13625/2010, n. 2600/2010 e n. 10055/2010 - n.d.r.).

ii) Le SS.UU. hanno, in primo luogo, osservato che nessuna delle pronunce citate dall'ordinanza di rimessione come ascrivibili all'orientamento asseritamente consolidato, era giunta esplicitamente ad affermare che, ove intervenuto nel corso del giudizio di divorzio, il riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio ne impediva la prosecuzione anche nel caso in cui fosse già passata in giudicato la pronuncia di cessazione degli effetti civili, e si fosse trattato soltanto di procedere all'accertamento della spettanza ed alla liquidazione dell'assegno divorzile: esse, infatti, si riferivano a casi in cui, al momento del passaggio in giudicato della sentenza di delibazione, non era ancora divenuta definitiva la pronuncia di scioglimento del vincolo coniugale, oppure a casi in cui, alla medesima data, era già passata in giudicato la sentenza recante la determinazione delle conseguenze economiche, e si erano limitate ad affermare che nella prima ipotesi il riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica impediva la prosecuzione del giudizio di divorzio, determinando la cessazione della materia del contendere e travolgendo tutte le sentenze eventualmente pronunciate, mentre nella seconda ipotesi la pronuncia di divorzio e le statuizioni accessorie rimanevano insensibili alla dichiarazione di nullità del matrimonio.

iii) Le SS.UU. hanno, quindi, provveduto a ricostruire lo stato della giurisprudenza di legittimità in materia di rapporti tra giudizio di nullità del matrimonio religioso e giudizio di divorzio e, all'esito, sui rilievi di cui appresso, sono pervenute ad enunciare il principio di diritto riportato nella massima, affermando, in sintesi, che il passaggio in giudicato della pronuncia di cessazione degli effetti civili del matrimonio, verificatosi in data anteriore alla delibazione della sentenza ecclesiastica, consente di escludere l'operatività di quest'ultima, non solo ai fini dello scioglimento del vincolo coniugale, ma anche in ordine alla determinazione delle relative conseguenze economiche, non inibendo la prosecuzione del giudizio civile ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile.

Ciò sul rilievo, essenzialmente, della diversità della natura e degli effetti tra la sentenza di nullità e quella di divorzio, principio - più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità e riconducibile alla diversità di petitum e causa petendi delle relative domande - atto a giustificare, oltre al riconoscimento della possibilità di una coesistenza tra le due pronunce, nel caso in cui la delibazione della sentenza ecclesiastica fosse intervenuta successivamente al passaggio in giudicato di quella di divorzio, l'affermazione dell'inidoneità della prima ad impedire, nel caso in cui lo scioglimento del vincolo abbia luogo disgiuntamente dalla determinazione delle conseguenze economiche, la prosecuzione del giudizio civile ai fini dell'accertamento della spettanza e della liquidazione dell'assegno divorzile. Ciò sia, ovviamente, nelle ipotesi in cui il giudicato di divorzio abbia implicato accertamenti in ordine alla validità del matrimonio, sia nelle ipotesi in cui ciò, in assenza di esplicita domanda in tal senso, non sia avvenuto (ponendosi, in tal caso, la validità del matrimonio quale presupposto del giudicato di divorzio, ma restando estranea all'oggetto del giudizio); in tale seconda ipotesi dovendo concordarsi con la tesi secondo cui «non è il predetto accertamento a costituire il titolo giuridico dell'obbligo di corrispondere l'assegno all'ex coniuge, il cui fondamento dev'essere invece individuato nella constatazione dell'intervenuta dissoluzione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi e dell'impossibilità di ricostituirla, nonché nella necessità di un riequilibrio tra le condizioni economico-patrimoniali dei coniugi, da realizzarsi attraverso il riconoscimento di un contributo in favore di uno di essi».

