Danno da violazione del diritto all'autodeterminazione, tabelle di Milano 2021 e limiti di applicabilità

Vincenzo Liguori
21 Giugno 2021

Appare necessario, per gli operatori di merito, poter contare su criteri di misurazione del pregiudizio concreto che siano coerenti, omogenei e consentanei ad una concreta demarcazione dei confini liquidatori riferibili alla tipologia di pregiudizio trattato senza confonderlo con l'eventuale correlativo danno alla salute. Un'assoluta novità in tal senso è rappresentata dalla proposta dell'Osservatorio di Milano che ha prospettato alcuni criteri orientativi da cui ha estrinsecato 4 fasce di valori monetari di riferimento per la liquidazione del “danno da mancato/carente consenso informato in ambito sanitario”.
Ricognizione storico-giuridica del diritto all'informazione

La tematica dell'informazione da fornire al paziente - finalizzata alla manifestazione del consenso di quest'ultimo al trattamento sanitario proposto - è assai antica ed ha subìto una lentissima evoluzione storica.

Nel Corpus Hippocraticum - complesso di opere mediche convenzionalmente attribuite ad Ippocrate (460-370 a.C. circa) - veniva imposto all'archiatra il dovere di non rivelare nulla al paziente circa le sue condizioni di salute e riguardo i trattamenti cui veniva sottoposto. Tale imposta segretezza fondava la sua ratio nella naturale percezione di quel “potere mistico” che aleggiava attorno alla figura del medico, potere di cui lo stesso era intrinsecamente investito tanto da legittimarlo ad elaborare in totale autonomia il percorso terapeutico.

Nel Medio Evo Henry De Mondeville asseriva che nulla doveva essere conosciuto dal paziente e che allo stesso doveva solo essere approntata una cura alla quale doveva pedissequamente sottostare. Solo qualora vi fosse stato un potenziale rischio o pericolo questo poteva essere comunicato ai genitori ed agli amici del malato.

Solo con l'avvento dell'Illuminismo - con gli scritti di John Gregory ed ancor più del suo allievo Benjamin Rush - si cominciò quel percorso di demistificazione della medicina che ha accompagnato l'inizio dell'età moderna. Rush, visionario per l'epoca, sosteneva che l'informazione dovesse essere fornita al paziente non tanto per carpirne il consenso, ma perché egli potesse comprendere la prescrizione formulata dal medico ed essere motivato ad attenervisi (e soprattutto a predisporsi ad eventuali sofferenze ad essa correlate) in vista del beneficio terapeutico atteso.

La giurisprudenza di legittimità di quasi un secolo fa ancora sosteneva che “il medico ha seco la presunzione di capacità nascente dalla laurea”(Cass. 22/12/1925, in Giur. it. 1926, I, 1, 537). In virtù di tale arcaica concezione non veniva riconosciuto al paziente alcun diritto di sindacare le strategie terapeutiche poste in essere dal medico in quanto quest'ultimo era considerato il solo depositario di quelle conoscenze specifiche ed insurrogabili necessarie a determinare le migliori opzioni di cura per il paziente (al quale ancora non poteva essere delegata alcuna scelta).

L'assetto della materia è poi mutato radicalmente con l'introduzione del codice civile del 1942 e con l'emanazione della Carta costituzionale del 1947.

In considerazione del preminente rilievo che la nuova Carta costituzionale ha riconosciuto alla salute come diritto dell'individuo, al centro della nuova concezione è stato finalmente posto il paziente, unico ed esclusivo titolare dell'integrità psico-fisica ed unico soggetto cui spetta decidere in merito.

La precedente impostazione, lontanissima da quella contemporanea, è infatti andata in obsolescenza allorchè la S.C. ha iniziato ad orientarsi in merito alla necessità di ottenere il consenso dal paziente quale imprescindibile autorizzazione legittimante il trattamento sanitario (il quale, configurandosi come atto potenzialmente lesivo dell'integrità psico-fisica dell'individuo, in assenza di consenso si sarebbe tradotto in un atto illecito).

In linea con tale nuova concezione si è poi giunti agli approdi (sia legislativi che giurisprudenziali) contemporanei secondo i quali, perché il paziente possa esercitare consapevolmente il diritto a tutelare la propria salute, è necessario che sia preventivamente informato sui rischi e sulle conseguenze del trattamento proposto, nel pieno rispetto del suo diritto ad autodeterminarsi liberamente su tutto ciò che possa riguardare la cura.

Espressione di mutamento in tal senso è stata indubbiamente l'emanazione della L. 833/1978, la quale, all'art. 33 (rubricato come “Norme per gli accertamenti ed i trattamenti sanitari volontari e obbligatori”), ha previsto sostanzialmente che:
  • gli accertamenti ed i trattamenti sanitari sono di norma volontari (comma 1);
  • nei casi espressamente previsti da leggi dello Stato possono essere disposti dall'autorità sanitaria accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, ma pur sempre nel rispetto dell'articolo 32 Cost., della dignità della persona e dei diritti civili e politici, tenendo conto, per quanto possibile, del diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura (comma 2);
  • gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori devono comunque essere accompagnati da iniziative rivolte ad assicurare il consenso e la partecipazione da parte di chi vi è obbligato (comma 5).

Successivamente, negli anni ‘90, dopo la definitiva affermazione della tesi del contatto sociale quale fonte dell'obbligazione assunta dal medico nei confronti del paziente (in virtù del principio di atipicità delle fonti dell'obbligazione dettato dall'art. 1173 c.c.), la giurisprudenza ha iniziato a porre in rilievo l'esigenza di protezione del paziente, quale dovere riconducibile ai principi generali di correttezza e buona fede enunciati dal codice civile in ambito contrattuale ed interpretati alla luce degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall'art. 2 Cost..

Anche a livello sovranazionale, verso la fine di quegli anni, è emersa la necessità di ottenere, prima di qualsiasi trattamento sanitario, il consenso preventivamente prestato dal soggetto sottoposto alle cure, venendo tale diritto espressamente sancito dall'art. 5 della Convenzione di Oviedo del 1997 e dall'art. 3, comma 2, primo alinea della Carta di Nizza, i quali hanno previsto rispettivamente che:

  • un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato il proprio consenso libero e informato, ciò dopo aver ricevuto un'informazione adeguata in relazione allo scopo ed alla natura dell'intervento ed alle sue conseguenze e rischi;
  • nell'ambito della medicina e della biologia devono essere rispettati, tra l'altro, il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge.

Dunque, dagli anni ‘90 (cfr., tra i primi esempi, Cass. n. 10014/1994 e Cass. n 364/1997) e sino ai giorni nostri, la S.C. e la Consulta hanno incessantemente fornito coerenti indirizzi interpretativi in merito, delineando l'inquadramento nonchè i profili sostanziali e processuali della disciplina relativa al danno da carente e/o mancato consenso (per l'excursus giurisprudenziale in materia cfr. ad esempio SS.UU. n. 13533/2001, SS.UU. n. 577/2008, Cass. n. 7027/2001, Cass. nn. 8827/2003 e 8828/2003, Corte Cost. n. 233/2003, Cass. n. 14638/2004, Cass. n. 5444/2006, Cass. n. 20987/2007, Cass. n. 21748/2007, Corte Cost. n. 438/2008 sino a giungere alle più recenti Cass. n. 24074/2017, Cass. n. 16503/2017, Cass. n. 9807/2018, Cass. n. 11749/2018, Cass. n. 19199/2018, Cass. n.8756/2019, Cass. n.10423/2019, Cass. n. 16892/2019, Cass. n. 23328/2019, Cass. n. 28985/2019, facente parte del decalogo di San Martino 2019, Corte Cost. n. 242/2019, Cass. n. 24462/2020, Cass. n. 7385/2021, Cass. n. 8163/2021).

Recente esempio evolutivo della disciplina trattata è indubbiamente la legge sul testamento biologico (L. 219/2017), invocabile in caso di trattamenti sanitari avvenuti successivamente alla sua entrata in vigore (31/1/2018), la quale all'art. 1 – rubricato espressamente come “Consenso informato” – enuncia che “La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2,13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all'autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

Tale norma ha sostanzialmente positivizzato quei principi già pacifici e diffusi in ambito giurisprudenziale.

Anche secondo tale approdo normativo, dunque, la liceità della prestazione sanitaria è condizionata al preventivo ottenimento di un valido consenso al trattamento sanitario espresso dal soggetto che ne è destinatario.

Inquadramento

Così come sancito dall'art. 13 Cost. la libertà personale è inviolabile: con ciò si intende non solo la libertà fisica (l'habeas corpus, già oggetto di specifica tutela da parte dell'art. 32, comma 1, Cost.) ma soprattutto la libertà morale, cioè libertà di scegliere su come disporre di sè.

Ogni trattamento sanitario, incidendo sulla sfera privata dell'individuo, va chiaramente a tangere valori oggetto di protezione costituzionale: il diritto alla vita e alla salute, all'integrità personale, alla libertà personale e, in alcuni casi, alla libertà religiosa e di pensiero.

Com'è noto l'obbligo informativo viene pacificamente ricondotto agli artt. 2, 13 e 32 Cost.: infatti, qualora il paziente non venisse preventivamente informato riguardo le implicazioni del trattamento cui sta per essere sottoposto, si violerebbero sia il suo diritto all'autodeterminazione sia il suo diritto a non essere sottoposto a trattamenti sanitari contro la sua volontà.

Dunque, salvo eccezioni di legge (ad esempio lo stato di necessità, ex art. 54 c.p.), i trattamenti sanitari sono volontari e come tali devono essere liberamente scelti dal paziente.

È evidente pertanto che l'interesse tutelato da tale assetto di norme e principi sia direttamente l'autonomo diritto soggettivo all'autodeterminazione dell'individuo (il quale, benché connesso al diritto alla salute, va tenuto distinto da questo sia sul piano sostanziale che processuale) e, solo indirettamente, la salute del paziente (al cui fine è rivolta la strategia di cura approvata consapevolmente dal paziente stesso).

Tale diritto ad autodeterminarsi si estrinseca nella possibilità di scegliere tra una o più alternative terapeutiche, scegliere tra il curarsi od il non sottoporsi alle cure, scegliere di farlo ma non nell'immediato, scegliere di acquisire prima il parere di altri sanitari, scegliere di differire le cure e/o di rivolgersi ad altro sanitario e/o ad altra struttura che offrano maggiori garanzie in relazione all'esperienza maturata in casi simili o in relazione alle conseguenze postoperatorie, scegliere di rifiutare un trattamento chirurgico troppo demolitivo o scegliere, in itinere, di interrompere una terapia articolata in più sedute (ipotesi la cui tutela è riconducibile già alle predette norme costituzionali ma altresì disciplinata dall'art. 1, comma 5, L. 219/2017).

Tale inviolabile diritto di scelta rileva ancor più:

  • quando le conseguenze prevedibili del trattamento si prospettino come foriere di probabili sofferenze che il paziente avrebbe alternativamente preferito non sopportare (preferendo, ad esempio, optare per il permanere della situazione patologica piuttosto che per le conseguenze del trattamento sanitario);
  • quando l'errata informazione e la conseguente violazione del diritto di scelta del paziente conducano a pregiudizi ulteriori rispetto al “mero” danno alla salute.

