Violazione dei criteri di scelta nel licenziamento collettivo: l'annullamento passa per la preliminare verifica della sussistenza di interesse sostanziale

Paolo Patrizio
24 Giugno 2021

In tema di licenziamento collettivo, il relativo annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi della L. n. 223 del 1991, articolo 5, non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perché avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilità dei lavoratori stessi (Cass. n. 1387/2019; Cass. n. 24558/2016).
Massima

In tema di licenziamento collettivo, il relativo annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi della L. n. 223 del 1991, articolo 5, non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perchè avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilita' dei lavoratori stessi (Cass. 13871 del 22 maggio 2019; Cass. n. 24558 del 1° dicembre 2016).

Il caso

La fattispecie in esame involge una procedura di licenziamento collettivo, posta in essere da una società datrice di lavoro a seguito della progettata esternalizzazione del servizio CUP.

In particolare, all'esito dell'espletata fase di consultazione sindacale, l'azienda era giunta a siglare un accordo che prevedeva, quale criterio di scelta dei lavoratori destinatari della risoluzione del rapporto, l'attribuzione di un punteggio pari al 34% all'anzianità di servizio, al 36% in ordine ai carichi di famiglia ed al 30% in relazione alle esigenze tecniche, organizzative e produttive aziendali, con riconoscimento di tale ultimo punteggio soltanto in favore dei dipendenti non impegnati nello specifico servizio in via di soppressione.

La società provvedeva, pertanto, a comminare, nei confronti dei soggetti così individuati, il relativo licenziamento, registrandone l'impugnazione ad opera di una lavoratrice, sul presupposto della stigmatizzata violazione dei criteri di scelta ai sensi della L. n. 223 del 1991, articolo 5, lamentando la ricorrente la mancata attribuzione del punteggio previsto per le esigenze tecniche, organizzative e produttive, risultando la stessa addetta al CUP.

Il Tribunale di Roma provvedeva, in prima battuta, ad accogliere le doglianze della lavoratrice, salvo provvedere, in sede di opposizione, a revocare l'ordinanza assunta nella precedente fase.

La questione veniva riproposta alla Corte d'appello di Roma, la quale respingeva il reclamo avverso la decisione del Tribunale.

La controversia, quindi, giungeva al vaglio della Suprema Corte, a seguito del ricorso presentato dalla lavoratrice.

La questione

La decisione in esame riguarda il tema dell'essenzialità della sussistenza dell'interesse di diritto sostanziale, ai fini della censurabilità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta ex art. 5, L. n. 223 del 1991.

La soluzione giuridica

La Corte di Cassazione, nel dichiarare l'inammissibilità del ricorso, muove dalla premessa per cui l'invalidità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta rientra nel novero dell'annullabilità ex art. 1441 c.c. e non in quello della nullità, evidenziando, pertanto, come tale azione non possa essere proposta da chiunque vi abbia interesse (inteso in termini di interesse ad agire) ma soltanto da parte dei titolari dell'interesse di diritto sostanziale ovvero da coloro che abbiano in concreto subito un pregiudizio avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilità.

Sottolinea, infatti, la Corte come, per un verso, ai sensi della dell'art. 5, comma 3 della L. n. 223 del 1991, il recesso di cui all'articolo 4, comma 9, risulti inefficace soltanto qualora sia intimato senza l'osservanza della forma scritta o in violazione delle procedure richiamate dall'articolo 4, comma 12, mentre risulti annullabile per l'ipotesi di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, della medesima disposizione; per altro verso e valutando il caso di specie, la ridotta anzianità della ricorrente e l'assenza di carichi di famiglia comportano che, anche qualora fosse stato alla stessa attribuito il punteggio reclamato, la lavoratrice non avrebbe avuto comunque una collocazione utile nella graduatoria atta ad escluderne la licenziabilità.