In proposito, le SS.UU. hanno richiamato la più recente giurisprudenza di legittimità, la quale, nel confermare l'individuazione del fondamento del suddetto contributo in un dovere inderogabile di solidarietà previsto a favore dell'ex coniuge economicamente più debole, anziché nello status di coniuge, destinato a venir meno per effetto dello scioglimento del vincolo (Cass. civ., sez. I, 11 maggio 2018, n. 11533), «riconosce allo stesso una funzione non solo assistenziale, ma anche perequativo-compensativa, valorizzandone il collegamento con la vita familiare», dando, quindi, valenza «al profilo fattuale del rapporto matrimoniale» (viene fatto richiamo a Cass. civ., sez. un., 11 luglio 2018, n. 18287 ed a Cass. civ., sez. I, 28 febbraio 2020, n. 5603; principi ribaditi da Cass. civ., sez. I, 19 febbraio 2021, n. 4494 - n.d.r.), desumibile dalle scelte di volta in volta compiute nel corso della vita coniugale e dalle concrete ripercussioni sulle condizioni economiche dei coniugi, il cui accertamento non è condizionato dalla validità dell'atto costitutivo», che resta estranea all'oggetto del contendere, ma dall'intervenuta disgregazione del nucleo familiare, consacrata nella pronuncia di scioglimento del vincolo coniugale.

«E poiché tale pronuncia, una volta divenuta definitiva, non resta travolta dal successivo riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica che abbia dichiarato la nullità del matrimonio, la quale ha un oggetto diverso, anche il predetto accertamento risulta insensibile a tale riconoscimento, il quale non preclude quindi la prosecuzione del giudizio ai fini della pronuncia sull'obbligo di corrispondere l'assegno».

Osservazioni

i) Come già chiarito, la questione giuridica su cui le Sezioni Unite sono state chiamate a pronunciarsi è quella relativa ai rapporti tra giudicato civile di divorzio e sentenza ecclesiastica di nullità, in particolare al fine di stabilire se e quale incidenza abbia la dichiarazione di nullità del matrimonio concordatario, pronunciata dal Tribunale ecclesiastico e delibata in Italia, sul giudicato di divorzio, in specie sulle statuizioni di carattere patrimoniale rese in quest'ultimo giudizio.

ii) Per prima cosa, va rammentato che in forza dell'Accordo di revisione dei Patti Lateranensi, stipulato tra la Repubblica italiana e la Santa Sede il 18 febbraio 1984, ratificato e reso esecutivo con l. 121/1985, è venuta meno (art. 13 dell'Accordo) la riserva di giurisdizione in favore dei tribunali ecclesiastici sulle cause di nullità dei matrimoni concordatari, già prevista dai Patti lateranensi (art. 34), stipulati l'1 febbraio 1929 e ratificati con l. 810/1929.

Per l'effetto, ex eo tempore, in relazione alle controversie inerenti alla nullità del matrimonio concordatario (trascritto nei registri dello stato civile italiani), giurisdizione civile italiana e giurisdizione ecclesiastica sono divenute «concorrenti», con regolamentazione del concorso in base al criterio della prevenzione (v., ex multis, Cass. civ., sez. un., 13 febbraio 1993, n. 1824 e Cass. civ., sez. VI, 3 settembre 2014, n. 18627).

Va, altresì, ricordato che, ai sensi dell'art. 8, comma 2, della l. 121/1985, le sentenze, pronunciate dai Tribunali ecclesiastici, di declaratoria di nullità di un matrimonio concordatario possono essere rese esecutive nell'ordinamento giuridico italiano solo tramite l'instaurazione di un apposito procedimento di exequatur innanzi alla Corte di appello territorialmente competente, in applicazione dei disposti degli artt. 796 e 797 c.p.c. vigenti all'epoca e non degli artt. 64 e ss. della l. 218/1995.

L'art. 2 di quest'ultima fonte normativa fa, invero, salva l'applicazione delle convenzioni internazionali in vigore per l'Italia, e non è dubitabile che in tale categoria rientri l'Accordo sancito con l. 21/1985.

In tale Accordo (si veda l'art. 4 del protocollo addizionale, in relazione all'art. 8) è contenuto «rinvio materiale» ai disposti degli artt. 796 e 797 c.p.c. all'epoca vigenti, conseguendone il diretto inserimento dei relativi contenuti nella normativa pattizia e, pertanto, la loro «esistenza in vita» agli effetti che in questa sede ci occupano (v., in tal senso, ex plurimis, Cass. civ., sez. VI, 3 settembre 2014, n. 18627; Cass. civ., sez. I, 29 marzo 2013, n. 7946; Cass. civ., sez. I, 5 marzo 2009,n. 5292; Cass. civ., sez. I, 11 febbraio 2008, n. 3186 e Cass. civ., 8 giugno 2005, n. 12010).