Oltre che dalle predette norme di rango superiore e dall'intervenuta legislazione speciale, la tutela del diritto a ricevere una compiuta informativa può ricavarsi già dall'ordinaria disciplina codicistica: essendo infatti il rapporto di cura pacificamente ricondotto al regime contrattuale, l'esercente la professione sanitaria, prima ancora dell'obbligo di prestazione (ex art. 1174 c.c.) ha un vero e proprio obbligo di informazione e protezione del paziente, rinvenibile nei principi generali di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175, 1176, 1337 e 1375 c.c..

La Relazione Ministeriale al codice civile (che assume valore sistematico di quale fosse, sul punto, l'intenzione del legislatore), afferma che l'art. 1175 c.c.richiama nella sfera del creditore la considerazione dell'interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all'interesse del creditore”: tale criterio di reciprocità, collocato successivamente nel quadro di valori introdotto dalla Carta costituzionale, altro non è che la specificazione degli inderogabili doveri di solidarietà sociale imposti dall'art. 2 Cost..

La rilevanza di tale criterio si concretizza, pertanto, nell'imporre alla parte contrattualmente forte (medici, operatori, struttura sanitaria) il dovere di agire in modo da preservare gli interessi della parte contrattualmente debole (paziente e/o i suoi familiari), anche solo in virtù di quel contatto sociale qualificato che surroga la consensualità tipica dell'accordo negoziale ed è fonte di un vincolo contrattuale in tutto equivalente a quello nascente da un contratto di prestazione d'opera (vincolo contrattuale poi recentemente positivizzato dall'art. 7, L. 24/2017).

L'obbligazione della struttura sanitaria e dell'esercente la professione sanitaria, in virtù di tali norme, non può esaurirsi nella mera prestazione di ricovero, cura ed assistenza sanitaria, ma deve necessariamente includere la protezione del destinatario della prestazione medica, in quanto detta protezione costituisce la parte essenziale del contratto di cura.

Il dovere di curare ed assistere il paziente, pertanto, implica la necessaria adozione di tutte le misure necessarie sia alla protezione della sua persona che alla tutela dei suoi diritti primari, tra cui appunto autodeterminazione, salute e vita.

Contenuto dell'informazione

La trasmissione di tutte le informazioni relative alla natura, alla gravità, alle conseguenze ed alle possibili implicazioni del trattamento sanitario è finalizzata a colmare quella fisiologica asimmetria informativa esistente tra paziente (destinatario-creditore della prestazione) e professionista sanitario (debitore della stessa), in quanto il primo è titolare del diritto alla salute ed all'autodeterminazione ma non ha autonomi mezzi per farli valere (in quanto non conosce l'ars medica), mentre il secondo è titolare di quelle conoscenze specialistiche che mancano al paziente e che gli consentirebbero di esercitare i propri diritti.

Dunque, se il medico non informa il paziente, non consente a questo l'esercizio libero e consapevole di tali diritti inviolabili (cfr. Corte Cost. n. 438/2008).

Da tale premessa discende che il sanitario è obbligato a “travasare” tali specifiche conoscenze a colui che è titolare del diritto di scelta, proprio perchè privo dei mezzi per esercitarlo autonomamente, pienamente e consapevolmente.

Il consenso deve rappresentare, pertanto, l'esito di un'interlocuzione concreta tra medico e paziente, non un mero atto formale e standardizzato.

Il sanitario, in definitiva, è tenuto a raccogliere un'adesione effettiva e consapevole al trattamento quale condicio sine qua non che renda l'atto medico - che di norma è illecito (poiché vìola l'integrità psico-fisica dell'individuo) - in un atto lecito e legittimato dal destinatario (cfr. Cass. n. 7027/2001 e Cass. n. 21748/2007). L'informazione deve quindi contenere tutte le possibili implicazioni del trattamento e deve estendersi alla “natura dell'intervento medico e chirurgico, alla sua portata ed estensione, ai rischi, ai risultati conseguibili, alle possibili conseguenze negative, alla possibilità di conseguire il medesimo risultato attraverso altri interventi e ai rischi di questi ultimi” (già Cass. n. 10014/1994 e Cass. n 364/1997).

Modalità di adempimento dell'obbligo

Come accennato l'informazione va fornita con modalità tutt'altro che standardizzate, infatti le stesse vanno adeguate di volta in volta al livello cognitivo del paziente, oltre che fornite in tempo utile affichè questo possa, senza condizionamenti e/o vizi della volontà (errore, dolo, violenza), comprendere, valutare e decidere.

In caso di trattamenti che non si esauriscano in un unico atto terapeutico ma siano prolungati nel tempo e/o prevedano un iter clinico articolato in più fasi, la manifestazione del consenso deve permanere per tutto il trattamento e/o per ogni singolo atto clinico.

Infatti, anche la revoca del consenso è sempre consentita, poichè proprio tale revocabilità rappresenta allo stesso tempo sia garanzia che modalità di espressione del diritto all'autodeterminazione del paziente.

Il quomodo dell'adempimento dell'obbligo informativo ha carattere relativo e potrebbe essere definito “a geometria variabile” in base alla qualità del paziente: esso va infatti adattato al livello socio-culturale di chi riceve l'informazione.

Le modalità con cui si fornisce l'informazione, in definitiva, devono essere effettivamente consentanee alla comprensione da parte del paziente.

L'adempimento dell'obbligo informativo, dunque, non ha carattere tipico o assoluto, ma va calibrato sulle concrete capacità intellettive del paziente, sul suo grado culturale, sulla sua capacità di discernimento e di autoconservazione, ecc., poiché mira ad avere l'effettiva comprensione da parte dello stesso (cfr. Cass. n. 23328/19).

L'informazione, dunque, dovrebbe riguardare quantomeno:

  • la natura, le concrete modalità e le tempistiche di esecuzione del trattamento;
  • i distretti corporei interessati dal trattamento;
  • il livello di preparazione e specializzazione dei sanitari in quella tipologia di trattamento;
  • il livello di adeguatezza delle attrezzature necessarie al trattamento (sia di quelle diagnostiche che di quelle terapeutiche);
  • i prevedibili rischi, effetti e benefici, con relative possibili ripercussioni e sequele, suffragate dalle relative percentuali di accadimento (estratte dalla più aggiornata letteratura clinica);
  • l'eventuale urgenza/indifferibilità del trattamento o la possibilità di procrastinarlo (e, se sì, di quanto e come, con i relativi rischi ed effetti prevedibili);
  • le alternative terapeutiche praticabili (con relative linee guida, modalità e tempistiche di esecuzione, urgenze, differibilità, rischi e benefici), anche da intendersi come eventuale indicazione di altre strutture sanitarie meglio attrezzate per quel trattamento.

Il professionista sanitario, infine, ha anche il delicato obbligo di contemperare il dovere informativo con le concrete e personalissime esigenze/problematiche del paziente. Ad esempio un'informativa fornita in modo troppo diretto e/o rude per la sensibilità del paziente potrebbe causare allo stesso ricadute psicologiche. Dunque, ad esempio, nei confronti di un paziente con trascorsi psichiatrici il professionista dovrà impostare le modalità dell'informazione in modo da tutelare la salute mentale del paziente.

Per quanto riguarda l'aspetto strettamente empirico dell'obbligo informativo va premesso che nel nostro ordinamento vige il principio della libertà delle forme del negozio giuridico, pertanto le parti del rapporto di cura potrebbero teoricamente scegliere quella ritenuta più opportuna, ivi compresa la forma orale e/o per facta concludentia.

Nella prassi, tuttavia, la forma scritta resta preferibile in quanto agevola non poco le dinamiche probatorie del giudizio.

Anche l'art. 1, comma 4, L. 219/2017 - nonostante la sua littera potenzialmente contraddittoria, ma da interpretarsi pur sempre alla luce delle menzionate norme di rango superiore (artt. 2, 13 e 32 Cost., art. 5 Convenzione sui Diritti dell'Uomo e la biomedicina e art. 3, comma 2, primo alinea, Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea) – sembra convergere verso logiche di aformalismo, poiché impone comunque l'obbligo di acquisire il consenso “nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente”, non discostandosi dunque dal consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui è necessario personalizzare l'informazione in base alle qualità del paziente.

La forma rileva, dunque, non già in relazione all'adempimento dell'obbligo, ma solo sul relativo versante probatorio.

Nella prassi sanitaria capita frequentemente che al paziente vengano sottoposti moduli e questionari prestampati, spesso composti da lunghissimi elenchi di informazioni generiche e ad ampio spettro (contenenti sovente anche implicazioni che esulano dalla patologia e/o dal trattamento concreto), al fine di precostituire una prova in relazione alla completezza dell'informazione fornita.

Ebbene tali moduli spesso rappresentano un'arma a doppio taglio per i professionisti sanitari in quanto, come dalla giurisprudenza più volte ritenuto, la mera sottoscrizione di un modulo pur completo ma generico, non esonera il professionista dal fornire la prova della completa ed esaustiva informazione fornita al paziente.

È orientamento consolidato, infatti, che:

  • la sottoscrizione di un modulo di “consenso informato” del tutto generico da parte del paziente non è idonea a far presumere che il medico a ciò obbligato abbia comunicato oralmente al paziente tutte le informazioni necessarie che egli era contrattualmente obbligato a fornire a tal fine” (Cass. n. 26827/2017; cfr. Cass. n. 12205/2015);
  • non adempie all'obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato il medico il quale ritenga di sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo del tutto generico, da cui non sia possibile desumere con certezza che il paziente medesimo abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni” (Cass. n. 2177/2016);
  • il professionista sanitario ha l'obbligo di fornire tutte le informazioni possibili al paziente in ordine alle cure mediche o all'intervento chirurgico da effettuare, tanto è vero che deve sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva un modulo non generico, dal quale sia possibile desumere con certezza l'ottenimento in modo esaustivo da parte del paziente di dette informazioni” (Cass. n. 18334/2013; cfr. Cass. n. 15698/2010; Cass. n. 10741/2009).

Eccezioni e limiti all'obbligo informativo

Come sosteneva il saggista inglese Robert Burton “nessuna regola è così generale da non ammettere alcune eccezioni”.

Tale massima di esperienza vale anche nell'ambito qui trattato laddove, in alcuni casi, l'ottenimento di un preventivo consenso del paziente non sia da considerare obbligatorio per legittimare la prestazione sanitaria. Ciò avviene quando:

  • il paziente sia irreversibilmente o temporaneamente privo di suitas - vuoi perché affetto da patologia mentale che lo renda incapace, vuoi per una temporanea incapacità di discernere dovuta, ad esempio, ad uno stato comatoso, alla perdita di coscienza od altre peculiari situazioni emergenziali - e, dunque, non sia capace di recepire l'informazione nè di manifestare alcun consapevole consenso.