In ossequio, pertanto, al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui va reputato inammissibile, per difetto d'interesse, il motivo di impugnazione con cui si deduca la violazione di norme giuridiche, sostanziali o processuali, priva di qualsivoglia influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte, essendo diretto in definitiva all'emanazione di una pronuncia senza alcun rilievo pratico (cfr., in questi termini, Cass. n. 12678 del 25 giugno 2020), la Corte conclude per la declaratoria di inammissibilità del ricorso, sancendo, in massima, come “in tema di licenziamento collettivo, il relativo annullamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi della L. n. 223 del 1991, articolo 5, non può essere domandato indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati ma soltanto da coloro che, tra essi, abbiano in concreto subito un pregiudizio per effetto della violazione, perchè avente rilievo determinante rispetto alla collocazione in mobilita' dei lavoratori stessi (Cass. 13871 del 22 maggio 2019; Cass. n. 24558 del 1° dicembre 2016)".

Osservazioni

La pronuncia in commento ci consente di tornare sull'annosa tematica dei licenziamenti collettivi, se pur partendo, in questo caso, da un angolo di trattazione differente rispetto ai più comuni profili di analisi, siccome essenzialmente incentrato sul disposto sancito dall'art. 1441 c.c., attinente al principio della legittimazione ad agire ed al tema dell'essenzialità della sussistenza dell'interesse di diritto sostanziale, ai fini della censurabilità del licenziamento collettivo per violazione dei criteri di scelta ex art. 5, L. n. 223 del 1991.

La procedura di licenziamento collettivo, invero, è stata in più occasioni qualificata, a ragione, come “procedura aggravata” a carico del datore di lavoro, in quanto connotata da una tensione equilibrativa costante, che trova nel richiesto bilanciamento dei contrapposti interessi in gioco il suo momento di massima espressione.

Da un lato, infatti, viene in rilievo l'esigenza del datore di lavoro di adeguare la propria struttura organizzativa rispetto all'andamento del mercato e della produttività, in pregnante attuazione del principio di libertà di iniziativa economica, sancito a livello costituzionale dall'art. 41 Cost.

Dall'altro ed in veste speculare, appare necessario proteggere i lavoratori dal rischio di licenziamenti evitabili o arbitrari, rimessi alla discrezionalità del solo datore di lavoro, con inammissibile compressione di altrettanti diritti costituzionalmente garantiti, primo fra tutti proprio il diritto stesso al lavoro, nella sua concezione di più larga accezione.

La sintesi legislativa di possibile ricomposizione di tale contrasto prospettico è stata allora raggiunta mediante un approccio tripartito, incentrato sulla puntuale, completa e cadenzata procedimentalizzazione del provvedimento datoriale di messa in mobilità; sulla concreta delimitazione dei c.d. criteri di scelta, che costituiscono il metro attraverso cui il datore di lavoro è chiamato a individuare i lavoratori concretamente coinvolti nella procedura di licenziamento collettivo; nonché da ultimo, ma non certo per importanza, sull'operata diversificazione rimediale tra inefficacia e annullabilità del licenziamento, con conseguente delimitazione della stessa ammissibilità impugnatoria soltanto in favore dei soggetti titolari dell'interesse di diritto sostanziale protetto dalla norma e non di un generico e semplice interesse ad agire di indistinta attuazione.

Partendo, dunque, dall'analisi del primo profilo della tripartizione testè menzionata, è opportuno evidenziare come la L. n. 223/1991 abbia introdotto un significativo elemento innovativo, consistente nel passaggio dal controllo giurisdizionale del ridimensionamento dell'impresa esercitato ex post nel precedente assetto ordinamentale, ad un controllo dell'iniziativa imprenditoriale oggi rimesso ex ante alle organizzazioni sindacali, destinatarie di incisivi poteri di informazione e consultazione secondo una metodica già collaudata in materia di trasferimenti di azienda.

Tale nuova impostazione metodologica, comporta che i residui spazi di controllo devoluti al giudice in sede contenziosa non riguardano più, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) ma la correttezza procedurale dell'operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in sede giudiziaria tutte quelle censure con le quali, senza contestare specifiche violazioni delle prescrizioni dettate dai citati artt. 4 e 5 e senza fornire la prova di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori, si finisce per investire l'autorità giudiziaria di una indagine sulla presenza di “effettive" esigenze di riduzione o trasformazione dell'attività produttiva.