La dichiarazione di efficacia della sentenza ecclesiastica nell'ordinamento italiano risulta, dunque, condizionata, fra l'altro, all'accertamento che la stessa non contenga disposizioni contrarie all'ordine pubblico (punto 7 dell'art. 797 cit.) e che non sia contraria ad altra sentenza pronunciata da un giudice italiano (punto 5 dell'art. 797 cit.).

iii) È ormai incontroverso che la sentenza di divorzio del giudice civile e quella di delibazione della pronuncia del giudice ecclesiastica dichiarativa della nullità del matrimonio possono entrare in «collisione» solo se entrambe siano definitive e se nella prima vi sia stata esplicita pronuncia affermativa della validità del vincolo, a fronte di domanda di invalidità «incidentalmente» posta oppure di eccezione di invalidità sollevata dalla parte convenuta.

Va precisato che «collisione» effettiva può esservi solo se nel giudizio civile si sia provveduto a disconoscere tutti i potenziali vizi del vincolo.

In tale ipotesi, la soluzione del conflitto potrà essere unicamente quella della non delibabilità della sentenza ecclesiastica, stante la condizione ostativa posta dall' «abrogato» (ma operativo nella nostra materia) art. 797 n. 5, c.p.c. (ora art. 64, lett. e), l. 218/1995).

In caso contrario, laddove cioè la dichiarazione di nullità nel giudizio ecclesiastico sia stata pronunciata per un motivo diverso da quelli recati alla cognizione del giudice civile, nessun ostacolo si frapporrebbe, invece, alla sua delibazione.

iv) In ordine al rapporto tra la pronuncia di divorzio per la parte relativa agli aspetti patrimoniali e la sentenza ecclesiastica di nullità del matrimonio, delibata con pronuncia passata in giudicato, la giurisprudenza ha assunto, nel tempo, varie posizioni.

Con sentenza n. 3345/1997, la Prima Sezione della Suprema Corte, dopo aver ribadito, giusta la «concorrenza» tra giurisdizione civile e giurisdizione ecclesiastica, che le parti potevano dedurre nel processo per la cessazione degli effetti civili del matrimonio la nullità del vincolo matrimoniale, affermò che, in forza del principio secondo il quale il giudicato copre il dedotto e il deducibile, la sentenza «definitiva» di divorzio (contenente in sé una implicita valutazione della validità del vincolo), pur non impedendo la delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del vincolo matrimoniale, rendeva intangibili le statuizioni sui temi patrimoniali.

Successivamente, la stessa Prima Sezione, con sentenza n. 4202/2001(v., nello stesso senso, Cass. civ., sez. I, 4 marzo 2005, n. 4795 e Cass. civ., sez. I, 24 luglio 2012, n. 12989), pur pervenendo sostanzialmente alle medesime conclusioni, abbandonò la tesi del «giudicato implicito», affermando che la domanda di divorzio ha causa petendi e petitum diversi da quelli della domanda di nullità del matrimonio, investendo il matrimonio-rapporto e non l'atto con cui è stato costituito il vincolo tra i coniugi, e che la formazione di un giudicato sull'esistenza e la validità del vincolo si sarebbe potuta determinare solo se le parti avessero esplicitamente introdotto nel giudizio divorzile questioni su tali temi - che avrebbero dato luogo a questioni incidenti sullo status delle persone, e quindi da decidere necessariamente, ai sensi dell'art. 34 c.p.c., con efficacia di giudicato - e si fosse espressamente statuito in ordine alle stesse.

Tuttavia, quanto ai capi della sentenza di divorzio contenenti statuizioni di ordine economico, venne affermato che doveva applicarsi la regola generale secondo la quale, «una volta accertata in un giudizio fra le parti la spettanza di un determinato diritto, con sentenza passata in giudicato», tale spettanza non poteva essere rimessa in discussione al di fuori degli eccezionali e tassativi casi di revocazione previsti dall'art. 395 c.p.c., «in forza degli effetti sostanziali del giudicato stabiliti dall'art. 2909 c.c.» (v., nello stesso senso, Cass. civ., sez. I, 5 giugno 2009, n.12982).

