Sul criterio di quantificazione del danno risarcibile per mala gestio degli amministratori

23 Giugno 2021

Nulla osta, in linea di principio, alla quantificazione del danno derivante alla società da condotte di mala gestio dei suoi amministratori tramite il criterio dello sbilancio patrimoniale; come osservato dalle Sezioni Unite, sono da considerarsi astrattamente efficienti a produrre un danno che si assuma corrispondente all'intero deficit patrimoniale...
Massima

Nulla osta, in linea di principio, alla quantificazione del danno derivante alla società da condotte di mala gestio dei suoi amministratori tramite il criterio dello sbilancio patrimoniale; come osservato dalle Sezioni Unite, sono da considerarsi astrattamente efficienti a produrre un danno che si assuma corrispondente all'intero deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita ed accertato nell'ambito della procedura concorsuale quegli inadempimenti «qualificati» dell'amministratore di società, allegati quale ragione della domanda risarcitoria, che integrano violazioni del dovere di diligenza nella gestione dell'impresa così generalizzate da far pensare che proprio a cagione di esse l'intero patrimonio sia stato eroso e si siano determinate le perdite registrate dal curatore, o comunque quei comportamenti che possano configurarsi come la causa stessa, diretta e immediata, del dissesto sfociato nell'insolvenza (Cass. Sez. U. 6 maggio 2015, n. 9100 cit., in motivazione). Una volta accertato, dunque, che una perdita patrimoniale si è determinata proprio in ragione dei nominati comportamenti, l'adozione del criterio corrispondente alla differenza tra passivo accertato e attivo liquidato in sede fallimentare trova sicuro fondamento applicativo.

Il caso

Con ricorso depositato presso la Suprema Corte di Cassazione, due soci e amministratori di una s.r.l. in liquidazione, sottoposta a procedura fallimentare, impugnavano la sentenza n. 338/2019 della Corte d'Appello di Genova, che aveva respinto il gravame dai medesimi proposto avverso la sentenza di I grado pronunciata dal Tribunale di Genova, la quale aveva accolto la domanda spiegata avverso i medesimi soci/amministratori dal Fallimento al fine di far accertare la loro responsabilità per mala gestio della società.

In particolare, il Fallimento contestava ai soci/amministratori convenuti in giudizio di non aver tempestivamente proceduto ai sensi di legge (ex artt. 2484, n. 4; 2485, 2486 c.c.) al momento del verificarsi della perdita integrale del capitale sociale e, anzi, di aver proseguito l'attività sociale ponendo in essere condotte distrattive che avevano portato allo svuotamento della società, con danno per essa e a vantaggio di società terze, rispetto alle quali essi erano parti correlate, anziché limitarsi ad attività meramente conservative del patrimonio sociale.

Il Tribunale riteneva sussistente la responsabilità dei soci/amministratori convenuti e quantificava il danno subìto dalla società per effetto delle condotte di mala gestio poste in essere dai medesimi tramite il criterio equitativo consistente nello sbilancio patrimoniale tra attivo e passivo fallimentare e riconosceva, altresì, in favore della società fallita, un ulteriore importo a titolo risarcitorio, pari alla compensazione contabile tra un credito che la società vantava nei confronti di uno dei soci/amministratori convenuti e l'utile di esercizio, maturato nell'anno precedente a quello in cui si era verificata l'integrale perdita del capitale sociale, che risultava essere stato assegnato al medesimo socio/amministratore convenuto.

La pronuncia del Tribunale veniva impugnata dai due soci/amministratori, convenuti soccombenti in I grado, dinanzi alla Corte d'Appello, la quale respingeva il gravame confermando la responsabilità per mala gestio accertata in I grado, poiché il dissesto della società non era imputabile a “evenienze imprevedibili ed estranee” alla sfera degli amministratori, bensì alla prosecuzione dell'attività sociale, per diversi anni, con patrimonio negativo, vista la perdita integrale del capitale sociale, mediante comportamenti distrattivi in favore di società correlate.

La Corte d'Appello confermava anche la modalità di liquidazione del danno equitativa stabilita dal Tribunale, poiché non erano di semplice determinazione gli importi sviati in favore delle società correlate, in danno della società fallita, tramite le contestate e accertate condotte distrattive dei soci/amministratori convenuti in giudizio dal Fallimento.

Contro la sentenza della Corte d'Appello di Genova ricorrevano in Cassazione i due soci/amministratori convenuti e soccombenti in I e II grado, spiegando sette motivi di impugnazione, dei quali sei motivi venivano respinti ed uno solo accolto.