In tali casi la manifestazione del consenso all'atto terapeutico non può essere determinata dal paziente, poiché ciò dovrebbe postulare la sua capacità di intendere e volere e, dunque, di comprendere il significato del proprio comportamento, che in realtà in tali ipotesi manca, facendo conseguentemente venir meno la responsabilità della scelta che il paziente assume rispetto all'atto manifestativo del consenso: in tal caso, dunque, dovranno prestare il consenso per conto del paziente l'esercente la patria potestà e/o il tutore e/o il curatore e/o i familiari;

  • il trattamento sanitario rivesta i caratteri dell'inderogabilità ed urgenza; in tali casi, in virtù della particolare situazione di necessità dovuta al rischio di un “pericolo attuale di un danno grave alla persona…né altrimenti evitabile” la condotta del medico potrà giovarsi della causa giustificativa di cui all'art. 54 c.p., secondo la cui applicazione va ritenuta non punibile la condotta del medico che violi l'autodeterminazione e l'integrità psico-fisica del paziente quando sia costretto a fronteggiare una situazione grave ed urgente per la necessità di salvarlo da un pericolo attuale di un danno grave (salva sempre la valutazione di proporzionalità tra pericolo e condotta “necessaria” posta in essere dal medico);
  • dopo che il trattamento principale - per il quale il paziente abbia preventivamente già manifestato un valido consenso - sia già iniziato e sopravvenga l'eccezionale e non prevedibile necessità di compiere atti clinici accessori urgenti (si pensi ad un intervento chirurgico in sedazione durante il quale sorga la necessità di effettuare un'emotrasfusione urgente, necessaria e non sostituibile con alternative terapeutiche meno rischiose quali somministrazione di eritropoietina e/o recupero intraoperatorio del sangue autologo).

In questi casi il consenso validamente manifestato dal paziente per l'intervento principale può considerarsi implicitamente esteso anche alle imprevedibili, urgenti e necessarie prestazioni cliniche complementari/accessorie (salva ovviamente la valutazione delle specificità del caso concreto).

Per fugare l'apparente contraddittorietà di tale ultimo punto rispetto a quanto affermato riguardo la necessaria completezza dell'informazione, va precisato che l'informazione sul trattamento principale deve pur sempre abbracciare tutti i rischi prevedibili (finanche se la loro possibilità di verificazione sia minima); ciò che infatti non rientra nell'esigibilità della condotta del medico quando adempie l'obbligo informativo è la prevedibilità (e, dunque, la conseguente informativa in tal senso) di quei rischi assolutamente anomali, di cui non v'è traccia nella letteratura clinica ed ascrivibili perlopiù al fortuito.

Pertanto, se l'atto clinico complementare/accessorio (es. emotrasfusione) è prevedibile rispetto alle peculiarità dell'intervento principale (es. intervento chirurgico multiorgano invasivo), l'informazione fornita sul trattamento principale dovrà prevedere ed essere estesa anche a tutte le implicazioni del probabile trattamento accessorio, pena l'incompletezza dell'informazione e la conseguente colpevolezza del sanitario.

Dunque il medico che non fornisca la preventiva informazione sulla necessità di praticare il prevedibile trattamento complementare/accessorio (e/o che non si adoperi al fine di prevederne la necessità) sarà inadempiente se, in virtù della prevedibilità del trattamento complementare/accessorio, sarebbe stata da egli esigibile sia l'informativa in tal senso sia la predisposizione di alternative terapeutiche meno rischiose (come ad esempio il pre-deposito di sangue autologo per evitare i rischi legati all'emotrasfusione).

Disciplina

Essendo il rapporto di cura pacificamente ricondotto al regime della responsabilità contrattuale, il paziente che agisca nei confronti della struttura sanitaria o del professionista sanitario per ottenere il risarcimento dei danni conseguenti alla lesione del diritto all'autodeterminazione ha l'onere di:

  • allegare la violazione dell'obbligo informativo;
  • allegare e provare i danni (alla salute e/o all'autodeterminazione) da ciò scaturenti;
  • allegare e provare il nesso causale tra la violazione e tali danni.

Vista la frequente oggettiva difficoltà per il danneggiato di provare che, se adeguatamente informato, non avrebbe acconsentito al trattamento e/o vi avrebbe acconsentito ma con modalità/tempistiche alternative, l'onere probatorio in tal senso è ritenuto da taluna giurisprudenza molto affievolito (in particolare, secondo Cass. n. 11749/2018 e Cass. n. 16503/2017, il danno-conseguenza rappresentato dalla contrazione della libertà di disporre di sé stesso e dalla conseguente sofferenza morale e psichica rappresentano circostanze connotate da normalità conseguenti all'evento e, cioè, da normale frequenza statistica conseguente alla violazione dell'obbligo informativo - corrispondendo cioè all'id quod plerumque accidit - e, pertanto, il danno-conseguenza non esige una prova rigorosa e specifica).

In ogni caso, trattandosi di un pregiudizio non patrimoniale attinente ad un bene immateriale, la prova presuntiva - la cui efficienza dimostrativa segue una sorta di ideale scala ascendente, a seconda della gravità delle condizioni di salute e della necessarietà dell'intervento (cfr. Cass. n. 2369/2018 e Cass.n. 26827/2017) - è destinata ad assumere particolare rilievo e potrà costituire anche l'unica fonte per la formazione del convincimento del giudice purchè il danneggiato abbia adeguatamente allegato in fatto tutti gli elementi idonei a fornire la serie di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto (cfr. sul valore della prova presuntiva SS.UU. n. 26972/2008 e succ. conformi).

Il coerente e continuativo flusso nomofilattico fornito dalla S.C. nel corso degli ultimi vent'anni consente di affermare che l'omissione informativa si configuri come un illecito dall'astratta capacità plurioffensiva, in quanto può ledere sia l'autonomo inviolabile diritto all'autodeterminazione sia il connesso diritto alla salute.

L'omessa/carente informativa assume diversa rilevanza eziologica a seconda che sia dedotta dal danneggiato in relazione alla violazione del diritto all'autodeterminazione o alla lesione del diritto alla salute (cfr. Cass. n. 28985/2019, Cass. n. 24462/2020, Cass. n. 7385/2021, Cass. n. 8163/2021), in quanto:

  • la violazione del diritto all'autodeterminazione è in relazione causale diretta con la compromissione dell'interesse giuridico a compiere in piena autonomia una valutazione complessiva del rapporto costi/benefici del trattamento sanitario proposto e ciò non solo relativamente al miglioramento terapeutico atteso ma anche in relazione alla possibile (ma evitabile) verificazione di ulteriori eventi di danno diversi dalla “mera” lesione del bene salute (quali, ad esempio, l'eccessiva durata della convalescenza, il perdurare della malattia e delle sofferenze, la complessità dell'iter riabilitativo, eventuali mutamenti irreversibili delle condizioni di vita, ecc. oltre ad eventuali ulteriori pregiudizi - anche solo patrimoniali - di volta in volta concretamente individuati, allegati e dimostrati);
  • in caso di violazione del diritto alla salute, invece, la rilevanza causale del deficit informativo sul risultato pregiudizievole del trattamento sanitario (ancorchè correttamente eseguito) dipende dalla valutazione - da compiere tramite un giudizio prognostico ex ante - della scelta che il paziente avrebbe formulato se fosse stato adeguatamente informato, ed è predicabile solo in caso di provato dissenso (dimostrabile, come esposto, tramite presunzioni) poiché, in tal caso, il danno concretamente verificatosi all'integrità psico-fisica non si sarebbe realizzato in virtù del dimostrato rifiuto che il paziente avrebbe opposto al trattamento.

Dunque, dal punto di vista della causalità, l'inosservanza dei doveri informativi da parte del medico si pone quale diretto antecedente causale del danno all'integrità psico-fisica del paziente nella misura in cui, se il primo avesse comunicato al secondo i rischi di quello specifico trattamento, tale trattamento non sarebbe mai stato effettuato e le sue conseguenze dannose mai prodottesi nella sfera giuridica del paziente (e/o nella misura in cui il trattamento sarebbe stato effettuato con modalità e/o tempistiche alternative non arrecanti pregiudizio).

Sul piano processuale, dunque, in presenza di un danno alla salute, l'accertamento della scelta che il paziente avrebbe effettuato qualora adeguatamente informato diventa epicentrico al fine di stabilire, in concreto, l'origine del danno, poichè:

  • se il paziente dimostri che, qualora opportunamente informato, avrebbe negato il proprio consenso al trattamento (e/o avrebbe optato per modalità/tempistiche alternative non arrecanti pregiudizio), il danno all'integrità psico-fisica scaturente dall'inesatta esecuzione del trattamento sanitario andrà riferito sin dall'inizio alla violazione dell'obbligo informativo (poiché è tale violazione che dà avvio alla serie causale produttiva della lesione della salute, sulla quale si innesta successivamente l'errore medico quale danno-conseguenza);
  • se invece risulti che il paziente, dopo aver ricevuto una corretta informazione, avrebbe manifestato un consenso privo di riserve, il danno all'integrità psico-fisica andrà riferito alla non diligente prestazione sanitaria (e non alla carente informativa).

Come accennato, per pervenire al riconoscimento della pretesa risarcitoria, occorrerà pur sempre adoperare un “giudizio controfattuale su quale sarebbe stata la scelta del paziente ove fosse stato correttamente informato” (Cass. n. 8163/2021), ciò dopo che il danneggiato abbia ottemperato ai consueti oneri di allegazione e prova (la quale potrà ritenersi raggiunta anche ex artt. 2727 e 2729 c.c., 115 e 116 c.p.c.).

Conseguenza di tale impostazione è che la responsabilità per violazione dell'obbligo informativo:

  • prescinde dalla buona riuscita del trattamento sanitario, in quanto la correttezza dell'esecuzione del trattamento rileva ai fini della configurazione della diversa responsabilità conseguente all'esecuzione dello stesso;
  • sussiste per la semplice ragione che il paziente, a causa del deficit informativo, non sia stato messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni (con la conseguenza che tale trattamento non può dirsi legittimato dalla volontà del suo destinatario poiché avvenuto in contrasto ai precetti di cui agli artt. 32, comma 2 e 13 Cost., con l'art. 33 L. n. 833/1978 e con la disciplina di cui alla L. n. 219/2017).

A nulla rileva, dunque, il fatto che il trattamento sanitario sia stato eseguito in modo corretto (diligentemente, quindi senza colpa) se il medico, non adempiendo al suo obbligo di informare il paziente, ha precluso a quest'ultimo la possibilità di optare per comportamenti alternativi; solo nel caso in cui non vi fossero concrete alternative praticabili (circostanza il cui onere probatorio grava sul medico) e l'intervento sia stato eseguito diligentemente viene a mancare il presupposto del nesso causale e, conseguentemente, non sussiste alcuna responsabilità del professionista sanitario.

Ancora, l'esito eventualmente fausto del trattamento sanitario non vale ipso facto ad escludere qualsivoglia ulteriore pretesa risarcitoria (diversa, cioè, dal risarcimento del danno alla salute) da parte del paziente non correttamente informato.

