Riforma del processo civile: il nuovo regime delle preclusioni in primo grado

23 Giugno 2021

Il presente contributo esamina le proposte di intervento normativo, contenute nel disegno di legge delega per la riforma del processo civile e relativi emendamenti, inerenti alle preclusioni nel giudizio di primo grado.
Inquadramento

La commissione ministeriale, presieduta dal prof. Luiso, incaricata di elaborare proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti allo stesso alternativi, ha concluso i lavori con un articolato di disposizioni che dovrebbero (il condizionale è d'obbligo…) mirare a ridurre i tempi dei processi e ottenere una miglior efficienza dell'amministrazione della giustizia.

Si tratta di un progetto di riforma alquanto vasto ed ambizioso, che coinvolge la giurisdizione sia contenziosa - cognitiva, esecutiva e cautelare - che volontaria, nonché i profili prettamente organizzativi del settore giustizia, come il c.d. «ufficio per il processo», ed i mezzi alternativi di risoluzione delle controversie (Adr), come mediazione e negoziazione assistita, di cui si vorrebbe incentivare l'utilizzo. Il tutto nell'ottica della valorizzazione delle risorse economiche che l'Unione Europea metterà a disposizione dell'Italia e che andranno a sostenere il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), di cui la riforma della giustizia costituisce uno dei pilastri fondamentali, come sostenuto anche dal ministro Cartabia.

L'articolato è stato in parte modificato con la recente approvazione del maxiemendamento al d.d.l. delega n. 1662 recante «Delega al Governo per l'efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie».

In particolare, in relazione al giudizio di cognizione, si è provveduto ad estendere il principio di «non contestazione» alla parte rimasta contumace, mentre, sul versante dei riti applicabili, si è ristrutturata la fase introduttiva e di trattazione del rito ordinario, con un regime di preclusioni ancor più rigido. Novità degne di nota sono state previste anche in relazione alla fase decisoria e, soprattutto, in tema di procedimento sommario di cognizione, quest'ultimo oggetto di un vero e proprio «restyling» formale e sostanziale.

Nei paragrafi che seguono saranno esaminate le proposte di intervento normativo, contenute nel disegno di legge delega e relativi emendamenti, inerenti alle preclusioni nel giudizio di primo grado.

Il principio di «non contestazione» si applica anche al contumace

Il regime delle preclusioni nel processo civile è, in linea generale, condizionato, per quanto attiene alla definizione del «thema probandum», anche dall'applicazione del principio di «non contestazione», di cui al comma 1 dell'art. 115 c.p.c. Tale disposizione normativa è stata modificata dalla l. 69/2009, che ha introdotto a carico di ciascuna parte l'onere di contestazione specifica dei fatti addotti dalla controparte, prevedendo che il giudice possa porre a fondamento della decisione non solo le prove proposte dalle parti o dal pubblico ministero, ma anche «i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita». Si tratta di un principio riferibile non solo ai fatti principali, ma anche a quelli secondari, non essendovi nella norma alcuna traccia di tale distinzione (cfr., in motivazione, Cass. civ., sez. un., 29 maggio 2014, n. 12065, che ha superato il diverso «dictum» espresso da Cass. civ., sez. un., 23 gennaio 2002, n. 761, che distingueva, in ordine alla rilevanza della condotta di «non contestazione», tra fatti costitutivi della fattispecie e fatti secondari di rilievo istruttorio), e riguarda non solo l'attore, ma anche il convenuto ed i terzi (Cass. civ., 3 maggio 2016, n. 8647).

Nel dichiarato intento di semplificazione della disciplina processuale e dell'attività istruttoria del giudice, il d.d.l. delega propone di inserire nell'atto di citazione, verosimilmente nella parte inerente alla «vocatio in ius», l'ulteriore avvertimento che la contumacia ritualmente verificata del convenuto determina la non contestazione dei fatti posti a fondamento della domanda ove la stessa verta in materia di diritti disponibili.

Da tale integrazione dell'atto di citazione si ricavano, in effetti, due principi, ossia, da un lato, la conferma che la «non contestazione» riguarda le (sole) controversie su diritti disponibili e, dall'altro, l'estensione del suo ambito applicativo anche nei confronti della parte rimasta contumace.

Ebbene, il primo principio, ossia la limitazione della rilevanza della «non contestazione» ai soli giudizi vertenti su diritti disponibili, si fonda su una conclusione alquanto pacifica sia in giurisprudenza (Cass. civ., 17 maggio 2018, n. 12122, e Cass. civ., 20 ottobre 2015, n. 21176, secondo cui «il principio di non contestazione mira a selezionare i fatti bisognosi di istruzione probatoria in un ambito dominato dalla disponibilità delle parti»; Trib. Monza 29 settembre 2010, in Giur. merito, 2011, 3115) che in dottrina (Cea, La tecnica della non contestazione nel processo civile, in Giusto proc. civ., 2006, 173; Verde, Diritto processuale civile, 2, Bologna, 2017, 51).