Con i primi sei motivi di gravame, i soci/amministratori ricorrenti eccepivano l'illegittimità dell'adozione del parametro equitativo prescelto dal Tribunale, e confermato dalla Corte d'Appello, per la quantificazione del danno subìto dalla società fallita, pari allo “sbilancio fallimentare”, ed altresì lamentavano la il mancato espletamento della richiesta CTU contabile volta a quantificare esattamente il danno.

Con il settimo motivo, i ricorrenti eccepivano che il riconoscimento di un secondo importo, a titolo risarcitorio, in favore della società, pari alla compensazione contabile tra un credito vantato dalla società nei confronti di uno dei soci/amministratori convenuti in giudizio dalla curatela fallimentare e l'utile di esercizio, maturato nell'anno precedente a quello in cui si era verificata l'integrale perdita del capitale sociale, assegnato al medesimo socio/amministratore convenuto, determinava una illegittima duplicazione del risarcimento complessivamente liquidato in I e in II grado.

Le questioni

La Corte di Cassazione respinge i primi sei motivi di ricorso e accoglie il settimo, sulla base delle motivazioni che seguono.

La Suprema Corte non accoglie l'eccezione dei ricorrenti circa l'illegittimità dell'adozione del criterio equitativo per la liquidazione del danno subìto dalla società fallita, consistente nella differenza tra attivo e passivo fallimentare, poiché ritiene che, nel caso di specie, sussistano i presupposti per fare ricorso a tale criterio liquidatorio.

Infatti, richiamando la sentenza delle SS.UU. n. 9100 del 6 maggio 2015 (“Nell'azione di responsabilità promossa dal curatore del fallimento di una società di capitali nei confronti dell'amministratore della stessa, l'individuazione e la liquidazione del danno risarcibile dev'essere operata avendo riguardo agli specifici inadempimenti dell'amministratore, che l'attore ha l'onere di allegare, onde possa essere verificata l'esistenza di un rapporto di causalità tra tali inadempimenti ed il danno di cui si pretende il risarcimento.

Nelle predette azioni la mancanza di scritture contabili della società, pur se addebitabile all'amministratore convenuto, di per sè sola non giustifica che il danno da risarcire sia individuato e liquidato in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, potendo tale criterio essere utilizzato soltanto al fine della liquidazione equitativa del danno, ove ricorrano le condizioni perchè si proceda ad una liquidazione siffatta, purché siano indicate le ragioni che non hanno permesso l'accertamento degli specifici effetti danno si concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore e purché il ricorso a detto criterio si presenti logicamente plausibile in rapporto alle circostanze del caso concreto.”) la Suprema Corte afferma che il Giudice di II grado, condividendo gli accertamenti sul punto del Tribunale, ha ritenuto che il danno lamentato dalla curatela fallimentare fosse “integralmente riconducibile” alle condotte di mala gestio degli amministratori convenuti, consistite nello svuotamento del patrimonio sociale tramite distrazione di attivo in favore di società terze correlate, condotte poste in essere quando si era già verificata l'integrale perdita del capitale sociale e, dunque, la società, a norma di legge, avrebbe dovuto essere adeguatamente ricapitalizzata oppure sciolta e messa in liquidazione e, fino al passaggio delle consegne ai liquidatori ai sensi dell'art. 2487-bis c.c., gli amministratori avrebbero dovuto gestire la società ai soli fini della conservazione dell'integrità e del valore del patrimonio sociale, ex art. 2486 c.c.

Ebbene, dal momento che (i) le condotte distrattive di cui si tratta, per le loro caratteristiche specifiche così come accertate dal Tribunale, non permettevano di addivenire a una esatta quantificazione del danno cagionato alla società dagli amministratori tramite tali condotte, e (ii) risultava l'incompletezza della documentazione contabile che il fallimento era riuscito ad acquisire (incompletezza peraltro non contestata dai ricorrenti), la Suprema Corte ritiene che il criterio equitativo liquidatorio confermato nella sentenza impugnata sia legittimo nel caso di specie, sussistendo altresì – così come stabilito anche dalle SS.UU. sopra citate – l'indefettibile requisito (iii) dell'individuazione e specificazione delle condotte di mala gestio poste in esseredagli amministratori in astratto idonee a cagionare, in via diretta e immediata, un pregiudizio patrimoniale alla società, pregiudizio che ben può ritenersi pari, sussistendo le condizioni appena elencate (i, ii, iii), al deficit patrimoniale accumulato dalla società fallita, di talchè quelle condotte qualificate, allegate dalla curatela, possono configurarsi come la causa stessa del dissesto della società, divenuta insolvente e, infine, assoggettata a fallimento.