In assenza di danno alla salute, infatti, tale pretesa risarcitoria potrebbe scaturire:

  • sia dalla sofferenza patita a causa della consapevolezza di non aver potuto autodeterminarsi e di aver subìto una compressione della propria libertà di scelta (danno da ricondurre alla sfera non patrimoniale dell'individuo ma che, per trovare adeguato ristoro, deve oltrepassare la soglia dell'apprezzabile gravità);
  • sia da qualsiasi altro pregiudizio arrecato ad un interesse meritevole di tutela (vuoi patrimoniale, vuoi da perdita di occasione favorevole) come, ad esempio, l'ipotesi in cui all'errata informazione sulla possibilità di differire la data dell'intervento segua la perdita, da parte del paziente, di un'occasione lavorativa nel frattempo venuta in essere e/o rispetto alla quale v'erano concrete aspettative già prima del trattamento sanitario.

In tutti i casi il pregiudizio concretamente individuato come subìto andrà risarcito in virtù della “tradizionale” funzione compensativa del risarcimento, secondo le regole già proprie del sistema civilistico.

Va dunque inteso che, in coerenza con il vigente sistema risarcitorio (nel quale il danno è sempre danno-conseguenza e non è mai predicabile in re ipsa, v. tra le ultime Cass. n. 7385/2021), il riparto dell'onere assertivo e probatorio deve seguire i già menzionati criteri fissati in materia contrattuale, alla luce dei principi da tempo enunciati dalla S.C. (già da SS.UU. n. 13533/2001), secondo cui al creditore-danneggiato da inadempimento contrattuale spetta l'onere di allegare l'inadempimento qualificato astrattamente idoneo a causare il danno, gravando poi sul debitore-danneggiante l'onere di fornire la prova liberatoria.

È chiaro che dovrà essere altresì il paziente ad allegare e dimostrare (quantomeno in via presuntiva) che, qualora fosse stato correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi al trattamento, ovvero avrebbe optato per tempistiche e/o modalità alternative e/o in ogni caso avrebbe potuto vivere il periodo successivo al trattamento con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze nocumentali.

Dunque anche l'onere di allegare e provare la diversa volontà, le diverse scelte che sarebbero scaturite da una compiuta informativa ed i pregiudizi scaturenti da tale omissione/carenza ricadono interamente sul danneggiato.

Deve infine osservarsi, dal punto di vista della disciplina successoria di tale danno, che il credito relativo al diritto al risarcimento del danno da lesione del consenso sia trasmissibile iure hereditatis.
Sul punto, facendo applicazione analogica degli approdi ermeneutici in tema di danno biologico terminale e di danno catastrofale, si può serenamente ritenere che se il decesso del paziente - intervenuto all'esito di un trattamento rispetto al quale sia dimostrabile il suo presunto dissenso - sia avvenuto dopo un apprezzabile lasso temporale dalle lesioni tale da consentire al paziente morente di addivenire alla consapevolezza che il proprio diritto di scelta sia stato violato, il (credito relativo al) diritto al risarcimento del danno all'autodeterminazione sia trasmissibile agli eredi; qualora, per converso, la morte si sia verificata nell'immediatezza del trattamento sanitario, andrebbe invece rigettata una tale pretesa risarcitoria avanzata dagli eredi.

Risarcibilità

Premessa indefettibile per la risarcibilità di qualunque danno avente natura non patrimoniale è che il diritto leso sia specificamente tutelato dalla legge o da una norma di rango costituzionale.

Secondo la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., infatti, il riconoscimento costituzionale di taluni diritti inviolabili dell'individuo ne esige la tutela (soprattutto perchè la tutela di taluni diritti prevista in Costituzione configura quei “casi determinati dalla legge” richiesti dall'art. 2059 al massimo livello gerarchico).

Sul punto la S.C., con due sentenze gemelle del maggio 2003 (Cass. n. 8827/2003 e Cass. n. 8828/2003), ha definitivamente chiarito che:

  • la lettura costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c., va tendenzialmente riguardata […] come mezzo per colmare la lacuna, secondo l'interpretazione ora superata della norma citata, nella tutela risarcitoria della persona che va ricondotta al sistema bipolare del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale”;
  • il danno non patrimoniale è “comprensivo del danno biologico in senso stretto, del danno morale soggettivo come tradizionalmente inteso e dei pregiudizi diversi ed ulteriori, purché costituenti conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto”.

Tale intervento del giudice di legittimità (seguito, dopo pochi mesi, da un arresto del giudice delle leggi del medesimo tenore, v. Corte Cost. n. 233/2003), oltre ad aver apposto il sigillo sul moderno sistema bipolare del danno a persona, ha ritenuto superata quella che era la (limitante) risarcibilità del solo danno “morale soggettivo” nell'ambito dei danni non patrimoniali, sdoganando la tutela risarcitoria relativa a tutti quei danni non patrimoniali (rectius: non aventi natura economica) derivanti dalla lesione di altri valori/interessi riguardanti l'individuo, purchè oggetto di tutela costituzionale.

Su tale aspetto il successivo arresto della Consulta (sent. n. 233/2003) ha ancor più nettamente chiarito che l'art. 2059 ha una funzione “tipizzante” dei singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale in quanto a tale norma deve ricondursi, nella sua astratta previsione, “ogni danno di natura non patrimoniale derivante da lesione di valori inerenti alla persona, dunque qualsiasi danno derivante dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”.

Le SS.UU., successivamente, hanno affermato che:

  • il diritto all'autodeterminazione terapeutica, anche nella fase terminale della vita, costituisce un diritto personalissimo e di spessore costituzionale (SS.UU. n. 27145/2008);
  • costituisce violazione del diritto inviolabile all'autodeterminazione (ex artt. 2, 3, 13 e 32, comma 2, Cost.) l'inadempimento da parte del sanitario dell'obbligo di richiedere il consenso al paziente nei casi previsti (SS.UU. n. 26972/2008 e succ. conformi);
  • il presidio della Costituzione agli interessi della persona, tra cui rientra il diritto all'autodeterminazione, li ha elevati a diritti inviolabili e ne ha rafforzato la tutela, con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei relativi danni-conseguenza (SS.UU. n. 26974/2008).

Tuttavia, come in parte già esposto, alla dimostrata lesione dell'interesse costituzionale non può conseguire ipso iure un danno risarcibile, vista la pacifica impredicabilità di danni in re ipsa nell'attuale sistema risarcitorio e visto che il danno qui trattato non può mai ritenersi “staticamente” coincidente con la lesione dell'interesse protetto, ma deve concretizzarsi in una conseguenza derivante da tale lesione, secondo i criteri dettati dall'art. 1223 c.c..

La lesione dell'autodeterminazione è, infatti, il mero antecedente causale del pregiudizio ma non è sufficiente ad identificarlo, pertanto si limita ad esserne il presupposto.

Seguendo ancora l'insegnamento delle SS.UU., per la risarcibilità di tale danno non patrimoniale occorre verificare se lo stesso varchi la soglia dell'apprezzabile gravità della lesione e della serietà del danno.

È orientamento consolidato, infatti, che “la gravità dell'offesa costituisce requisito ulteriore per l'ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili. Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza. Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.). Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico”(SS.UU. n. 26972/2008 e succ. conformi; tra le recenti: Cass. n. 2369/2018; Cass. n. 26827/2017; Cass. n. 349/2016).

Secondo l'interpretazione del giudice di legittimità, in particolare:

  • la gravità della lesione attiene al momento determinativo dell'evento dannoso, quale incidenza pregiudizievole sul diritto/interesse selezionato come meritevole di tutela e la sua portata è destinata a riflettersi sull'ingiustizia del danno, che non potrà più predicarsi tale in presenza di una minima offensività della lesione stessa;
  • la serietà del danno riguarda, invece, il piano delle conseguenze della lesione e, cioè, l'area dell'obbligazione risarcitoria, cioè quale sia l'effettiva perimetrazione della perdita subita (il c.detto danno-conseguenza); il pregiudizio “non serio” e, cioè, quello che consista in meri disagi o fastidi, esclude che vi sia una perdita di utilità derivante da una lesione (ancorché essa abbia superato la soglia di offensività) in quanto il dovere di solidarietà di cui all'art. 2 Cost. impone a ciascun consociato di tollerare le minime intrusioni nella propria sfera personale inevitabilmente scaturenti dalla convivenza (tra le meglio argomentate cfr. Cass. n. 19327/2014; Cass. n. 16133/2014; Cass. n. 7211/2009).
Individuazione e natura dei pregiudizi risarcibili

La S.C. ha costantemente affermato che “la violazione, da parte del medico, del dovere di informare il paziente, può causare due diversi tipi di danni:

a) un danno alla salute, quando sia ragionevole ritenere che il paziente - sul quale grava il relativo onere probatorio - se correttamente informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi all'intervento (onde non subirne le conseguenze invalidanti);

b) un danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, predicabile se, a causa del deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale oppure non patrimoniale (ed, in tale ultimo caso, di apprezzabile gravità), diverso dalla lesione del diritto alla salute” (cfr. tra le ultime Cass. n. 28985/2019; Cass. n. 29709/2019; Cass. n. 10423/2019; Cass. n. 11749/2018; Cass. n. 7248/2018; Cass. n. 2369/2018).

In virtù di tali arresti e secondo quanto sinora esposto, può serenamente affermarsi che:

  • nel caso di violazione del diritto all'autodeterminazione sussista un autonomo perimetro risarcitorio meritevole di riconoscimento.
  • la mancata/errata/carente informazione del paziente sui rischi e sulle implicazioni del trattamento sanitario possa concretizzare una lesione, autonomamente valutabile e risarcibile, del suo diritto di autodeterminarsi liberamente in vista della disposizione della propria salute e del proprio corpo, ex artt. 2, 3, 13 e 32 Cost.;
  • la mancata/errata/carente informazione sia rilevante ai fini dell'autonoma liquidazione del risarcimento per i danni derivanti al paziente, in quanto conseguenza della lesione di un interesse costituzionalmente protetto in via autonoma rispetto al diritto alla salute e ciò, quindi, anche a prescindere dalla lesione alla salute in concreto subita.

Orbene, mentre risulta teoricamente più agevole individuare, allegare e provare l'eventuale concreto pregiudizio patrimoniale residuato al paziente non correttamente informato (es. per le spese sostenute a fronte di un intervento a cui, se correttamente informato, non avrebbe scelto di sottoporsi od, anche, per la riduzione di reddito e/o per la perdita di occasioni lavorative conseguente ad una convalescenza prolungata che, a fronte di una compiuta informativa, avrebbe potuto essere evitata e/o posticipata, ecc.), si rivela ben più arduo calare la discussione nel pratico per ciò che concerne i danni non patrimoniali.

Secondo le già richiamate Cass. n. 7248/2018 e Cass. n. 28985/2019, in tale ottica, possono postularsi quattro scenari relativi al danno non patrimoniale:

1. omessa/insufficiente informazione in relazione ad un trattamento:

  • a cui il paziente avrebbe in ogni caso scelto di sottoporsi alle medesime condizioni;
  • che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico.