Dirompente risulta, invece, l'estensione del principio di «non contestazione» nei confronti del contumace, essendo consolidato in giurisprudenza l'orientamento contrario, che esclude l'operatività della «non contestazione» nei confronti della parte non costituitasi, in ragione del carattere «neutro» del comportamento tenuto dal contumace e della formulazione letterale del vigente comma 1 dell'art. 115 c.p.c. In sostanza, si è tradizionalmente sostenuto che la contumacia esprime un silenzio non soggetto a valutazione, non vale a rendere non contestati i fatti allegati dall'altra parte, né altera la ripartizione degli oneri probatori tra le parti (Cass. civ., 26 giugno 2018, n. 16800; Cass. civ., 19 ottobre 2016, n. 21096; Cass. civ., 24 novembre 2014, n. 24885; Cass. civ., 23 giugno 2009, n. 14623).

Ebbene, con l'estensione del principio di «non contestazione» al contumace, e dunque con l'equiparazione della condotta di contumacia a quella di contestazione generica, si supera il paradosso venutosi a creare nel confronto tra la condotta inerte ed indifferente del contumace, priva di disvalore sul piano processuale e tale da non mitigare l'onere probatorio gravante sulla controparte, e quella solerte della parte costituitasi in giudizio, la quale, essendo tenuta a contestare specificamente i fatti (altrettanto specificamente) allegati dalla controparte, al fine di evitare che gli stessi vengano esclusi dal «thema probandum», viene a trovarsi, allo stato attuale, in una situazione senz'altro deteriore rispetto al contumace.

In ogni caso, la proposta di riforma contenuta nel d.d.l. in esame dovrebbe lasciare fermi alcuni approdi interpretativi in ordine all'ambito applicativo ed alle ulteriori limitazioni già previste, secondo la giurisprudenza, per il principio di «non contestazione», nel senso che l'applicazione di tale principio, anche nel caso di contumacia della controparte, resterebbe pur sempre limitata ai soli fatti storici la cui ricostruzione «ex post» richieda il dispendio di attività probatoria, rimessa alle parti, e andrebbe esclusa, invece, per le questioni rilevabili d'ufficio, come quelle inerenti alla legittimazione attiva e passiva (Cass. civ., 20 ottobre 2015, n.21176) e alla qualificazione giuridica dei fatti, che rientra nel potere-dovere del giudice (Cass. civ., 6 agosto 2019, n. 20998), nonché per le conclusioni ricostruttive desumibili dalla valutazione di documenti (Cass. civ., 5 marzo 2020, n. 6172). Non può, inoltre, dubitarsi che la contumacia del convenuto non esonererebbe comunque l'attore dall'onere di provare i fatti per i quali la legge richieda la forma scritta «ad substantiam», dovendosi anche in tal caso pacificamente escludere l'operatività del principio in esame (Cass. civ., 13 gennaio 2021, n. 387; Cass. civ., 17 ottobre 2018, n. 25999; Cass. civ., 6 agosto 2002, n. 11765).

L'estensione al convenuto contumace non dovrebbe, poi, pregiudicare neppure l'onere, gravante sull'attore, di una specifica allegazione dei fatti che dovrebbero essere contestati (principio di circolarità della specificità: ad allegazione specifica corrisponde onere di contestazione specifica): in particolare, secondo la giurisprudenza, la specificità dell'allegazione non può essere desunta anche dall'esame dei documenti prodotti, giacchè l'onere di contestazione deve essere correlato alle affermazioni, non generiche, contenute negli atti destinati a contenere le allegazioni delle parti, onde consentire alle stesse e al giudice di verificare immediatamente, sulla base delle contrapposte allegazioni e deduzioni, quali siano i fatti non contestati e quelli ancora controversi (Cass. civ., 7 febbraio 2020, n. 2908; Cass. civ., 9 novembre 2017, n. 26623; Cass. civ., 22 settembre 2017, n. 22055). Diversamente opinando, alla luce della proposta di riforma in esame, un'allegazione alquanto vaga dei fatti principali posti a fondamento della domanda attorea potrebbe comportare l'accoglimento della stessa, senza svolgimento di alcuna attività istruttoria, pur in ipotesi di contumacia del convenuto.

Sulla stessa scia, la contumacia del convenuto potrebbe espungere dal «thema probandum» i fatti (specificamente) allegati dall'attore, nel senso di ritenere questi non contestati, semprechè tali fatti siano conosciuti o conoscibili dal convenuto medesimo, nel senso che quest'ultimo deve essere in grado di effettuare una specifica contestazione di quanto dedotto ed allegato da controparte (Cass. civ., 31 agosto 2020, n. 18074; Cass. civ., 4 gennaio 2019, n. 87; Cass. civ., 18 luglio 2016, n. 14652; Cass. civ., 13 febbraio 2013, n. 3576): invero, in mancanza di una concreta conoscibilità dei fatti, non può esigersi alcuna specifica contestazione da parte del convenuto e non può, quindi, neppure ritenersi che la contumacia dello stesso esoneri l'attore dall'onere di dimostrare i fatti rientranti in via esclusiva nella sfera di conoscibilità di quest'ultimo. Si pensi, ad es., al danneggiato che, in sede di risarcimento, descriva la dinamica di un sinistro di cui la compagnia assicurativa convenuta o chiamata in garanzia non sia a conoscenza: è evidente che la contumacia di quest'ultima non potrebbe far venir meno l'onere probatorio gravante sull'attore in ordine all'effettivo accadimento del sinistro ed alle modalità dello stesso. Lo stesso dicasi nel caso in cui il danneggiato alleghi un danno biologico in una certa misura o dichiari di aver svolto in precedenza una certa attività che ora non può più compiere: la controparte potrebbe non conoscere se effettivamente il danneggiato abbia subito una determinata lesione o se, prima del sinistro, praticasse professionalmente un'attività sportiva, sicché, in tal caso, non essendo possibile una contestazione specifica neppure nel caso di costituzione in giudizio, la contumacia del convenuto non potrebbe determinare l'applicazione del principio di «non contestazione».

