Installazione di impianti audiovisivi sui luoghi di lavoro e tutela del patrimonio aziendale

24 Giugno 2021

Deve escludersi la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui all'art. 4 legge n. 300/1970, quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, «o debba restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi».
Massima

Deve escludersi la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui all'art. 4 L. n. 300/1970, quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, «o debba restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi».

Il caso

Il Tribunale di prime cure dichiarava con sentenza il datore di lavoro, titolare di una ditta esercente l'attività di commercio al dettaglio che aveva installato impianti video, colpevole del reato di cui agli articoli 4, primo e secondo comma, e 38 L. n. 300/70 (installazione illegale di impianti audiovisivi sui luoghi di lavoro).

Il datore di lavoro ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale; deducendo, con il primo motivo, la violazione di legge, in riferimento agli artt. 4, primo e secondo comma, e 38 L. n. 300/70, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., avendo riguardo alla configurabilità del reato ritenuto in sentenza. In particolare, si deduceva che gli impianti video installati non erano strumenti di controllo lesivi della libertà e dignità dei lavoratori, bensì sistemi difensivi a tutela del patrimonio aziendale. Invero, gli impianti erano stati adottati a seguito del verificarsi di mancanze di merce nel magazzino ed erano rivolti solo verso la cassa e le scaffalature.

La questione

Il caso in esame consente di riflettere sulla questione della configurabilità del reato per la violazione della disciplina di cui all'art. 4 L. n. 300/70, quando l'impianto audiovisivo installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, abbia la funzione di tutelare il patrimonio aziendale.

La Corte, dopo aver osservato che la fattispecie in esame, originariamente prevista come reato dal combinato disposto degli artt. 4 e 38 L. n. 300/70, è tutt'oggi penalmente sanzionata, evidenzia la chiara indicazione data dall'art. 171 D.lgs. n. 196/2003, nel testo vigente per effetto delle modifiche recate dall'art. 15, comma 1, lett. f), D.lgs. n. 101/2018, il quale prevede: “La violazione delle disposizioni di cui agli articoli 4, comma 1, e 8 della legge 20 maggio 1970, n. 300, è punita con le sanzioni di cui all'articolo 38 della medesima legge”.

L'art. 38 L. n. 300/70, a sua volta, nel testo attualmente vigente dopo le modifiche di cui all'art. 179 D.lgs. n. 196/2003, stabilisce: “Le violazioni degli articoli 2, 5, 6 e 15, primo comma, lettera a), sono punite, salvo che il fatto non costituisca più grave reato, con l'ammenda da euro 154 a euro 1.549 o con l'arresto da 15 giorni ad un anno”.

Ciò posto la Corte, ritenendo evidente che la violazione della disciplina di cui all'art. 4 L. n. 300/1970 costituisce illecito penale in forza di quanto dispone l'art. 171 D.lgs. n. 196/2003, nel testo vigente dopo la riforma di cui alla L. n. 101/2018, il quale rinvia all'art. 38 L. n. 300/70 per l'individuazione delle sanzioni applicabili, precisa che la configurabilità dell'illecito penale medio tempore, dopo le riforme recate all'art. 38 dall'art. 179 D.lgs. n. 196/2003 e dall'art. 23 D.lgs. n. 151/2015, ma prima della riforma di cui alla legge n. 101/2018, è stata ripetutamente ribadita dalla giurisprudenza (Cass., Sez. 3, nn. 4564/2017, 45198/2016).

Il Collegio osserva che il problema di una precisa individuazione dei limiti di configurabilità della fattispecie di cui al combinato disposto degli artt. 4 e 38 L. n. 300/70 e 179 D.lgs. n. 196/2003 emerge da un esame complessivo della giurisprudenza di legittimità.

La Corte, dopo aver precisato che la descrizione della fattispecie incriminatrice si rinviene nell'art. 4 L. n. 300/70, atteso che l'art. 38 della medesima legge e l'art. 179 D.lgs. n. 196/2003 sono funzionali esclusivamente alla determinazione delle sanzioni, si sofferma sulle modifiche apportate all'art. 4 L. n. 300/70. In particolare, dal raffronto tra il testo originario nei primi due commi, ed il testo vigente dell'art. 4, comma 1, per effetto delle riforme recate prima dall'art. 23, comma 1, D.lgs. n. 151/2016, e poi dall'art. 5, comma 2, D.lgs. n. 185/2016, il Collegio osserva che la successione di discipline normative non ha prodotto variazioni significative sulla fattispecie incriminatrice. In effetti, la condotta vietata consisteva e consiste nella installazione di impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale, in assenza di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro.