La Prima Sezione, a tale proposito, precisava che, in forza dell'Accordo sopra citato restava rimessa alla competenza sostanziale dello Stato italiano la disciplina dei rapporti patrimoniali fra i coniugi derivanti dai conseguiti effetti civili dei matrimoni concordatari, «come si evince dal disposto dell'art. 8, comma 1, che sostanzialmente rimanda in proposito alle disposizioni del codice civile, mentre ogni statuizione riguardo al venire meno di tali effetti, con riferimento alla delibazione delle sentenze ecclesiastiche di nullità dei matrimoni concordatari, è rimessa dall'art. 8, comma 2, ultima parte, esplicitamente alla giurisdizione e implicitamente alla normativa dello Stato italiano».

In altri termini, una volta che nel giudizio con il quale fosse stata chiesta la cessazione degli effetti civili di un matrimonio concordatario fosse stata accertata la spettanza di un assegno ad uno dei coniugi, ed una volta che in proposito si fosse formato il giudicato, la relativa statuizione si rendeva intangibile ai sensi degli artt. 324 c.p.c. e 2909 c.c. anche nel caso in cui successivamente ad essa fosse sopravvenuta la delibazione di una sentenza ecclesiastica di nullità del vincolo: «la delibazione, in presenza dei requisiti, degli elementi e dei presupposti di legge, può avere luogo, ma non incide in alcun modo sui diritti patrimoniali definitivamente acquisiti dagli ex coniugi con la sentenza civile».

v) La questione ha avuto successivi sviluppi, con soluzioni difformi.

È rimasto, per ciò che consta, punto fermo l'intangibilità delle statuizioni su temi patrimoniali contenute in sentenze divorzili passate in giudicato prima della definitività della delibazione di sentenze ecclesiastiche dichiarative della nullità del vincolo.

Viceversa, si sono manifestate differenti opinioni con riguardo ai casi in cui sia le questioni sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio sia quelle di ordine economico oppure soltanto queste ultime si trovassero ancora sub iudice nel momento del perfezionamento della suddetta delibazione.

Secondo un orientamento, il passaggio in giudicato della sentenza dichiarativa dell'efficacia, nell'ordinamento italiano, della pronuncia ecclesiastica di nullità del matrimonio concordatario determina, nei casi in cui il giudizio di divorzio sia, in tale momento, ancora pendente, il travolgimento (cessazione della materia del contendere) della sentenza civile di divorzio e delle statuizioni economiche in essa contenute «in quanto tali statuizioni presuppongono la validità del matrimonio e del vincolo conseguente» (v., in tal senso, Cass. civ., sez. I, 7 ottobre 2019, n. 24933; Cass. civ., sez. I, 4 febbraio 2010, n. 2600; Cass. civ., sez. I, 25 giugno 2003, n. 10055; v., in tema di sentenze di separazione personale, Cass. civ., sez. I, 19 dicembre 2017, n. 30496 e Cass., sez. I, 10 luglio 2013, n. 17094, nonché, Cass. civ., sez. I, ord. 11 maggio 2018, n. 11553, che nega la sopravvivenza delle statuizioni di ordine economico anche se contenute in una sentenza di separazione passata in giudicato).

In tal caso, la tutela del coniuge economicamente debole potrà essere solo quella - limitata («provvedimenti economici provvisori») - prevista dall'art. 8, comma 2, l. 121/1985 (v. Cass. civ., sez. I, 31 marzo 2014, n. 7481).

Secondo un altro orientamento, la sentenza ecclesiastica di nullità matrimoniale non comporta, invece, i suddetti effetti «demolitori» laddove l'accertamento relativo all'impossibilità della prosecuzione della comunione spirituale e morale fra i coniugi sia passato in giudicato anteriormente alla delibazione e siano ancora sub iudice le statuizioni economiche, dovendo, in tal caso, il giudizio proseguire per la decisione sulle relative questioni (v. Cass. civ., sez. I, ord. 23 gennaio 2019, n. 1882).

Ciò in quanto, non sussiste un rapporto di primazia della pronuncia di nullità, secondo il diritto canonico, del matrimonio concordatario sulla pronuncia di cessazione degli effetti civili dello stesso matrimonio, trattandosi di procedimenti autonomi, aventi finalità e presupposti diversi, e, soprattutto, in quanto, nel diritto italiano, il titolo giuridico dell'obbligo del mantenimento dell'ex coniuge si fonda sull'accertamento dell'impossibilità della continuazione della comunione spirituale e morale fra i coniugi stessi, che è conseguente allo scioglimento del vincolo matrimoniale civile o alla dichiarazione di cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario, e non è costituito dalla validità del matrimonio, oggetto della sentenza ecclesiastica, «tenuto conto che la declaratoria di nullità ex tunc del vincolo matrimoniale non fa cessare alcuno status di divorziato, che è uno status inesistente, determinando, piuttosto, la pronuncia di divorzio la riacquisizione dello stato libero».