In sintesi, la contumacia del convenuto, al pari della condotta di contestazione generica da parte dello stesso, comporta la «non contestazione» dei fatti allegati dall'attore, con conseguente espunzione degli stessi dal «thema probandum», a condizione che l'attore abbia specificamente allegato tali fatti ed il convenuto fosse in grado, ove costituitosi, di contestarli specificamente (in base ad una valutazione prognostica), salve, comunque, le ulteriori limitazioni in ordine all'ambito applicativo del principio in esame enucleate dalla giurisprudenza.

Resterebbe, inoltre, pur sempre valido l'insegnamento secondo cui il semplice difetto di contestazione - desumibile, secondo il d.d.l. delega, anche dalla mera contumacia - non impone un vincolo di meccanica conformazione, in quanto il giudice può sempre rilevare l'inesistenza della circostanza allegata da una parte anche se non contestata dall'altra, ove tale inesistenza emerga dagli atti di causa e dal materiale probatorio raccolto. Del resto, se le prove devono essere valutate dal giudice secondo il suo prudente apprezzamento (art. 116 c.p.c.), «a fortiori» ciò vale per la valutazione della mancata contestazione (Cass. civ., 21 aprile 2016, n. 8039; Cass., Sez. Un., 3 giugno 2015, n. 11377), non essendo sostenibile che il legislatore abbia voluto far assurgere la a prova legale.

Strettamente connessa con l'operare del principio della «non contestazione» è anche la questione - lasciata irrisolta dalla riforma del 2009 e fonte di divergenti orientamenti in sede applicativa - del termine entro il quale la parte possa esercitare la specifica contestazione dei fatti allegati dalla controparte. In proposito, si fronteggiano, al momento, due orientamenti: secondo una prima tesi, l'onere di specifica contestazione va assolto nella prima difesa o udienza immediatamente successiva all'allegazione del fatto che si intende contestare (Cass. civ., 27 febbraio 2008, n. 5191); secondo altra tesi, più recente, la mancata tempestiva contestazione, sin dalle prime difese, dei fatti allegati dall'attore è comunque retrattabile nei termini previsti per il compimento delle attività processuali consentite dall'art. 183 c.p.c. (nel rito del lavoro sino all'udienza ex art. 420 c.p.c.), risultando preclusa, all'esito della fase di trattazione, ogni ulteriore modifica determinata dall'esercizio della facoltà deduttiva (Cass. civ., 26 maggio 2020, n. 9690; Cass. civ., 6 dicembre 2019, n. 31402; Cass. civ., 12 marzo 2019, n. 7093; Cass. civ., 29 novembre 2013, n. 26859. Si veda, inoltre, Cass. civ., 16 dicembre 2014, n. 26356, che, in relazione al procedimento per convalida di sfratto, richiama, come barriera preclusiva, la memoria integrativa ex art. 426 c.p.c.).

Nel tentativo di risolvere tale discrasia giurisprudenziale, il d.d.l. predisposto dalla commissione ministeriale proponeva di introdurre, come regola generale, la previsione secondo cui la specifica contestazione va effettuata, a pena di decadenza, nel primo atto difensivo successivo a quello in cui vi sia stata l'allegazione dei fatti in giudizio con riferimento ai quali va esercitato l'onere di contestazione, con un'evidente adesione al primo dei predetti orientamenti. Il recente emendamento governativo ha, però, previsto la soppressione di tale disposizione, lasciando così all'interpretazione giurisprudenziale, allo stato non univoca, la soluzione del problema.

Occorre poi chiedersi cosa accada nel caso di costituzione tardiva del convenuto già dichiarato contumace alla prima udienza. Potrebbe, cioè, il convenuto, ed eventualmente fino a quale fase processuale, contestare i fatti allegati dalla controparte e inizialmente esclusi dall'attività probatoria perché ritenuti «non contestati» proprio in ragione della contumacia del medesimo convenuto?