Il risarcimento in questo caso è limitato al solo danno alla salute subito dal paziente, nella sua duplice componente morale/da sofferenza e dinamico-relazionale (cfr. Cass. n. 901/2018, Cass. n. 7513/2018, Cass. n. 28985/2019, Cass. n. 28986/2019, Cass. 28989/19, Cass. n. 25164/2020) in quanto solo l'integrità psico-fisica è stata lesa, ed è alla negligenza del medico che va ricondotta causalmente la relativa lesione, non certo ad un provocato vizio della volontà del paziente nel decidere di sottoporsi al trattamento (in quanto il diritto di scelta del paziente non è stato leso);

2. omessa/insufficiente informazione in relazione ad un trattamento:

  • a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi o di sottoporsi con modalità e/o tempistiche alternative;
  • che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta colposa del medico.

Il risarcimento in questo caso:

- comprende il danno alla salute, il quale va liquidato secondo i criteri del danno differenziale, cioè tramite la conversione monetaria dell'I.P. conseguente all'intervento e quella antecedente ad esso e la successiva sottrazione del secondo valore dal primo (secondo i principi espressi da Cass. n. 28986/2019 e ancor prima daCass. n. 6341/2014);

- è esteso anche al danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, liquidato secondo equità e, volendo, tramite i nuovi criteri proposti dall'Osservatorio di Milano attraverso le Tabelle 2021 (che proprio su tali tipologie di double damage si sono concentrate, come si dirà appresso);

3. omessa/insufficiente informazione in relazione ad un trattamento:

  • a cui il paziente avrebbe scelto di non sottoporsi o di sottoporsi con modalità e/o tempistiche alternative:
  • che ha cagionato un danno alla salute a causa della condotta non colposa del medico.

In questo caso poco cambia a livello risarcitorio rispetto all'ipotesi precedente, in quanto il danno all'integrità psico-fisica scaturente dall'inesatta esecuzione del trattamento sanitario c'è ma andrà riferito eziologicamente sin dall'inizio alla violazione dell'obbligo informativo (poiché è tale violazione che dà avvio alla serie causale produttiva della lesione della salute, sulla quale si innesta successivamente l'atto medico, finanche non colposo, quale danno-conseguenza): dunque in tal caso la lesione della salute va imputata causalmente alla primaria lesione del diritto all'autodeterminazione e non all'atto medico (come già esposto nel precedente paragrafo intitolato “Disciplina”).

Il risarcimento, comunque, anche in questo caso:

  • comprende il danno alla salute, liquidato secondo i criteri del danno differenziale, cioè tramite la conversione monetaria dell'I.P. conseguente all'intervento e quella antecedente ad esso e la sottrazione del secondo valore dal primo (secondo i principi espressi da Cass. n. 28986/2019 e ancor prima daCass. n. 6341/2014);
  • è esteso anche al danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, liquidato secondo equità e, volendo, tramite i nuovi criteri proposti dall'Osservatorio di Milano attraverso le Tabelle 2021;

4. omessa/insufficiente informazione in relazione ad un trattamento correttamente eseguito, che non ha cagionato un danno alla salute, ma che ha impedito al paziente di accedere a più accurati ed attendibili accertamenti: in tal caso, non essendoci un danno alla salute, la lesione del diritto all'autodeterminazione potrà essere risarcita tutte le volte che (e solo se) il paziente dimostri che dalla violazione dell'obbligo informativo siano derivate conseguenze dannose in termini di sofferenza soggettiva e contrazione della libertà di disporre di se stesso, psichicamente e fisicamente (e, dunque, abbia subito le inaspettate conseguenze dell'intervento senza la necessaria e consapevole predisposizione ad affrontarle e ad accettarle, trovandosi del tutto impreparato di fronte ad esse).

La S.C., tuttavia, sebbene con tale schematica esemplificazione abbia confermato il suo consolidato orientamento in merito all'astratta autonoma risarcibilità del danno da lesione del diritto all'autodeterminazione, non ha tuttavia fornito una perimetrazione univoca del pregiudizio non patrimoniale scaturente da essa.

La vera difficoltà per gli operatori - il cui ruolo è pur sempre quello di incidere sulle vicende della vita al di fuori delle aule giudiziarie - resta dunque quella di individuare la natura delle conseguenze non patrimoniali di tale contrazione della libertà in modo da rispettare i criteri di integralità e proporzionalità del risarcimento senza incorrere in duplicazioni risarcitorie e, soprattutto, in modo da garantire l'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi e, pertanto, l'uniformità di liquidazioni su tutto il territorio nazionale.

La caratteristica comune ad ognuna delle predette ipotesi indicate dalla S.C. è che la lesione del diritto all'autodeterminazione si sostanzia nella contrazione della libertà di disporre di sé stesso, psichicamente e fisicamente, patite dal paziente in ragione dello svolgimento sulla sua persona di trattamenti non assentiti.

La discussione in merito alla natura di tale pregiudizio non patrimoniale, pertanto, potrebbe originare dalla considerazione che, secondo l'impostazione delineata negli anni dalla giurisprudenza, tutti i pregiudizi riconducibili al genus non patrimoniale si possano ripartire in due species:

  • un danno da sofferenza interiore (il tradizionale danno morale soggettivo, oggi rinominato semplicemente “danno da sofferenza”);
  • un danno che attiene alla sfera esteriore del soggetto, che altera le sue abitudini di vita ed i rispettivi assetti esistenziali e relazionali (sconvolgimento della vita e della quotidianità, privazione di occasioni per l'espressione e la realizzazione della personalità dell'individuo nel mondo esterno, ecc.).
  • Sempre seguendo l'impostazione giurisprudenziale è possibile affermare che la violazione del diritto ad ottenere una compiuta informativa, considerata nelle sue ripercussioni sofferenziali, provochi come conseguenza quell'impedimento al paziente di accettare preventivamente e consapevolmente il programma terapeutico e le eventuali ineliminabili conseguenze negative dello stesso, determinando una successiva sofferenza morale e psichica nella misura in cui ciò:
  • precluda al paziente di beneficiare dell'apporto positivo che la ricezione di una corretta informativa avrebbe avuto sul grado di predisposizione psichica a subire il trattamento e le sue conseguenze;
  • precluda al paziente di affrontare il periodo successivo al trattamento con migliore e più serena predisposizione ad accettarne le eventuali conseguenze e sofferenze (cfr. Cass. 15/5/18 n. 11749, Cass. 31/1/18 n. 2369 e Cass. 14/11/17 n. 26827);
  • precluda al paziente di predisporsi meglio - tramite un preventivo bilanciamento degli interessi in gioco - verso la successiva sopportazione delle eventuali conseguenze dannose (che, in caso di compiuta informativa, sarebbero state considerate dal paziente come l'esito di una scelta personale e non il frutto di un'imposizione altrui).

Può affermarsi dunque che il danno da sofferenza interiore eziologicamente riconducibile alla lesione del diritto all'autodeterminazione consista in quel sentimento di cordoglio, rammarico, turbamento permanente, intimo e profondo, nonchè di costante frustrazione derivante dalla sopravvenuta consapevolezza di non aver potuto evitare l'evento dannoso a fronte della mancata possibilità di esercitare il proprio diritto di scelta; sofferenza questa che è “affiancabile” all'eventuale ulteriore danno da sofferenza correlato al danno alla salute (autonomo rispetto ad esso ed autonomo altresì rispetto alle sue conseguenze dinamico-relazionali).

Tale impostazione parrebbe essere sostenuta, seppur non esplicitamente, dai recenti arresti della S.C. che hanno definitivamente sancito l'autonomo rilievo della sofferenza morale rispetto ad eventuali ripercussioni dinamico-relazionali in tema di danno alla salute (cfr. Cass. n. 901/2018; Cass. n. 7513/2018; Cass. n. 28985/2019; Cass. n. 28986/2019; Cass. n. 28989/2019).

Tale autonomia della sofferenza, infatti, è stata rappresentata dalla Cassazione come dimensione interiore ed emotiva meritevole di separato apprezzamento a fronte della lesione di un valore costituzionalmente tutelato (per un'approfondita disamina v. LUDOVICO BERTI, “Il danno dinamico relazionale, il danno da sofferenza soggettiva interiore e la personalizzazione nel restyling della Tabella di Milano”).

Quanto affermato troverebbe specifica conferma:

  • nell'ordinanza “decalogo” n. 7513/2018, la quale ha stabilito che il danno non patrimoniale conseguente alla lesione del bene salute “va liquidato, tenendo conto tanto dei pregiudizi patiti dalla vittima nella relazione con se stessa (la sofferenza interiore e il sentimento di afflizione in tutte le sue possibili forme, id est il danno morale interiore), quanto di quelli relativi alla dimensione dinamicorelazionale della vita del soggetto leso” e ben può tale autonomia del danno da sofferenza interiore ritenersi estesa anche ai casi di lesione di altri interessi costituzionalmente tutelati (quali proprio il diritto all'autodeterminazione);
  • nella successiva Cass. n. 19151/2018, la quale, sempre in tema di risarcimento del danno non patrimoniale conseguente alla lesione di interessi costituzionalmente protetti, ha affermato che “il giudice di merito, dopo aver identificato la situazione soggettiva protetta a livello costituzionale, deve rigorosamente valutare, sul piano della prova, tanto l'aspetto interiore del danno (cd. danno morale), quanto il suo impatto modificativo in pejus con la vita quotidiana (il danno cd. esistenziale, o danno alla vita di relazione, da intendersi quale danno dinamico-relazionale), atteso che oggetto dell'accertamento e della quantificazione del danno risarcibile è la sofferenza umana conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente protetto, la quale, nella sua realtà naturalistica, si può connotare in concreto di entrambi tali aspetti essenziali, costituenti danni diversi e, perciò, autonomamente risarcibili, ma solo se provati caso per caso con tutti i mezzi di prova normativamente previsti”;
  • nelle tesi della dottrina medico-legale che hanno operato una distinzione concettuale tra la “sofferenza menomazione correlata” - consistente nella sofferenza interiore direttamente correlata al danno biologico temporaneo e permanente - e la “sofferenza pura”, da intendersi come sofferenza conseguente alla lesione di un diritto costituzionalmente garantito diverso dal bene salute e che, in quanto tale, non è di pertinenza valutativa medico-legale ma apprezzabile dal solo giudice secondo motivata equità.

In tale ultima categoria di sofferenza si potrebbero far rientrare, oltre al danno in esame, anche la sofferenza causata dalla perdita del rapporto parentale, quella derivante da una c.d. nascita indesiderata e in alcuni casi anche quella derivante dalla perduta capacità procreativa (o, comunque, qualunque sofferenza riferibile ad una violazione che provochi anche un grave sconvolgimento della vita, poiché causa di una sofferenza scollegata dall'eventuale menomazione biologica).