Le modifiche legislative sono relative all'individuazione dei soggetti cui compete il potere di concordare o autorizzare l'installazione degli impianti. Si tratta di una precisazione che oltre ad escludere modifiche apprezzabili ai sensi dell'art. 2 c.p., evidenzia l'utilità e la rilevanza dell'analisi, ai fini dell'individuazione degli elementi costitutivi della fattispecie, delle interpretazioni giurisprudenziali anche in relazione al testo previgente dell'art. 4 L. n. 300/70.

Mette conto osservare che la specifica elaborazione in tema di configurabilità del reato relativo all'installazione illegale di impianti audiovisivi sui luoghi di lavoro ritiene penalmente rilevante anche la sola potenzialità del controllo a distanza dei dipendenti, trattandosi di fattispecie volta a salvaguardare le possibili lesioni della riservatezza dei lavoratori.

Invero, ai fini dell'integrazione del reato di pericolo previsto dal combinato disposto degli artt. 4 e 38, L. n. 300/70 e 114 e 171, D.lgs. n. 196/2003, che punisce l'installazione di impianti audiovisivi di controllo senza accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, non è necessaria la verifica della funzionalità dell'impianto né del concreto utilizzo dello stesso (Cass., Sez. 3, nn. 45198/2016, 4331/2013).

Sul punto la Corte evidenzia, tuttavia, che, secondo una precedente decisione, “ai fini dell'operatività del divieto di utilizzo di apparecchiature per il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori ex L. n. 300/1970, art. 4 è necessario che il controllo riguardi (direttamente o indirettamente) l'attività lavorativa, mentre devono ritenersi certamente fuori dall'ambito di applicazione della norma i controlli diretti ad accertare condotte illecite del lavoratore (i cosiddetti controlli difensivi)” (Cass., Sez. 3, nn. 8042/2006, 8388/2002).

Le soluzioni giuridiche

Il Collegio esclude la configurabilità del reato concernente la violazione della disciplina di cui all'art. 4 L. n. 300/70, quando l'impianto audiovisivo o di controllo a distanza, sebbene installato sul luogo di lavoro in difetto di accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o di autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, sia strettamente funzionale alla tutela del patrimonio aziendale, sempre, però, che il suo utilizzo non implichi un significativo controllo sull'ordinario svolgimento dell'attività lavorativa dei dipendenti, «o debba restare necessariamente "riservato" per consentire l'accertamento di gravi condotte illecite degli stessi».

Secondo la Corte, infatti, l'interpretazione della previsione di cui all'art. 4 L. n. 300/70 risulta sottoposta a limiti desumibili sia dal dato letterale, sia da considerazioni di ordine sistematico.

Per quanto concerne il primo aspetto, il Collegio rileva che il testo della disposizione citata, nell'originaria come nella vigente formulazione, prevede la necessità di un preventivo accordo con le organizzazioni sindacali, o di una preventiva autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro, quando derivi “anche” la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Di conseguenza, la previsione normativa non sembra riferibile ad impianti che possano controllare in via del tutto occasionale l'attività del singolo dipendente, come, ad esempio, potrebbero essere, almeno tendenzialmente, quelli puntati sulla cassaforte o sugli scaffali.

Per quanto attiene al secondo profilo, appare persuasiva l'osservazione secondo cui non risponderebbe ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore - in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con il licenziamento - una tutela alla sua "persona" maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all'impresa (Cass., Sez. Lav. n. 10636/2017, Sez. 3, n. 8042/2006).

Al riguardo la Corte precisa che si tratta di limiti all'operatività del divieto di cui all'art. 4 in esame, che però, debbono essere intesi in senso non estensivo, alla luce di quanto stabilito dall'art. 4, L. n. 300/70 che prevede l'accordo con le rappresentanze sindacali legittimate, o l'autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro anche quando ricorrono “esigenze [...] per la tutela del patrimonio aziendale”. Inoltre, per il caso di mancato accordo con le organizzazioni sindacali, è prevista la possibilità di ottenere l'autorizzazione dell'Ispettorato del Lavoro: ciò al fine di tutelare le ragioni dell'impresa evitando, però, soluzioni che possano determinare una significativa interferenza sul diritto del lavoratore alla dignità e libertà nell'esercizio delle sue prestazioni sulla base di determinazioni unilaterali del datore di lavoro.

Si tratta di un'opzione ermeneutica, evidenzia la Cassazione, che sembra ricevere conferma anche dalla giurisprudenza della Corte EDU, la quale - pur affermando la possibilità, per gli ordinamenti giuridici nazionali, di prevedere limiti al diritto al rispetto della propria vita privata e della propria corrispondenza nell'ambito lavorativo -, ha anche sottolineato l'esigenza di contenere tali limiti nel rispetto del principio di proporzionalità, la necessità di assicurare garanzie procedurali contro possibili arbitri, e l'occorrenza di “misure protettive” di diritto penale (Corte EDU, Grande Camera, Bàrbulescu c. Romania del 05.09.2017).