In tale ipotesi, pacifico che, costituendosi tardivamente, il contumace debba accettare il giudizio nello stato in cui si trova, con le preclusioni fino a quel momento maturate, appare opportuno ritenere che lo stesso, fino al maturare delle preclusioni assertive di cui alla prima memoria ex art. 183, comma 6, c.p.c., possa pur sempre assumere posizioni di mera negazione dei fatti costitutivi la cui prova gravi sulla controparte, lasciando così inalterato l'onere probatorio di quest'ultima. Qualora, invece, ad es., in conseguenza dell'iniziale contumacia, il giudice, in prima udienza, magari su richiesta di parte attrice, disponga il rinvio della causa per la precisazione delle conclusioni, avendo ritenuto «non contestati» i fatti specificamente allegati dall'attore e la causa matura per la decisione, la costituzione tardiva del convenuto dopo la prima udienza non potrebbe consentirgli di elidere la rilevanza processuale già assegnata alla sua iniziale contumacia, dovendo ritenersi ormai inesorabilmente chiusa la fase di definizione sia del «thema decidendum» che del «thema probandum», salva la sussistenza degli estremi per una rimessione in termini ex art. 153 c.p.c. Tali considerazioni, però, vanno coordinate con le modifiche che pure si propone di apportare alla fase di trattazione del rito ordinario, che saranno esaminate nei prossimi paragrafi.

Infine, potrebbero prospettarsi dubbi di legittimità costituzionale, per eventuale lesione del diritto di difesa ex art. 24 Cost., in ordine ad una disposizione che, come quella oggetto della proposta di riforma, consenta di individuare una condotta di «non contestazione» nella contumacia della parte? La risposta dovrebbe essere negativa.

Non deve, in proposito, trarre in inganno la sentenza n. 340/2007, con cui la Consulta dichiarò l'illegittimità dell'art. 13, comma 2, d.lgs. 5/2003 (disciplinante il rito societario, poi abrogato dalla l. 69/2009), nella parte in cui disponeva che i fatti affermati dall'attore, anche quando il convenuto avesse tardivamente notificato la comparsa di risposta, si intendevano non contestati. La Corte costituzionale, invero, travolse l'istituto della «ficta confessio», introdotto dal legislatore delegato nel rito societario di cognizione, per eccesso di delega, e dunque per violazione dell'art. 76 Cost., in quanto lo stesso appariva estraneo alla finalità di concentrazione del procedimento e riduzione dei termini processuali indicata nella legge delega. Ma, aggiunse la Consulta, la disposizione appariva censurabile anche perchè, correlando la non contestazione dei fatti affermati dall'attore alla mancata o tardiva notifica della comparsa di risposta, dettava «una regola del processo contumaciale in contrasto con la tradizione del diritto processuale italiano, nel quale alla mancata o tardiva costituzione mai è attribuito il valore di confessione implicita». Insomma, il meccanismo della «ficta confessio», come non era applicabile al rito ordinario, così non poteva essere applicato al processo contumaciale nel rito societario. Ora, tale rilievo critico verrebbe superato con l'introduzione, come regola generale del processo civile, dell'operatività del principio della «non contestazione» anche nel caso di contumacia del convenuto, con conseguente sovvertimento di un principio inveterato dell'ordinamento processuale italiano.

La ristrutturazione della fase introduttiva e di trattazione del rito ordinario

In relazione alla fase introduttiva e di trattazione del rito ordinario, l'emendamento predisposto dal Governo al d.d.l. prevede, al fine di realizzare una maggiore concentrazione delle attività processuali, l'anticipazione delle preclusioni e decadenze istruttorie già agli atti introduttivi del giudizio.

Nel sistema attuale, com'è noto, la prima udienza di comparizione delle parti e di trattazione della causa non consente di definire il «thema decidendum» ed il «thema probandum» della controversia, posto che le parti non sono tenute, a pena di decadenza, ad indicare negli atti introduttivi i mezzi di prova di cui intendono avvalersi, ben potendo richiedere gli stessi e produrre documenti anche nei termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., senza incorrere in alcuna sanzione per la mancata formulazione delle istanze istruttorie nell'atto di citazione o nella comparsa di risposta (Cass. civ., 10 gennaio 2012, n. 81; Cass. civ., 15 luglio 2011, n. 15691).

Conseguentemente, la prima udienza di trattazione si risolve, nella maggior parte dei casi, in una mera concessione dei termini predetti, accompagnata dal rinvio della causa ad un'udienza di ammissione dei mezzi di prova, fissata, in considerazione dei ruoli gravanti sui singoli magistrati, a distanza anche di molti mesi.

Secondo la relazione illustrativa, «…un siffatto sistema disincentiva, da un lato, le parti ad una reale ed informata partecipazione all'udienza e, dall'altro, il giudice ad un attento studio preliminare dei fascicoli. D'altra parte, la mancata, esatta definizione del perimetro assertivo e probatorio della causa rende difficoltoso per il giudice formulare, già in sede di prima udienza, proposte conciliative».

La proposta di riforma in esame si prefigge, allora, di intervenire su tali disfunzioni, valorizzando e rendendo centrale la prima udienza di comparizione delle parti e di trattazione della causa.