Anche la giurisprudenza di legittimità formatasi in merito al peculiare “caso” del Testimone di Geova parrebbe collimare con l'impostazione sin qui considerata.

La storica Cass. n. 2847/2010, infatti, ha affermato che, riguardo alla problematica del “turbamento e della sofferenza che deriva al paziente sottoposto ad atto terapeutico dal verificarsi di conseguenze del tutto inaspettate perché non prospettate e, anche per questo, più difficilmente accettate” l'informazione cui il medico è tenuto in vista dell'espressione del consenso del paziente “vale anche, ove il consenso sia prestato, a determinare nel paziente l'accettazione di quel che di non gradito può avvenire, in una sorta di condivisione della stessa speranza del medico che tutto vada bene; e che non si verifichi quanto di male potrebbe capitare, perché inevitabile. Il paziente che sia stato messo in questa condizione - la quale integra un momento saliente della necessaria “alleanza terapeutica” col medico - accetta preventivamente l'esito sgradevole e, se questo si verifica, avrà anche una minore propensione ad incolpare il medico. Se tuttavia lo facesse, il medico non sarebbe tenuto a risarcirgli alcun danno sotto l'aspetto del difetto di informazione (salva la sua possibile responsabilità per avere, per qualunque ragione, mal diagnosticato o mal suggerito o male operato; ma si tratterebbe - come si è già chiarito - di un aspetto del tutto diverso, implicante una “colpa” collegata all'esecuzione della prestazione successiva). Ma se il paziente non sia stato convenientemente informato, quella condizione di spirito è inevitabilmente destinata a realizzarsi, ingenerando manifestazioni di turbamento di intensità ovviamente correlata alla gravità delle conseguenze verificatesi e non prospettate come possibili. Ed è appunto questo il danno non patrimoniale che, nella prevalenza dei casi, costituisce l'effetto del mancato rispetto dell'obbligo di informare il paziente”.

Su tali premesse può dunque dedursi che il pregiudizio sofferenziale “normalmente” scaturente dalla violazione dell'obbligo informativo, quantomeno in sé considerato, tenda ad assomigliare più ad una peculiare forma di danno morale (rectius: da sofferenza) o da “impreparazione” (come condivisibilmente affermato da DANIELA ZORZIT, “I “Criteri orientativi” dell'Osservatorio di Milano per la liquidazione del danno da mancato/ carente consenso informato in ambito sanitario”) piuttosto che assumere i tratti di un pregiudizio dinamico-relazionale, poiché le possibili conseguenze dinamico-relazionali eventualmente patite sarebbero riferibili alla diversa lesione del bene salute (seppur tale lesione sia eziologicamente riconducibile alla primaria violazione dell'obbligo informativo che, come già esposto, innesca la serie causale in cui si innesta poi il danno strettamente legato all'atto terapeutico).

In definitiva, dunque, tale danno avrebbe natura di danno morale la cui autonoma liquidazione non deve però paventarsi come potenzialmente duplicativa del danno da sofferenza legato all'eventuale danno biologico altresì residuato, poiché trattasi di sofferenze (oltre che ancorate alla lesione di diversi valori costituzionali, anche) qualitativamente diverse, tra loro “orizzontali” e non sovrapponibili, meritevoli pertanto di distinto riconoscimento.

Ciò appare sostenibile soprattutto sulla considerazione che, in molti casi, per quanto intenso sia il turbamento legato alla lesione biologica, esso potrebbe progressivamente degradare - dunque rivestire i caratteri di turbamento transeunte, seppurdi apprezzabile gravità e serietà - mentre la sofferenza correlata al non aver potuto scegliere ed al non aver potuto decidere di autodeterminarsi circa l'evitare il rischio del danno ben potrebbe ritenersi permanere in modo più stabile, finanche se con intensità nocumentale variabile, soprattutto qualora la consapevolezza di aver perso incolpevolmente la possibilità di scegliere venga percepita come un rammarico che, ancorchè sopito, possa rinnovarsi improvvisamente, nuovamente ed intensamente, anche a distanza di tempo dalla lesione, rispetto al contingente variare delle situazioni della vita che richiamino l'evento lesivo e la relativa sofferenza. Tale accezione ondivaga e fluttuante della sofferenza da lesione dell'autodeterminazione non va però confusa con l'aleatoria possibilità di un danno futuro, bensì pur sempre come sofferenza permanente legata all'irreversibile lesione di quei valori protetti dagli artt. 2, 13 e 32, comma 2, Cost., le cui ripercussioni sofferenziali, tuttavia, ben possono ritenersi avere un'estrinsecazione variabile, alterna ed oscillante nella loro intensità, ma pur sempre permanenti.

Infatti, a differenza del danno da sofferenza derivante dalla violazione del consenso, il danno futuro identifica una diversa tipologia di pregiudizio - il cui verificarsi deve essere pur sempre connotato da sufficiente probabilità/ragionevole certezza – che non si manifesta immediatamente dopo il prodursi dell'evento dannoso, ma lo farà prevedibilmente e verosimilmente in un momento successivo a quello in cui si chiede il risarcimento (altrimenti sarebbe un danno già concretizzatosi nella sfera giuridica del danneggiato e, perciò, non futuro né aleatorio).

Le considerazioni fin qui espresse in merito alla connotazione di danno prettamente morale del pregiudizio da lesione dell'autodeterminazione trovano, però, eccezioni in quei casi peculiari ove è difficile tracciare una linea netta tra la sofferenza interiore e le sue ripercussioni dinamico-relazionali come, ad esempio, nei casi in cui:

- la violazione dell'obbligo informativo non provochi un danno alla salute – che è per definizione un danno dinamico-relazionale - ma si ponga comunque come causa diretta di quel gravissimo/eccezionale sconvolgimento di vita con ripercussioni dinamico-relazionali come avviene, ad esempio, in tutti i casi rientranti nel nòvero della wrongful birth e/o nei casi di perdita del rapporto parentale.

- la violazione dell'obbligo informativo provochi sì un danno alla salute, ma le cui ripercussioni dinamico-relazionali vadano ben oltre ciò che è già considerato nella stima percentuale del danno biologico e, cioè, la cui valutazione tabellare non possa aver tenuto conto di talune particolari ripercussioni esistenziali che privino il danneggiato della possibilità di esprimere e realizzare la propria personalità nel mondo esterno, come avviene ad esempio in alcuni casi di perdita della capacità procreativa od in taluni casi peculiari di danno estetico (le cui percentuali tabellari, legate sia al danno biologico che alla sofferenza che alla relativa “personalizzazione” per le ripercussioni non indefettibili, non possono già tener conto di quelle implicazioni esistenziali del soggetto che esulano dalla disfunzionalità clinica che tali lesioni all'integrità psico-fisica provocano, con necessità dunque di super-personalizzazione).

Tabelle di Milano 2021

Passando dall'indefinito cosmo del diritto teorico/sostanziale alle “forche caudine” del diritto pratico/processuale appare necessario, per gli operatori di merito, poter contare su criteri di misurazione del pregiudizio concreto che siano coerenti, omogenei e consentanei ad una concreta demarcazione dei confini liquidatori riferibili alla tipologia di pregiudizio trattato senza confonderlo con l'eventuale correlativo danno alla salute.

Un'assoluta novità in tal senso è rappresentata dalla proposta dell'Osservatorio di Milano che ha prospettato alcuni criteri orientativi da cui ha estrinsecato 4 fasce di valori monetari di riferimento per la liquidazione del “danno da mancato/carente consenso informato in ambito sanitario”.

Dalla relazione illustrativa che accompagna la pubblicazione delle nuove Tabelle, si evince che tale attività di sintesi statistica è frutto dell'analisi di un campione di 102 sentenze di merito (frutto di una scrematura di circa il doppio delle pronunce) che hanno accolto e liquidato la domanda di risarcimento del danno da lesione all'autodeterminazione in maniera autonoma rispetto al danno da lesione dell'integrità psico-fisica.

Da tale campione l'Osservatorio ha estrapolato, ordinato e catalogato quattro “livelli di gravità” di danno all'autodeterminazione, a seconda dell'intensità del vulnus concretamente accertato, in base alla ricorrenza di una o più circostanze della fattispecie concreta che attenuano od aggravano il pregiudizio al diritto all'autodeterminazione in ambito sanitario (per un commento approfondito alle nuove tabelle v. DAMIANO SPERA, “Le più importanti novità nelle nuove Tabelle Milanesi del danno non patrimoniale - edizione 2021”).

Secondo lo schema di Milano 2021 l'ammontare del risarcimento da mancato/carente consenso informato cresce a seconda dell'intensità del pregiudizio subìto ed è ipotizzato nelle seguenti forbici risarcitorie:

  • danno di lieve entità: da € 1.000,00 ad € 4.000,00;
  • danno di media entità: da € 4.000,00 ad € 9.000,00;
  • danno di grave entità: da € 9.000,00 ad € 20.000,00;
  • danno di eccezionale entità: da € 20.000,00 a salire.

Il gruppo di studio, nell'analisi statistica effettuata:

  • ha tenuto conto del valore monetario medio riscontrabile nella maggior parte delle pronunce, la cui liquidazione rientrava nel range da € 1.000,00 ad € 50.000,00;
  • ha escluso quelle pronunce che hanno liquidato importi ampiamente lungi da tale range poiché attinenti ad una casistica peculiare, non rientrante nella media (rappresentata dalla doppia lesione: integrità psico-fisica + autodeterminazione);
  • ha escluso quelle pronunce che hanno liquidato il danno ricorrendo alla metodica dell'aumento percentuale previsto per la personalizzazione del danno dinamico-relazionale.

La valutazione sull'intensità del pregiudizio che ha governato la suddivisione per livelli di “gravità” è stata ricavata dall'Osservatorio dalle motivazioni contenute nei precedenti di merito oggetto di studio, dalla cui analisi è stato possibile ricavare taluni ricorrenti parametri di valutazione posti dai giudici alla base delle motivazioni relative al quantum liquidato, quali:

  • entità delle ricadute sul bene-salute del danneggiato del trattamento sanitario non preceduto da idoneo consenso informato (entità delle conseguenze del trattamento da modesta a grave, irreversibilità o meno delle stesse, necessità o meno di altri trattamenti riparatori, grado di sofferenza nocicettiva patita in conseguenza del trattamento);
  • caratteristiche del trattamento sanitario non preceduto da idoneo consenso informato (trattamento più o meno invasivo, più o meno urgente, a scopo terapeutico od estetico, con tante o poche o nessuna alternativa terapeutica, poco o molto rischioso, off label, comportante donazione di organo dai familiari, ecc.);
  • caratteristiche personali del danneggiato (maggiore o minore vulnerabilità per età/storia clinica/condizioni personali/stato psichico; rilevanza delle aspettative del paziente dal punto di vista procreativo/estetico, incidenza sul credo religioso, ecc.);
  • entità della sofferenza del danneggiato conseguente alla compromissione della libertà di disporre di sé;
  • caratteristiche dell'inadempimento al dovere informativo (informazione mancante per uno o per più trattamenti, informazione fornita ma con lievi o gravi carenze, oppure riguardante diverso trattamento, ecc.).