Con riferimento, invece, al secondo profilo di tripartizione menzionato, va sottolineato come, nella logica del legislatore, la procedura di scelta del licenziamento collettivo debba essere congeniata mediante l'utilizzo applicativo di parametri oggettivi, al fine di assicurare che la decisione non sia operata sulla base del mero arbitrio del datore di lavoro.

A tal fine, dunque, appare decisiva la disciplina dei c.d. criteri di scelta, che costituiscono il metro attraverso cui il datore di lavoro è chiamato a individuare i lavoratori concretamente coinvolti nella procedura di licenziamento collettivo.

In particolare l'art. 5 comma 1 L. n. 223/1991 dispone che l'individuazione dei lavoratori da licenziare deve avvenire, in relazione alle esigenze tecnico-produttive ed organizzative del complesso aziendale, nel rispetto dei criteri previsti da contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all'articolo 4, comma 2, ovvero, in mancanza di questi contratti, nel rispetto dei seguenti criteri, in concorso tra loro: a) carichi di famiglia; b) anzianità; c) esigenze tecnico-produttive ed organizzative.

A bene vedere, tuttavia, la previsione de quo non indica una vera e propria gerarchia criteriale fissa o preconfezionata, ma si limita a sancire il meccanismo di salvaguardia integrativo in caso di omissione delle parti, non escludendosi che possa prevalere anche il criterio delle esigenze tecnico-produttive, sempre che tale scelta sia giustificata da fattori obiettivi la cui esistenza sia provata dal datore e non sottenda intenti elusivi o ragioni discriminatorie.

Ciò che appare, in ogni caso, indispensabile, in ipotesi di intervenuto accordo sindacale, è che siano comunque indicati in maniera puntuale non solo i criteri di scelta concordati, ma anche le loro modalità applicative, così da consentire l'enucleazione di un metodo obiettivo di formazione della graduatoria dei lavoratori, tale da evitare una discrezionalità del datore non controllabile.

Tale dato, allora, ci conduce naturalmente “al cuore” del ragionamento sotteso alla pronuncia in commento, articolato sulla preordinata diversificazione dei sistemi rimediali connessi alla rilevazione di compiute violazioni procedurali, piuttosto che alla violazione dei criteri di scelta sanciti a livello legislativo.

Ebbene, come evidenziato dalla Corte, il licenziamento collettivo è inefficace laddove sia intimato senza l'osservanza della forma scritta o in violazione delle procedure richiamate dall'art. 4 della L. 223/1991, nonostante, per tale seconda ipotesi, sia previsto che gli eventuali vizi della comunicazione possano essere comunque sanati a ogni effetto di legge attraverso un accordo sindacale concluso nella medesima procedura di licenziamento collettivo.

Il licenziamento, risulta, invece semplicemente annullabile, qualora adottato in violazione dei criteri di scelta di cui all'art. 5 della L. 223/1991.

Ma è proprio in tale contesto che viene in rilievo il profilo che rappresenta il fulcro della sentenza in commento, ovvero la necessità della sussistenza endogena di una specifica legittimazione ad agire, ancorata alla riscontrata titolarità esclusivamente in capo a coloro che vantano un interesse di diritto sostanziale.

Ecco che l'azione di annullamento, pertanto, non risulta proponibile da chiunque vi abbia interesse (e dunque in ragione del semplice interesse ad agire) ma soltanto da coloro che, in concreto, hanno subito un pregiudizio effettivo a causa della censurata violazione della disposizione normativa in ambito selettivo.

Come allora evidenziato dalla Suprema Corte di Cassazione nella pronuncia in commento, nelle ipotesi di annullabilità del licenziamento per violazione dei criteri di scelta, l'azione non potrà essere attivata indistintamente da ciascuno dei lavoratori licenziati invocando una generica esigenza di tutela dell'interesse alla legalità della azione del datore di lavoro, ma soltanto da parte di quei lavoratori in ordine ai quali tale violazione abbia influito sulla collocazione in mobilità e che dunque abbiano, in concreto, un interesse qualificato quali destinatari diretti della tutela apprestata dalla norma della L. n. 223/1991.

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