Osservazioni

In conclusione, sembra opportuno soffermarsi sul tema dell'utilizzabilità nel processo penale dei risultati delle videoriprese effettuate sul luogo di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, in assenza di previo accordo con le rappresentanze sindacali competenti e di previa autorizzazione dell'Ispettorato del lavoro.

Secondo un orientamento ampiamente consolidato, sono utilizzabili nel processo penale, ancorché imputato sia il lavoratore subordinato, i risultati delle videoriprese effettuate con telecamere installate all'interno dei luoghi di lavoro ad opera del datore di lavoro per esercitare un controllo per tutelare il patrimonio aziendale messo a rischio da possibili comportamenti infedeli dei lavoratori, in quanto le norme dello Statuto dei lavoratori poste a presidio della loro riservatezza non proibiscono i cosiddetti controlli difensivi del patrimonio aziendale e non giustificano pertanto l'esistenza di un divieto probatorio (Cass., Sez. 2, n. 2890/2015, Sez. 5, nn. 34842/2011, 20722/2010).

In particolare, si è affermato che “Gli artt. 4 e 38 dello Statuto dei lavoratori implicano l'accordo sindacale a fini di riservatezza dei lavoratori nello svolgimento dell'attività lavorativa, ma non implicano il divieto dei cd. Controlli difensivi del patrimonio aziendale da azioni delittuose da chiunque provenienti. Pertanto in tal caso non si ravvisa inutilizzabilità ai sensi dell'art. 191 c.p.p. di prove di reato acquisite mediante riprese filmate, ancorché sia perciò imputato un lavoratore subordinato” (Cass. n. 20722/2010).

A fondamento di questo principio, viene richiamata la precedente elaborazione della giurisprudenza di legittimità civile e penale (Cass., Sez. 2, n. 8687/1985), ed evidenziato che le norme di cui agli artt. 4 e 38 L. n. 300/70 tutelano la riservatezza del lavoratore nello svolgimento della sua attività, “anche perché la sua libertà di comportamento contribuisce al risultato che con il lavoro assicura all'azienda”, per cui, “inversamente, la tutela della sua riservatezza si correla all'osservanza del proprio dovere di fedeltà”, e, quindi, “la finalità di controllo a difesa del patrimonio aziendale non è da ritenersi sacrificata dalle norme dello Statuto dei lavoratori”.

Dunque, la giurisprudenza di legittimità ritiene che esulano dall'ambito di applicazione dell'art. 4 L. n. 300/70, e non richiedono l'osservanza delle garanzie ivi previste, i controlli difensivi da parte del datore se diretti ad accertare comportamenti illeciti e lesivi del patrimonio e dell'immagine aziendale, tanto più quando disposti ex post, ossia dopo l'attuazione del comportamento in addebito, così da prescindere dalla mera sorveglianza sull'esecuzione della prestazione lavorativa (Cass., Sez. Lav., nn. 13266/2018, 10636/2017, 22662/2016).

Si tratta di un principio fondato sul fatto che “l'interpretazione della disposizione [l'art. 4 l. n. 300/1970] va ispirata ad un equo e ragionevole bilanciamento fra le disposizioni costituzionali che garantiscono il diritto alla dignità e libertà del lavoratore nell'esercizio delle sue prestazioni oltre al diritto del cittadino al rispetto della propria persona (artt. 1, 3, 35 e 38 Cost.), ed il libero esercizio delle attività imprenditoriale (art. 41 Cost.), con l'ulteriore considerazione che non risponderebbe ad alcun criterio logico-sistematico garantire al lavoratore - in presenza di condotte illecite sanzionabili penalmente o con la sanzione espulsiva - una tutela alla sua "persona" maggiore di quella riconosciuta ai terzi estranei all'impresa” (Cass., Sez. Lav., n. 10636/2017).

Ciò posto, la Cassazione sottolinea che tale soluzione ermeneutica risulta coerente con i principi dettati dall'art. 8 della CEDU in base al quale nell'uso degli strumenti di controllo, deve individuarsi un giusto equilibrio fra i contrapposti diritti sulla base dei principi della "ragionevolezza" e della "proporzionalità" (Corte EDU, Bàrbulescu c. Romania del 12.01.2016, secondo cui lo strumento di controllo deve essere contenuto nella portata e, dunque, proporzionato).

Guida all'approfondimento

L. Tebano, I confini dei controlli difensivi e gli equilibrismi della Corte EDU, in Riv. It. Dir. Lav., 2020;

C. Gamba, Il controllo a distanza delle attività dei lavoratori e l'utilizzabilità delle prove, in Labour & Law Issues, vol. 2, n. 1, 2016;

M. T. Carinci, Il controllo a distanza dell'attività dei lavoratori dopo il "Jobs Act" (art. 23 D.lgs. 151/2015): spunti per un dibattito, in Labour & Law Issues, vol. 2, n. 1, 2016.

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