Dalla relazione illustrativa si ricavano altresì alcuni elementi statistici relativi alle decisioni esaminate che risultano degni di nota, quali:

  • la circostanza che, sebbene non vi sia alcuna correlazione tra entità della lesione del bene-salute ed entità della lesione del diritto all'autodeterminazione, le sentenze che hanno liquidato un danno all'autodeterminazione di lieve/media entità più frequentemente avevano ad oggetto anche un danno alla salute contenuto e, allo stesso modo, le sentenze che hanno liquidato un danno all'autodeterminazione di grave/notevole entità più frequentemente avevano ad oggetto anche un pregiudizio all'integrità psico-fisica del paziente consistente/gravissimo se non addirittura il decesso del paziente;
  • la circostanza che tra le 35 sentenze che hanno liquidato un danno all'autodeterminazione di grave entità (forbice da € 9.001,00 ad € 20.000,00), 6 di esse avevano ad oggetto trattamenti non preceduti da valido consenso che hanno avuto come conseguenza postumi micro-permanenti o solo invalidità temporanea, 15 di esse riguardavano menomazioni macro-permanenti (sino al 90% di I.P.) e 3 di esse riguardavano il decesso del paziente;
  • la circostanza che tra le 10 sentenze che hanno liquidato il danno all'autodeterminazione di eccezionale entità (dunque liquidando importi oltre € 20.000,00), una di esse riguardava un intervento non preceduto da valido consenso al quale sono residuate menomazioni micro-permanenti, una di esse riguardava menomazioni macro-permanenti superiori al 50% e due di esse riguardavano il decesso del paziente.
  • l'importo liquidato a titolo di danno all'autodeterminazione è risultato, nella maggioranza dei casi, inferiore rispetto all'importo liquidato a titolo di danno alla salute;
  • tuttavia in 7 sentenze su 102 l'importo liquidato a titolo di danno all'autodeterminazione è stato superiore rispetto all'importo liquidato a titolo di danno alla salute.
Osservazioni

In materia di danno a persona, soprattutto negli ultimi due decenni, abbiamo assistito ad un pletorico protagonismo giurisprudenziale (c.detta giurisprudenza “creativa”).

Tale fenomeno è indubbiamente ascrivibile ad una “rumorosa” latitanza del Legislatore, il quale si è costantemente rivelato incapace di farsi interprete dei mutevoli valori della società contemporanea che avrebbero dovuto indurre lo stesso ad attuare quel necessario meccanismo adattivo – proprio della cosmologia darwiniana, quanto mai invocabile in tema di evoluzione del diritto – che consiste nella regolamentazione pragmatica delle vicende e dei diritti della persona, nell'ottica di quel miglioramento “performativo” che il diritto dovrebbe assicurare al fine di rendersi contestuale, se non addirittura preventivo, rispetto al progresso sociale.

Il Legislatore, pertanto, in materia è da sempre relegato a mero “tirocinante” della giurisprudenza e della dottrina ed è vittima di quella “sindrome da inseguimento” che risulta assolutamente fallace nelle ricadute normative, perché per quanto possa rivelarsi celere arriva sempre in ritardo (vedasi quanto accaduto in merito alle tabelle ex art. 138 D.Lgs. 209/2005 o in merito ai ricorrenti ed infruttuosi tentativi di riforma in materia di responsabilità sanitaria, prima con Balduzzi e poi con Gelli-Bianco).

È pacifico, dunque, che le Tabelle di Milano (così come qualunque altra tabella redatta da parte di un Ufficio giudiziario) rivestano un ruolo suppletivo rispetto a quello che dovrebbe essere un esclusivo retaggio del Legislatore, e che pertanto le stesse vadano considerate pur sempre in un'ottica convenzionale, poiché rappresentano quella “semplificazione organica” frutto di un metodo deliberatamente sintetico-statistico e privo di autorità normativa che origina però dalla necessaria deriva efficientista imposta dalle dinamiche dei tempi moderni oltre che dai principi di certezza del diritto, celerità ed economia processuale (tant'è che oggi si parla sempre più frequentemente di “giustizia predittiva”, anche in virtù delle emergenti innovazioni tecnologiche in campo di A.I. e blockchain, il che condurrà sempre più alla standardizzazione del settore).

L'utilizzo delle Tabelle si fonda infatti sul potere del giudice di valutare equitativamente il danno ex art. 1226 c.c. e, come soprattutto ribadito dalla recente Cass. 10579/2021, le Tabelle “si sostanziano in regole integratrici del concetto di equità, atte a circoscrivere la discrezionalità dell'organo giudicante, sicchè costituiscono un criterio guida e non una normativa di diritto (Cass. n. 1553/2019)”.

Nella liquidazione espressa secondo equità integrativa, infatti, ciò che conta è che la motivazione del giudice risulti congrua e dia conto delle ragioni che sostengono la quantificazione operata, la quale, quando avviene tramite l'utilizzo del parametro tabellare di derivazione pretoria e non legislativa, deve necessariamente essere “coerente e proporzionata rispetto a quella cui l'adozione dei parametri tratti dalle Tabelle di Milano consenta di pervenire (Cass. n. 17018/2018; Cass. n. n. 24479/2014; Cass. n. 14402/2011)” (sempre Cass. 10579/2021).

Le Tabelle, come esposto, svolgono un ruolo meramente tendenziale per il giudice di merito poiché i relativi parametri e punteggi altro non sono che un'opera di astrazione dalle decisioni della giurisprudenza di merito; la Tabella, cioè, non ha cogenza legislativa e consente pertanto al giudice di oltrepassare i relativi valori se le peculiarità del caso concreto non permettono di essere sussunti nella fattispecie presa in considerazione dalla tabella.

Al giudice è dunque consentito superare i limiti delle tabelle quando la situazione concreta si caratterizzi per la presenza di circostanze di cui il parametro tabellare non possa aver già tenuto conto (in quanto elaborato in astratto, sulla scorta dell'oscillazione “ipotizzabile in ragione delle diverse situazioni ordinariamente configurabili secondo l'id quod plerumque accidit”) ciò in quanto “la schematizzazione in punti variabili è di derivazione non legislativa, ma pretoria, nei limiti in cui lo è la tabella, e cioè estrazione dalla prassi giurisprudenziale di tipologie astratte” (ancora Cass. 10579/2021).

Pertanto, essendo le Tabelle di Milano concepite per scopi di “uniformità e prevedibilità delle decisioni a garanzia del principio di eguaglianza”, l'adozione della regola equitativa deve essere sempre sorretta da un'adeguata motivazione e non può limitarsi ad “inchinarsi” pedissequamente al parametro tabellare, ma deve garantire un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto.

In altri termini, quando il caso concreto impone al Giudice di distanziarsi dalla standardizzazione tabellare, diventa determinante la motivazione, la quale “non è solo forma dell'atto giurisdizionale imposta dalla Costituzione e dal codice processuale”, ma è soprattutto sostanza della decisione, perché “la valutazione equitativa del danno, nella sua componente valutativa, si identifica con gli argomenti che il giudice espone” (ancora Cass. 10579/2021).

Dunque, al di là dei riferimenti tabellari, risulta sempre consentito al Giudice il ristoro anche di ciò che non è previsto in tabella (ergo: così come è possibile oltrepassare la somma massima prevista, viene giustamente ribadito dall'Osservatorio che non esiste nemmeno un “minimo garantito”), infatti sia le varie forbici monetarie, sia, ad esempio, i legittimati attivi nella tabella del danno da perdita del rapporto parentale, sono solo indicazioni, risultato di una ponderata sintesi statistica che non sostituisce in alcun modo le norme che informano la dialettica processuale: il minimo risarcibile non spetta se non c'è allegazione e prova del pregiudizio così come potrebbe risultare legittimato attivamente anche un soggetto non inserito in tabella (si pensi all'amico fraterno, all'amante, al cugino, allo zio o ai nipoti del de cuius – i quali ultimi, volendo concedersi un'incursione in tale tematica, sono stati criticabilmente estromessi dalla tabella del danno da perdita del rapporto parentale nonostante l'oramai copiosa casistica giurisprudenziale al riguardo).

Appare altresì corretto osservare, per altro verso, che non si può pretendere di “tabellare” tutto, altrimenti verrebbero meno due fondamentali elementi del nostro attuale sistema risarcitorio, ovvero:

  • 'esigenza di commisurare il risarcimento di taluni danni che si discostano dagli “standard” definiti in tabella alle peculiarità del caso concreto, pur sempre tenendo conto del principio di indifferenza del risarcimento;
  • l'autonomia del giudice (che, comunque, è soggetta al vincolo dell'applicazione della legge) e la sua discrezionalità (che soggiace all'obbligo di motivazione, cfr. ex multis Cass. 7881/2017 oltre alla già più volte richiamata Cass. 10579/2021), da intendersi quali elementi che consentono al magistrato di rispettare i principi di integralità e proporzionalità del risarcimento di fronte a casi peculiari o che si discostino dagli “standard” tabellari.

La schematizzazione tabellare infatti, come esposto, deve sì mirare ad essere fonte di uniformità ma non di appiattimento: le peculiarità del caso concreto dovranno sempre riuscire a prevalere sulla statistica altrimenti tra pochi anni potremmo paradossalmente non avere più bisogno di giudicanti umani (poichè basterebbe avvalersi di semplici algoritmi per valutare “‘o numeriell” da inserire in sentenza).

Ciò di cui necessita, dunque, l'operatore, non è tanto il punteggio/valore economico empirico, bensì il parametro/criterio di valutazione entro il cui perimetro quel punteggio/valore economico può essere applicato (e che rappresenta, dunque, un posterius rispetto all'enucleazione del parametro/criterio di valutazione, il quale deve essere tracciato prima di giungere al valore economico).

In assenza di parametri forniti dalla legge in merito al danno da mancato/carente consenso i criteri di valutazione proposti dall'Osservatorio di Milano rappresentano sicuramente una novità positiva ed ampiamente condivisibile poichè forniscono al Giudice di merito un ampio ventaglio valutativo ed argomentativo da porre a sostegno della motivazione che deve obbligatoriamente sorreggere la liquidazione risarcitoria.

In assenza di indicazioni in tal senso da parte dell'Osservatorio ed in coerenza con quanto affermato dalla S.C. in tema di motivazione, si ritiene, in ogni caso, che l'accertata ricorrenza, in forma quantomeno “grave”, anche di uno solo dei criteri orientativi elaborati, possa sufficientemente dar luogo all'attribuzione del livello massimo di liquidazione del danno in esame qualora l'intensità di tale parametro sia in grado di travolgere, nel caso concreto, la “lievità” od anche l'assenza di altri parametri/criteri di valutazione tabellare.

Le Tabelle proposte per il danno in esame sono pregevoli nell'intento e nella forbice liquidatoria, poiché delineano dei criteri non eccessivamente rigidi ed una curva risarcitoria sufficientemente elastica da consentire agli operatori di utilizzarla come riferimento flessibile.