In primo luogo, si prevede che l'attore debba indicare, a pena di decadenza, sin dall'atto di citazione i mezzi di prova di cui intende valersi ed i documenti che offre in comunicazione. Parimenti, il convenuto è onerato, nella comparsa di risposta, ferme le preclusioni già previste dal comma 2 dell'art. 167 c.p.c. (inerenti alla facoltà di proporre domande riconvenzionali e eccezioni non rilevabili di ufficio), di indicare, a pena di decadenza, i mezzi di prova di cui intende valersi ed i documenti che offre in comunicazione.

E' evidente che una così rigida disciplina delle preclusioni istruttorie finirebbe per ricalcare il modello dell'attuale processo del lavoro e ridurrebbe il margine di errore degli avvocati, costretti ad articolare il loro armamentario probatorio «in limine litis».

La dose di concentrazione processuale viene poi rincarata con la previsione di un mutamento della conformazione anche della prima udienza di comparizione delle parti e di trattazione della causa, nel corso della quale l'attore potrà replicare proponendo domande ed eccezioni che siano conseguenza delle difese svolte dal convenuto, ed entrambe le parti potranno articolare i necessari e conseguenti mezzi istruttori.

In sostanza, occorrerà verificare la sussistenza di una serie di rapporti di consequenzialità assertiva e asseverativa «a catena», nel senso che l'attore potrà ampliare il «thema decidendum» solo se ciò sia conseguenza delle difese del convenuto (più o meno come previsto dall'attuale comma 5 dell'art. 183 c.p.c.), ed entrambe le parti potranno, sempre alla prima udienza, articolare nuovi mezzi istruttori, solo se «necessari e conseguenti» all'ampliamento del «thema decidendum» operato dall'attore. Ma, sul piano pratico, risulta arduo ipotizzare che il convenuto possa articolare in udienza i mezzi istruttori «necessari e conseguenti» per resistere a domande ed eccezioni che sono state formulate solo in quel momento. L'eccessiva compressione del diritto di difesa delle parti sembra evidente.

Eppure, l'anticipazione della definizione del «thema decidendum» e del «thema probandum», per la maggior parte del contenzioso, ad un momento anteriore alla prima udienza (o, al massimo, entro la fine della stessa), dovrebbe, secondo le intenzioni del legislatore della riforma, agevolare la formulazione di una proposta conciliativa da parte del giudice, il quale potrà inoltre, anche in prima udienza, già provvedere sulle istanze istruttorie e sulla formulazione del calendario del processo, e dunque anticipare una serie di attività che, attualmente, vengono svolte dopo il decorso dei termini istruttori concessi ex art. 183, comma 6, c.p.c.

In particolare, per quanto attiene alla proposta conciliativa, si prevede che il giudice possa formularla «fino al momento in cui trattiene la causa in decisione», sostanzialmente posticipando il termine ultimo che l'attuale art. 185-bis c.p.c. individua nella chiusura della fase istruttoria.

Tale proposta di riforma, complessivamente considerata - se ha, da un lato, il pregio di favorire la responsabilizzazione sia dei difensori, che saranno onerati della indicazione anche dei mezzi di prova sin dai primi atti del processo e della consapevole partecipazione alla prima udienza, che dei giudici, che dovranno aver studiato in anticipo il fascicolo processuale rispetto alla prima udienza - sconta, dall'altro, il solito limite delle riforme processuali che si sono succedute negli ultimi anni, ossia non tiene conto che la rallentata definizione dei giudizi non dipende dal rito utilizzato (che risulta, infatti, efficiente in alcuni uffici giudiziari ed assai meno in altri), ma dalla consistente mole di contenzioso che, in molti uffici giudiziari, grava sui giudici, di gran lunga superiore alla capacità produttiva e di smaltimento di questi ultimi, che è comunque tra le più elevate in Europa.

E' fin troppo notorio che il «collo di bottiglia» si forma nella fase decisionale del giudizio, ragion per cui l'anticipazione delle preclusioni istruttorie, in conseguenza di una esasperata compressione della fase di trattazione e istruttoria, verosimilmente non determinerà - come non ha determinato in passato, nonostante tutti gli «slogan» di concentrazione e semplificazione che hanno sempre accompagnato ogni intervento riformatore sul codice di rito - un abbattimento dei tempi di definizione dei giudizi, che presuppone invece un diverso approccio organizzativo del settore giustizia, con un incremento dell'organico dei giudici e del personale di cancelleria, nonchè delle dotazioni tecnologiche degli uffici giudiziari, e dunque con investimenti mirati, diretti a garantire la giusta proporzione tra domanda ed offerta di giustizia, anzichè con mere riforme «a costo zero» del codice di rito.

La proposta di modifica della fase introduttiva e di trattazione del rito ordinario, oltre a comprimere eccessivamente il diritto di difesa ed al contraddittorio delle parti, comporterebbe l'ennesimo sconvolgimento della struttura del processo, ed esporrebbe gli operatori ad incertezze applicative ed interpretative («in primis» in relazione al concetto di articolazione probatoria «conseguente» alle difese di controparte) che esigeranno inevitabilmente tempo per il formarsi di una giurisprudenza costante.