In altri termini, secondo l'indirizzo in esame, la spettanza e l'attribuzione dell'assegno divorzile trovano il loro presupposto nella pregressa esistenza di un «rapporto matrimoniale» e nella dichiarazione del suo scioglimento, elementi che non vengono posti nel nulla dal successivo riconoscimento nell'ordinamento italiano della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità (Cass. civ., sez. I, 18 settembre 2013, n. 21331).

vi) Le Sezioni Unite hanno dato soluzione al contrasto dando preferenza al pensiero espresso dal secondo dei due suddetti orientamenti, per le convincenti (ad avviso di chi scrive) ragioni riferite in sintesi, ma analiticamente, nel precedente § 3. e che, ulteriormente, ancor più in sintesi, meritano, di seguito, di essere illustrate.

La delibazione della sentenza ecclesiastica dichiarativa della nullità del vincolo matrimoniale non travolge la sentenza civile di divorzio già passata in giudicato e neppure le statuizioni di ordine economico nella stessa contenute, pur se queste siano ancora sub iudice.

Ciò in ragione della sostanziale diversità tra la natura e gli effetti delle due pronunce (fondate su differenti petita e causae petendi), nonché in quanto il titolo giuridico dell'obbligo di corrispondere il contributo di mantenimento al coniuge economicamente più debole rinviene il suo fondamento in un dovere inderogabile di solidarietà.

Le SS.UU. hanno, in particolare, posto in rilievo che le più recenti pronunce del giudice di legittimità hanno riconosciuto al suddetto contributo una funzione non solo assistenziale, ma, in pari misura, «anche perequativo-compensativa, valorizzandone il collegamento con la vita familiare», dando, in tal modo, valenza «al profilo fattuale del rapporto matrimoniale» il cui accertamento «non è condizionato dalla validità dell'atto costitutivo», che resta estranea all'oggetto del contendere, ma dall'intervenuta disgregazione del nucleo familiare, consacrata nella pronuncia di scioglimento del vincolo coniugale, risultando, per l'effetto, insensibile al riconoscimento dell'efficacia della sentenza ecclesiastica nell'ordinamento italiano.

A dare ulteriore fondamento alla pronuncia, potrebbe osservarsi, con un obiter (tale sino ad un certo punto) dictum, che, qualora la sentenza ecclesiastica di riferimento nel caso concreto non fosse stata ancora delibata, il riconoscimento della sua efficacia nel nostro ordinamento si sarebbe potuto negare.

In proposito, va rammentato che, secondo il pensiero espresso da Cass. civ., sez. un., 17 luglio 2014, n. 16379, la convivenza «come coniugi» – intesa quale «elemento essenziale del «matrimonio-rapporto», che si manifesta come consuetudine di vita coniugale comune, stabile e continua nel tempo, ed esteriormente riconoscibile attraverso corrispondenti, specifici fatti e comportamenti dei coniugi, e quale fonte di una pluralità di diritti inviolabili, di doveri inderogabili […]» - protrattasi per almeno tre anni dalla data di celebrazione del matrimonio concordatario regolarmente trascritto, «connotando nell'essenziale l'istituto del matrimonio nell'ordinamento italiano, è costitutiva di una situazione giuridica disciplinata da norme costituzionali, convenzionali ed ordinarie, di "ordine pubblico italiano"»; derivandone che, anche in applicazione dell'art. 7 Cost., comma 1, e del principio supremo di laicità dello Stato, «è ostativa» - ai sensi dell'Accordo di revisione del Concordato lateranense, reso esecutivo con l. 121/1985, ed in particolare, dell'art. 8, comma 2 dell'Accordo medesimo e del punto 4, lett. b, del relativo Protocollo addizionale, nonché dell'art. 797 c.p.c., comma 1, n. 7, - «alla dichiarazione di efficacia nella Repubblica Italiana delle sentenze definitive di nullità di matrimonio pronunciate dai tribunali ecclesiastici, per qualsiasi vizio genetico del matrimonio accertato e dichiarato dal giudice ecclesiastico nell'"ordine canonico" nonostante la sussistenza di detta convivenza coniugale».

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