Un po' meno condivisibili appaiono gli importi, forse eccessivamente tendenti al ribasso poichè traenti origine da un'analisi che si è limitata ad una piccola parte della giurisprudenza di merito.

Sarebbe stato auspicabile contemperare la media valutativa delle sentenze di merito esaminate con talune sentenze di legittimità quali, ad esempio, Cass. n. 21235/2012, che ha confermato la liquidazione operata dai giudici di merito di € 900.081,08 alla lesa ed € 110.130,68 a ciascuno dei suoi figli per la sola mancata informazione a fronte di un intervento tecnicamente ben eseguito.

Tuttavia, a parere dello scrivente, i parametri di Milano 2021 risultano di immediata applicazione nei soli casi ove vi sia anche un già accertato danno alla salute, in virtù di quel richiamato sinergismo negativo che c'è tra la lesione dei due beni tutelati e che viene confermato dal “dato anamnestico” da cui originano le Tabelle del danno da mancato consenso: l'Osservatorio, infatti, ha tenuto conto unicamente di sentenze in cui è stato liquidato anche il danno alla salute.

Ulteriore ipotesi di immediata applicabilità della Tabella potrebbe configurarsi in tutti quei casi, pur distanti dall'ambito sanitario, in cui viene leso sostanzialmente anche il diritto all'autodeterminazione dell'individuo in ambito bancario/finanziario (la cui disciplina, volendo semplificare estremamente, ruota attorno agli obblighi informativi nei confronti del risparmiatore-cliente-consumatore, il quale, al pari del paziente clinico, non è in possesso di conoscenze specifiche in materia ed ha diritto a ricevere una compiuta informativa da parte del professionista proprio per esercitare il proprio diritto di scelta).

Da tale considerazione discende che la denominazione “danno da mancato/carente consenso informato in ambito sanitario” operata dall'Osservatorio non dovrebbe, a parere dello scrivente, risultare limitativa e/o precludere l'utilizzo dei relativi parametri in tutti quei casi in cui vi sia una plurima lesione di valori/interessi dell'individuo tra cui anche la violazione dell'obbligo di informazione, anche se al di fuori dell'ambito sanitario.

Appare astrattamente corretta la scelta operata dall'Osservatorio di escludere dal campione d'analisi le sentenze che hanno liquidato il danno all'autodeterminazione facendo ricorso al parametro previsto per la personalizzazione del danno dinamico-relazionale: tale scelta è coerente con il metodo di sintesi statistica proprio dell'Osservatorio, tuttavia non si ritiene di poter lapidariamente affermare che tale metodo - non considerato dall'Osservatorio nell'elaborazione tabellare perché ritenuto non in linea con il principio dell'autonomia del danno da violazione del consenso rispetto a quello alla salute - risulti tout court errato o inapplicabile, in quanto esso stesso è frutto di una parametrazione convenzionalmente equitativa (sebbene tabellarmente e prasseologicamente riferita alle non indefettibili ripercussioni dinamico-relazionali del danno alla salute) che è comunque sempre consentita al giudice in assenza di parametri di legge (e soggiace al solo vincolo della motivazione, non anche ad altri “limiti” privi di autorità legislativa).

Allo stesso modo e per lo stesso motivo non appare del tutto impredicabile un metodo di quantificazione del danno da violazione del consenso che sia direttamente correlato alla menomazione dell'integrità psico-fisica, facendo ricorso, ad esempio, ad un criterio equitativo basato su una percentuale della somma liquidabile per il pregiudizio arrecato alla salute (ad esempio sino alla metà di esso, come spesso proposto in dottrina), sul presupposto della valorizzazione del rapporto strumentale tra diritto all'autodeterminazione e diritto alla salute (in virtù di quel menzionato sinergismo negativo che c'è tra la lesione dei due beni costituzionalmente garantiti).

Il lavoro del gruppo di studio è stato indubbiamente meritevole di elogio e rappresenta un primo importante benchmark nell'evoluzione del danno da lesione del diritto all'autodeterminazione; è auspicabile, tuttavia, che l'attività dell'Osservatorio prosegua al fine di colmare talune aree risarcitorie inevitabilmente rimaste scoperte da questa prima elaborazione, ma la cui “codificazione” sarebbe vieppiù necessaria al fine di:

  • evitare l'eccessiva arbitrarietà del giudice (chiamato ad esercitare equità in assenza di parametri di legge);
  • evitare il rischio di ledere il principio stesso di equità, a cui si può giungere solo con un'uniformità di criteri risarcitori sull'intero territorio nazionale.

Volendo approfondire tale ultimo aspetto appare teoricamente coerente la scelta di espungere dall'analisi una sentenza che ha liquidato € 200.000,00 ai genitori di un nascituro per l'omessa informazione sulla sindrome di down da cui era poi risultato affetto quest'ultimo, poiché tale liquidazione avrebbe “inquinato” la media dei valori monetari in quanto “non statisticamente significativi” e non rapportabili, nemmeno nella fattispecie, ai casi esaminati nelle altre sentenze che erano invece tra loro consimili (e che hanno liquidato importi da € 1.000,00 ad € 50.000,00).

A tal proposito si potrebbe auspicare, vista la casistica frequente e la peculiarità delle relative conseguenze, che ad esempio i c.d. danni da nascita indesiderata vengano in futuro ad essere oggetto di indagine separata ed autonoma da parte dell'Osservatorio, con relativa tabellazione di quelle peculiari (ma frequenti nelle aule giudiziarie) vicende ove lo sconvolgimento di vita è elevatissimo.

Infatti, fermi gli oneri di allegazione e prova, ben può ritenersi che un danno del genere rientri in una fascia che si pone al di sopra di quella massima prevista dalla Tabella di Milano 2021, la cui “apertura” a possibili importi più elevati rispetto a quello “base” previsto in essa (€ 20.000,00), finanche se decuplicato, apparrebbe comunque assai misera a fronte di uno sconvolgimento di vita gravissimo per il quale la giurisprudenza, come nel caso espunto dall'Osservatorio, applica sovente la forbice monetaria prevista per la morte del familiare, quale parametro analogicamente riferito all'eccezionale sconvolgimento dell'intera esistenza.

Sul punto, anche il parametro della perdita del rapporto parentale sembra a chi scrive di gran lunga incongruo rispetto all'effettivo danno normalmente conseguente alla nascita di un feto malformato senza che i genitori ne siano stati preventivamente informati.

Infatti, la nascita di un bambino “non desiderato” (perché concepito per “errore” e/o nel momento sbagliato della propria esistenza e/o perché affetto da malformazioni che, se rese note ai genitori, avrebbero comportato l'interruzione della gravidanza) può provocare gravissime conseguenze ai genitori che abbiano subìto la contrazione della libertà di disporre di sé stessi.

Ciò sia in termini di sofferenza soggettiva – che deve intendersi duplice, ovvero sia in termini di shock, al momento della nascita, per la rivelazione di aver generato un figlio malformato ed altresì in termini di sofferenza successiva, identificabile come malinconica rassegnazione all'ineluttabile - e sia in termini di preclusioni esistenziali (quali ad esempio i sacrifici e le obbligatorie rinunce che determinano la perduta possibilità di intraprendere un diverso progetto di vita).

La scelta di non avere figli, al pari della scelta di non volere figli affetti da malformazioni irreversibili, costituiscono infatti diritti essenziali dell'individuo, che trovano fondamento negli artt. 2 e 29 Cost. (oltre che nelle norme che tutelano l'autodeterminazione) e la cui violazione, scaturente dalla violazione del consenso dei genitori, non può certo ritenersi inclusa nelle circostanze di cui il parametro tabellare per la perdita del rapporto parentale abbia tenuto conto.

Infatti, mentre la sofferenza interiore e la modificazione in peius delle abitudini di vita del familiare superstite non si riverberano, di regola, sulla sua intera prospettiva di vita, nel caso di wrongful birth il sovvertimento dei piani di vita del genitore viene a proiettarsi indefettibilmente su tutto il periodo in cui egli sopravvive al figlio malformato.

Le due tipologie di danno, sebbene abbiano in comune l'elemento della “deminutio” in termini di serenità d'animo, di realizzazioni esistenziali e dinamico-relazionali, differiscono tra loro qualitativamente e quantitativamente.

La perdita del rapporto parentale, infatti, per quanto sia tale da provocare nel familiare superstite un danno non patrimoniale per il lutto derivante dalla perdita di un affetto coltivato con il parente deceduto, si pone come perdita di qualcosa che è concretamente esistito ed è stato, almeno in gran parte, vissuto e fruito da parte del de cuius e del familiare superstite.

Il danno da nascita indesiderata, invece, riguarda non già il dolore provocato dal lutto (che deriverebbe dalla perdita di un affetto coltivato, dunque fruito e goduto), bensì dalla lesione dell'inviolabile diritto di scelta su come disporre della propria intera esistenza e degli effetti che l'assenza di volontà in tal senso hanno sullo sviluppo e sull'espressione futura della personalità del genitore e sulla sua identità, sulla sua collocazione sociale, economica, lavorativa e relazionale, in quanto non è stato posto nella condizione di scegliere.

La condizione esistenziale del soggetto che abbia subìto il lutto per la perdita, seppur traumatica, del familiare - il quale, però, in vita lo ha affettivamente affiancato per un apprezzabile periodo di tempo e con una certa intensità - non potrà ritenersi uguale o più grave rispetto a quella del genitore che sia stato costretto a confrontarsi con l'impotenza, la frustrazione ed il rammarico di non aver potuto decidere quali percorsi di vita intraprendere.

Infatti la perdita di un parente presente ed amorevole - che di norma viene definitivamente elaborata dal familiare superstite, soprattutto se si tratta di un figlio, in quanto spesso espressione del fisiologico andamento dell'esistenza e del suo naturale ciclo biologico vita-morte - lascia più intatta la personalità del familiare superstite, in quanto, se la relazione affettiva è stata apprezzabile, egli avrà pur sempre la compagnia del ricordo a cui aggrapparsi ed avrà intanto acquisito gli insegnamenti, le sicurezze e l'apporto conferitogli dalla relazione con il familiare deceduto finchè questi è rimasto in vita.

Al contrario, la condizione sofferenziale ed esistenziale di un genitore a cui viene “imposto” per tutta la vita un figlio che non voleva e/o che non avrebbe voluto a quelle condizioni (poichè foriero di “problematiche”), non ha margini di consolazione in quanto non v'è alcuna possibilità di innescare una sorta di progressiva accettazione (come invece avviene con l'elaborazione del lutto per il parente venuto a mancare), ma lascia in perenne stato di turbamento e sofferenza il genitore che la subisce, anzi spesso si aggrava man mano che il figlio malformato cresce e diventa sempre più un “peso” per il genitore.

Il gravissimo sconvolgimento di vita derivante dal non poter più pianificare la propria agenda di vita, infatti, ben può ritenersi avere ricadute sofferenziali ed esistenziali più gravose rispetto alla perdita del familiare, ed è in tal senso che sarebbe auspicabile un'elaborazione tabellare ad hoc.

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