La Cassazione, infatti, precisa che le condotte qualificate di mala gestio degli amministratori, allegate dal fallimento, che hanno cagionato il dissesto della società, non consistono solo nell'omissione di un atto dovuto, e cioè nella mancata messa in liquidazione, previo scioglimento, della società, al verificarsi dell'integrale perdita del capitale, ma sono altresì tipizzate attraverso una componente commissiva di notevole rilievo dannoso, ovvero la distrazione delle attività patrimoniali sociali in favore di società terze correlate, con conseguente svuotamento del patrimonio sociale.

Pertanto, sulla base di tali premesse, la Suprema Corte, richiamando anche la precedente pronuncia n. 9983 del 20 aprile 2017 della I sez. (“Per liquidare il danno derivante da una gestione della società condotta in spregio dell'obbligo di cui all'art. 2449 cod. civ. (vecchio testo), ovvero dell'attuale 2486 cod. civ., il giudice può ricorrere in via equitativa, nel caso di impossibilità di una ricostruzione analitica dovuta all'incompletezza dei dati contabili ovvero alla notevole anteriorità della perdita del capitale sociale rispetto alla dichiarazione di fallimento, al criterio presuntivo della differenza dei netti patrimoniali. La condizione è che tale ricorso sia congruente con le circostanze del caso concreto, e che quindi sia stato dall'attore allegato un inadempimento dell'amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state specificate le ragioni impeditive di un rigoroso distinto accertamento degli effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta”) ritiene legittimo il ricorso alla liquidazione equitativa del danno così come effettuata dal Tribunale e confermata dalla Corte d'Appello, poiché sono state indicate le ragioni per le quali l'insolvenza della società è stata ritenuta una conseguenza delle condotte – qualificate – di mala gestio degli amministratori convenuti dal fallimento.

Quanto, invece, al settimo motivo di gravame, la Corte di Cassazione lo accoglie e giunge a tale conclusione attraverso il seguente ragionamento.

Premesso che è necessaria l'adozione di un'apposita delibera assemblare che disponga la distribuzione dell'utile d'esercizio, in alternativa al suo accantonamento o utilizzo nell'interesse della stessa società, la Suprema Corte chiarisce che non sussiste un diritto del socio alla distribuzione degli utili, in mancanza di una delibera dell'assemblea in tal senso.

Ebbene, nel caso di specie, in mancanza di un'apposita delibera assembleare che disponesse in tal senso, un debito verso la società di un socio/amministratore, convenuto dal fallimento, è stato “abbattuto” in bilancio attraverso la compensazione effettuata, in favore di tale amministratore-debitore, con gli utili di esercizio distribuiti in favore del medesimo.

Ciò precisato, la Corte afferma però che, qualora il danno subìto dalla società a causa di condotte di mala gestio degli amministratori sia liquidato con il criterio equitativo applicato nel caso di specie (ovvero la differenza tra attivo e passivo fallimentare) considerare, quale ulteriore “voce di danno” patito dall'ente, anche l'importo pari agli utili compensati - in mancanza di un'apposita delibera assembleare che disponga in tal senso - con un debito gravante su di un socio/amministratore verso la società, costituisce una illegittima duplicazione del risarcimento riconosciuto alla società lesa dalle condotte di mala gestio allegate e accertate in capo agli amministratori, poiché il criterio equitativo de quo già ricomprende anche tale perdita patrimoniale cagionata alla società.

Osservazioni

L'ordinanza in commento afferma il principio della legittimità del ricorso alla liquidazione equitativa del pregiudizio subìto dall'ente per effetto delle condotte negligenti dei suoi amministratori, parametrato sul deficit patrimoniale cagionato alla società, qualora sia allegata e qualificata dalla parte che agisce in giudizio la/le condotta/e degli amministratori che siano idonee, quantomeno in via astratta, a porsi come cause del pregiudizio medesimo: l'accertamento della sussistenza del nesso causale tra danno patrimoniale subìto dalla società e inadempimento degli amministratori al proprio dovere di gestire con diligenza – qualificata – l'impresa risulta quindi imprescindibile al fine di poter applicare tale criterio equitativo di liquidazione del danno ( in tal senso, anche: Cass. 3 ottobre 2018, n. 24103; Cass. 20 aprile 2017, n. 9983; Cass. 3 gennaio 2017, n. 38).