Va rammentato che la Commissione ministeriale aveva predisposto due proposte alternative di riforma del rito ordinario, di cui la prima (proposta A) aveva natura conservativa dell'attuale struttura del processo, nella consapevolezza che i ritardi nella definizione dei giudizi non sono causati dall'utilizzo di un rito inadeguato, ma, come si legge nella relazione illustrativa, «dipendono essenzialmente dalle difficoltà organizzative e di gestione della macchina giudiziaria e, in specie, dalla sproporzione fra il volume del contenzioso e il numero dei magistrati».

Sarebbe stato, allora, opportuno salvaguardare l'attuale struttura introduttiva e di trattazione del rito ordinario, che costituisce un adeguato punto di equilibrio fra il sistema delle preclusioni e il diritto di difesa, e ciò anche in considerazione dei recenti, più liberali, orientamenti della Suprema Corte in ordine alla distinzione tra «mutatio» ed «emendatio libelli», con cui si è aperta la strada alle domande «teleologicamente complanari» (Cass. civ., sez. un., 15 giugno 2015, n. 12310; Cass. civ., sez. un., 13 settembre 2018, n. 22404) e si è già riconfigurata, sia pure per via pretoria, l'attuale struttura del rito ordinario con la delimitazione, ad un momento successivo alla prima udienza, della definizione del «thema decidendum», anche nel caso in cui la parte proceda ad una modifica incisiva della domanda originariamente proposta (con mutamento del «petitum» e/o della «causa petendi», purchè in presenza della medesima vicenda sostanziale sottostante), al fine di garantire il rispetto del principio di conservazione degli atti e di economia processuale ed evitare il moltiplicarsi di giudizi determinato dall'esigenza di proporre una nuova domanda.

La nuova fase decisoria del rito ordinario

Per quanto attiene alla fase decisoria del rito ordinario, l'emendamento governativo al d.d.l. prevede che il giudice, esaurita la trattazione e istruzione della causa, possa, ove abbia disposto la discussione orale ex art. 281-sexies c.p.c., riservare il deposito della sentenza fino a 30 giorni dall'udienza di discussione.

Considerata astrattamente, tale innovazione non contrae ma dilata i tempi di definizione del giudizio, posto che, nel sistema vigente, la sentenza ex art. 281-sexies c.p.c. va depositata immediatamente dopo la lettura della stessa in udienza o, al massimo, il giorno successivo (Cass. civ., 1 marzo 2007, n. 4883; Cass. civ., 28 febbraio 2006, n. 4401). In concreto, lo scopo perseguito dal legislatore dovrebbe essere quello di incentivare il ricorso a tale strumento di definizione del giudizio, svincolando il giudice dall'obbligo di deposito immediato, o quasi immediato, della sentenza. Nella relazione illustrativa, infatti, si rileva che «La possibilità di depositare la sentenza entro un termine successivo di trenta giorni consentirà di espandere la potenzialità del modello anche per quella parte del contenzioso più complesso, con ulteriore compressione dei tempi processuali».

Nel caso in cui il giudice non proceda ai sensi dell'art. 281-sexies c.p.c., si prevede, nel d.d.l. delega, che lo stesso fissi l'udienza di rimessione della causa in decisione ed assegni alle parti un triplice termine «a ritroso» rispetto alla stessa, ossia: 1) fino a 60 giorni prima per il deposito di note scritte di precisazione delle conclusioni; 2) fino a 30 giorni prima per il deposito delle comparse conclusionali; 3) fino a 15 giorni prima per il deposito delle memorie di replica. E' fatta salva la facoltà delle parti di rinunciare espressamente ai termini per comparse conclusionali e memorie di replica.

All'udienza il giudice riserverà la decisione, provvedendo al deposito della sentenza nei successivi 30 giorni, nelle cause in cui il tribunale decide in composizione monocratica, ovvero nei successivi 60 giorni, se si tratta di cause di competenza del tribunale in composizione collegiale.

Anche in questo caso si assiste ad una compressione delle fasi processuali, ad un'anticipazione dei termini, ad una spasmodica corsa verso il momento in cui la causa sarà assegnata in decisione.

Nella relazione illustrativa si legge che «L'obiettivo di questo specifico intervento è quello di realizzare una semplificazione del procedimento, al tempo stesso adottando alcune misure acceleratorie dirette ad assicurare la ragionevole durata del processo, con una riduzione dei tempi processuali di almeno ottanta giorni che, peraltro, potrebbero essere maggiori nel caso di generalizzazione del modello della discussione orale, obiettivo parimenti perseguito dalla riforma».

Tuttavia, non può non osservarsi che l'assegnazione di termini «a ritroso» per il deposito delle comparse e memorie di cui all'art. 190 c.p.c. richiama un meccanismo vecchio di 30 anni, ossia quello antecedente alla riforma storica del processo civile operata con la l. 353/90, prima della quale il giudice istruttore, nel rinviare la causa all'udienza di discussione dinanzi al collegio, assegnava alle parti i termini fino a 10 e 5 giorni prima della predetta udienza per il deposito, rispettivamente, delle comparse conclusionali e delle memorie di replica.

In quel caso, però, l'ultima udienza era quella di discussione davanti al collegio, che assegnava la causa in decisione.