Il criterio forfettizzato del “deficit fallimentare” per quantificare il danno risarcibile è stato affermato dalla Suprema Corte nel corso degli anni ottanta; negli anni novanta, tuttavia, la stessa Cassazione si è discostata da tale assunto, poiché non consentirebbe di verificare precisamente il nesso causale tra condotta illecita degli amministratori e danno, affermando il principio secondo il quale gli amministratori devo risarcire i danni che siano conseguenza immediata e diretta delle violazioni dagli stessi commesse, nella misura pari al deterioramento patrimoniale che non si sarebbe verificato in assenza del comportamento illecito (si veda, in particolare: Cass., 22 ottobre 1998, n. 10488: “per quanto riguarda, in particolare, il contenuto dell'obbligazione risarcitoria, il danno che l'amministratore responsabile è tenuto a risarcire è quello causalmente riconducibile in via immediata e diretta alla sua condotta colposa o dolosa, ed entro tale limite ricomprende, secondo i principi generali, sia il danno emergente sia il lucro cessante; e va in concreto commisurato al pregiudizio che la società non avrebbe subito se un determinato comportamento illegittimo, attivo od omissivo, non fosse stato posto in essere da parte dell'amministratore”).

Il ricorso al criterio equitativo del deficit patrimoniale fallimentare può essere quindi legittimamente utilizzato per quantificare il danno subìto dalla società solo quando il dissesto e il successivo fallimento si siano verificati per condotte imputabili agli organi sociali che costituiscano le cause determinanti, in via diretta e immediata, del fallimento e della lesione degli interessi creditori e, contemporaneamente, ci si trovi nell'impossibilità di dimostrare/quantificare gli effetti di tali comportamenti illegittimi e siano indicate le ragioni che, nel caso specifico, non hanno permesso di accertare gli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta degli amministratori, anche per insufficienza della documentazione contabile formata dai gestori medesimi a causa della loro negligenza e imperizia/dolo.

Ebbene, nel caso di specie, il Fallimento ricorrente ha allegato e dimostrato tutti i presupposti ora evidenziati, di talchè pare legittimo il ricorso al criterio equitativo del deficit patrimoniale fallimentare per quantificare il pregiudizio subìto dalla società per effetto delle condotte di mala gestio dei suoi amministratori.

Conclusioni

Solo violazioni del dovere di diligenza qualificata che incombe sugli amministratori assai generalizzate e gravi, che si pongono come causa diretta e immediata di un danno alla società tanto grave da comportare il dissesto della medesima e il successivo fallimento, posso giustificare il ricorso al criterio equitativo del “deficit patrimoniale”.

In assenza di una tale gravità e ampiezza dell'inadempimento dei gestori, l'identificazione del danno con il deficit fallimentare sarebbe privo di fondamento logico e parrebbe addirittura avere una funzione ”sanzionatoria”, poiché verrebbe posta a carico dell'organo amministrativo la responsabilità anche per quelle ulteriori passività che inevitabilmente, maturano durante la fase liquidatoria.

Gli amministratori sono obbligati a tenere con diligenza (qualificata) e perizia i libri obbligatori e le scritture contabili; il mancato reperimento, da parte del curatore, di tali scritture o la loro tenuta negligente e parziale, non consentono al curatore di ricostruire con sufficiente certezza le vicende che hanno condotto al dissesto e, non potendosi tale circostanza rivolgersi a favore degli amministratori – inadempienti – medesimi, è stata ritenuta, per anni, di per sé, circostanza legittimante del ricorso al criterio del deficit.

Nel 2015, le SS.UU. affermano tuttavia che, sebbene la tenuta negligente o la mancanza delle scritture contabili sia senz'altro addebitabile all'amministratore, per poter liquidare il danno subìto dalla società per effetto delle condotte inadempienti dei suoi gestori in misura corrispondente alla differenza tra il passivo e l'attivo accertati in ambito fallimentare, è necessaria l'esposizione delle ragioni che non abbiano permesso l'accertamento degli specifici effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta dei gestori, nonché la plausibilità logica del ricorso a detto criterio, con specifico riferimento alle circostanze del caso concreto.

Le Sezioni Unite, però, dal momento che la mancanza/parzialità delle scritture contabili rende arduo per il curatore quantificare precisamente il danno riconducibile ad un determinato inadempimento imputabile all'amministratore della società, consentono al Fallimento di ricorrere

all'art. 1226 c.c., richiedendo la liquidazione in via equitativa del pregiudizio sociale e il giudice potrà utilizzare il criterio equitativo del deficit, rappresentando le ragioni che non abbiano consentito, nel caso specifico, l'accertamento degli effetti pregiudizievoli concretamente riconducibili alla condotta dell'amministratore convenuto, nonché la plausibilità logica del ricorso a tale criterio, così come nel caso di specie è stato motivato.

Pare, dunque, che l'ordinanza in commento sia pienamente motivata nel confermare la legittimità del ricorso al criterio liquidatorio equitativo del “deficit fallimentare” effettuata dalla Corte d'Appello nella sentenza impugnata.

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