Nello schema di cui al d.d.l. delega, invece, non si comprende l'utilità, per le parti, di questa udienza «di rimessione della causa in decisione», posto che tutte le attività difensive risulterebbero già svolte con il triplice termine «a ritroso» (precisazione delle conclusioni, comparse conclusionali e memorie di replica). Non si tratterebbe, cioè, di un'udienza di discussione davanti al giudice, bensì di un'udienza di mera rimessione della causa in decisione, del tutto superflua, salvo che non si vogliano ammettere le parti, nel corso della stessa, ad un'ulteriore replica rispetto al contenuto delle memorie di replica già depositate, in un circolo vizioso senza fine.

Tanto varrebbe, allora, stabilire che, decorso il triplice termine di cui si è detto, comincia a decorrere il termine, di 30 o 60 giorni a seconda della composizione dell'organo giudicante, per il deposito della sentenza.

In sostanza, è stata apparentemente eliminata l'udienza di precisazione delle conclusioni (il cui svolgimento, in realtà, anche attualmente non è obbligatorio, nel senso che la rimessione della causa in decisione non è condizionata dalla fissazione di un'apposita udienza destinata preventivamente alla precisazione delle conclusioni, ben potendo il giudice invitare le parti alla precisazione delle conclusioni nella stessa udienza in cui si è svolta l'istruttoria: Cass. civ., 10 novembre 2006, n. 24041) e, nel contempo, è stata introdotta un'inutile udienza di rimessione della causa in decisione, svuotata di qualsivoglia attività processuale nell'ottica delle parti.

L'ordinanza provvisoria di accoglimento o rigetto

L'emendamento al d.d.l. delega ha, inoltre, riconosciuto due ulteriori strumenti decisionali al giudice, nel corso del giudizio di primo grado e nelle controversie di competenza del tribunale in materia di diritti disponibili, sempre che vi sia l'istanza di parte.

Il giudice, in primo luogo, può pronunciare ordinanza provvisoria di accoglimento, in tutto o in parte, della domanda proposta, quando i fatti costitutivi sono provati e le difese del convenuto appaiono manifestamente infondate.

In un caso simile, risulta non agevole tracciare la linea di confine tra difese del convenuto «infondate» e difese «manifestamente infondate», essendo evidente la discrezionalità del giudice nel ravvisare, caso per caso, la sussistenza di uno dei requisiti della fattispecie in esame, accanto a quello della prova dei fatti costitutivi che l'attore è tenuto a fornire (e che potrebbe essere agevolata dall'obbligo delle parti di anticipare agli atti introduttivi la formulazione dei mezzi istruttori, come si è visto al paragrafo precedente).

Di converso, il giudice potrà anche pronunciare ordinanza provvisoria di rigetto della domanda proposta, quando è quest'ultima ad essere manifestamente infondata ovvero se è omesso o risulta assolutamente incerto il requisito di cui all'art. 163, comma 3, n. 3, c.p.c. (determinazione del «petitum», ossia della cosa oggetto della domanda) ovvero se manca l'esposizione dei fatti di cui al n. 4 del medesimo comma 3, ossia delle ragioni della domanda.

Tale seconda fattispecie, speculare a quella di accoglimento provvisorio della domanda, è, in maniera del tutto inopportuna, estesa anche ai casi di vizio della «editio actionis», con sostanziale abrogazione della sanatoria prevista dal comma 5 dell'art. 164 c.p.c.

In altri termini, si favorisce la conclusione del giudizio con una pronuncia di rigetto per ragioni processuali, senza consentire la sanatoria del vizio di nullità dell'atto introduttivo.

Sarebbe questa la tanto sbandierata «ragionevole durata del processo»? Chiudere il giudizio con una statuizione che non risolve nel merito la lite - oltre a pregiudicare il principio, anch'esso costituzionale, del «giusto processo» - lede comunque l'obiettivo della ragionevole durata dello stesso, che non va intesa solo in relazione al singolo giudizio, ma anche come principio volto a prevenire la proliferazione di nuovi giudizi, che nel caso in esame sarebbe invece favorita dalla riproponibilità della domanda «provvisoriamente» rigettata.

Infatti, si prevede che la predetta ordinanza provvisoria di accoglimento o di rigetto, oltre ad essere reclamabile ex art. 669-terdecies c.p.c. (e, in caso di accoglimento del reclamo, il procedimento di merito proseguirebbe davanti ad un magistrato diverso appartenente al medesimo ufficio), non acquisti efficacia di giudicato ex art. 2909 c.c., né possa avere autorità in altri processi.

Ritengo che concludere il giudizio con una declaratoria, sia pur provvisoria, di rigetto, al fine di garantire il rispetto della ragionevole durata del processo, anziché procedere a sanare il vizio di nullità dell'atto di citazione, sia come far apparire una casa pulita dopo aver messo la spazzatura sotto il tappeto. Il tutto in barba ai principi di conservazione degli atti e di economia processuale, che, proprio in ossequio al «giusto processo» di cui all'art. 111 Cost., costituiscono ormai da molti anni, per la giurisprudenza di legittimità, criterio guida di (re)interpretazione delle norme processuali in ottica costituzionalmente orientata.

La comprensibile aspirazione ad ottenere una sentenza in tempi celeri non deve andare a detrimento dell'esigenza di rendere una sentenza giusta.

Peraltro, anche l'esclusione dell'autorità di cosa giudicata rischia di essere del tutto controproducente rispetto agli obiettivi generali della riforma in esame, in quanto potrebbe determinare l'aumento, anziché la riduzione, del contenzioso, ben potendo la parte soccombente, all'esito dell'ordinanza provvisoria, proporre una nuova lite, con eventuale sdoppiamento anche della fase esecutiva, di cui una inerente all'ordinanza provvisoria di accoglimento e l'altra riguardante la statuizione del giudizio di merito reintrodotto «ex novo».

Il restyling del procedimento sommario di cognizione

Il d.d.l. delega in esame, sempre nell'ottica dell'accelerazione e della semplificazione del giudizio di primo grado, prevede modifiche formali e sostanziali del procedimento sommario di cognizione, di cui agli artt. 702-bis, 702-ter e 702-quater c.p.c. introdotti dalla l. 69/2009.

Si propone, in primo luogo, di ridenominare tale procedimento in «procedimento semplificato di cognizione», evidentemente al fine di ribadire, evitando qualsivoglia equivoco letterale al riguardo, che non si tratta di un giudizio a cognizione sommaria, bensì di un procedimento a cognizione piena, dovendosi la sommarietà intendere come semplificazione e deformalizzazione dell'iter procedimentale rispetto al rito ordinario. Conclusione, comunque, ormai pacifica nella giurisprudenza di legittimità, la quale ha affermato, in relazione al procedimento in esame, la natura di giudizio con pienezza di cognizione ed istruttoria semplificata (Cass. civ., 14 maggio 2013, n. 11465), in cui la sommarietà mira a definire la lite con rapidità, in ragione della più o meno manifesta fondatezza o infondatezza della domanda e della dipendenza del relativo accertamento da poche e semplici acquisizioni probatorie (Cass. civ., 25 febbraio 2014, n. 4485). Alle medesime conclusioni è pervenuta anche la Corte costituzionale con la recente sent. 253/2020.

Si prevede, altresì, l'abrogazione degli artt. 702-bis e 702-quater c.p.c. e la ricollocazione del procedimento in esame nel libro secondo del codice di rito, per sottolinearne, questa volta, l'alternatività rispetto al rito ordinario. Invero, ferma la possibilità che l'attore vi ricorra di sua iniziativa nelle controversie di competenza del tribunale in composizione monocratica, il nuovo rito semplificato diverrebbe il rito obbligatorio in ogni procedimento, anche nelle cause in cui il tribunale giudica in composizione collegiale, quando i fatti di causa siano tutti non controversi, quando l'istruzione della causa si basi su prova documentale o di pronta soluzione o richieda un'attività istruttoria costituenda non complessa; le altre cause, di maggiore complessità, resterebbero assoggettate al rito ordinario di cognizione, e nello stesso modo si procederebbe in caso di proposizione di domanda riconvenzionale priva delle condizioni di applicabilità del procedimento semplificato.

Si dispone anche che, in modo più stringente rispetto alla situazione attuale, vengano indicati termini e tempi prevedibili, comunque ridotti rispetto a quelli previsti per il rito ordinario, per lo svolgimento delle difese delle parti e il maturare delle relative preclusioni, nel rispetto del contraddittorio fra le parti, così evitando che l'articolazione del procedimento sia rimessa alla discrezionalità del giudice.

Tale integrazione della disciplina normativa del procedimento sommario (rectius: semplificato) appare oltremodo opportuna, se solo si considera che, al momento, si contrappongono due orientamenti in ordine alla questione dell'individuazione del termine ultimo entro il quale le parti possono articolare le loro istanze istruttorie: invero, una prima, preferibile, tesi individua nella (eventuale) pronuncia dell'ordinanza di mutamento del rito ex art. 702-ter c.p.c. la barriera processuale che impedisce alle parti la formulazione di nuove richieste istruttorie (Cass. civ., 7 gennaio 2021, n. 46; Cass. civ., 18 dicembre 2015, n. 25547); secondo altro orientamento, invece, la valutazione, da parte del giudice, della necessità di un'istruzione non sommaria, ai fini della conversione del rito, presuppone pur sempre che le parti - e in primo luogo il ricorrente - abbiano dedotto negli atti introduttivi tutte le istanze istruttorieche ritengano necessarie per adempiere all'onere probatorio ex art. 2967 c.c., non potendosi attribuire a tale decisione la funzione di rimetterle in termini per la formulazione delle deduzioni istruttorie, che siano state omesse o insufficientemente articolate «in limine litis» (Cass. civ., 5 settembre 2019, n. 22158; Cass. civ., 5 ottobre 2018, n. 24538).

Si prevede, infine, la conclusione del procedimento con sentenza, in luogo dell'ordinanza di cui all'art. 702-quater c.p.c.

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