Revocazione, impugnazione per

Mauro Di Marzio
25 Giugno 2021

L'impugnazione per revocazione è impugnazione a critica vincolata ed articolata in duplice fase rescindente e rescissoria: l'una volta alla verifica della sussistenza del vizio denunciato, sempre che esso abbia carattere di decisività sicché in sua assenza la decisione sarebbe stata diversa, l'altra alla pronuncia di una nuova decisione in sostituzione di quella revocata.
Inquadramento

La lettura dell'art. 395 c.p.c., che apre il capo dedicato all'impugnazione per revocazione, rende immediatamente manifesto il carattere composito di tale strumento e l'eterogeneità delle situazioni che esso prende in considerazione: nei primi tre numeri (dolo di una parte in danno dell'altra, prove dichiarate false, scoperta di nuovi documenti) l'impugnazione è data in un contesto che può in breve descriversi come di minorata difesa, per l'una o per l'altra ragione, della parte soccombente, senza che ciò abbia dato luogo, peraltro, ad un vizio, in senso proprio, della sentenza impugnata, trattandosi di circostanze ad essa estranee: e cioè la sentenza è sì viziata, ma lo è indirettamente; il n. 4 (errore di fatto) contempla un difetto della sentenza determinato da una «svista» del giudice, dunque, potremmo dire, una versione diversa e minore dell'error in iudicando che legittima il ricorso per cassazione; il n. 5 (contrasto con precedente giudicato) ha ad oggetto un vizio di nullità della sentenza, anche in questo caso derivante da una circostanza estranea al processo; il n. 6 (dolo del giudice) si riferisce ancora una volta ad una circostanza estranea al processo.

Tutto ciò discende dalla genesi storica dell'impugnazione per revocazione, la quale (con riguardo al codice previgente) è così tratteggiata da Calamandrei: «Sotto apparente unicità di denominazione e di forme, fonde in sé la sostanza di tre diversi istituti, che hanno origini storiche nettamente distinte. La revocazione basata su uno dei primi tre motivi … mira a rimettere in termine contro il giudicato la parte rimasta soccombente per circostanze, a essa non imputabili, che l'hanno posta nel processo in condizioni di disuguaglianza di fronte all'avversario, impedendole di difendersi in modo efficace: con evidente derivazione dalla restitutio in integrum del diritto romano… La revocazione basata sul quarto motivo … mira al riesame del giudicato viziato da errore di fatto del giudice: e deriva direttamente dalla proposition d'erreur dell'antico diritto francese… La revocazione basata sul quinto motivo … che mira all'annullamento della sentenza viziata da violazione del giudicato, deriva dalla actio nullitatis con cui nel diritto comune si poteva impugnare la sentenza resa contra res prius iudicatas». (Calamandrei, 1936, oggi liberamente reperibile in Internet).

La revocazione, come gli altri mezzi di impugnazione, è posta allo scopo di eliminare una sentenza ingiusta o illegittima, tale per effetto di motivi «particolarmente gravi» (Liebman, 1962, 175), spendibili, in determinati casi, e cioè nel caso di revocazione «straordinaria», contro sentenze già passate in giudicato, in vista della «salvaguardia di universali esigenze di giustizia» (Andrioli, 620).

Caratteri generali della revocazione

L'impugnazione per revocazione (per i rapporti tra revocazione e ricorso per cassazione si rinvia a Di Marzio, Impugnazione per revocazione e ricorso per cassazione: una relazione complicata) è impugnazione a critica vincolata (ossia utilizzabile solo per i motivi tassativamente indicati dalla legge: Liebman, 1991, 369; Picardi, 429) ed articolata in duplice fase rescindente e rescissoria: l'una volta alla verifica della sussistenza del vizio denunciato, sempre che esso abbia carattere di decisività sicché in sua assenza la decisione sarebbe stata diversa, l'altra alla pronuncia di una nuova decisione in sostituzione di quella revocata. In particolare, il iudicium rescindens si articola in due fasi distinte: la prima concerne la questione se l'istanza e ammissibile e procedibile; la seconda (nel caso di soluzione affermativa della prima) concerne quella se i motivi proposti sono intrinsecamente fondati. Qualora anche tale questione sia risolta affermativamente, si passa al iudicium rescissorium, che riguarda la modificazione nel merito della precedente sentenza (Cass. civ., n. 2286/1963).

In generale, il carattere di impugnazione eccezionale della revocazione, per i soli motivi tassativamente indicati nell'art. 395, comporta l'inammissibilità di ogni censura non compresa in detta tassativa elencazione ed esclude di conseguenza anche la deduzione di vizi e di nullità afferenti alle pregresse fasi processuali che restano deducibili con le ordinarie impugnazioni, se e nei modi in cui possano essere ancora proposte (Cass. civ., sez. un., n. 16402/2007; Cass. civ., n.12530/2011).

La revocazione può essere ordinaria (nn. 4 e 5) o straordinaria (nn. 1, 2, 3 e 6): nel primo caso l'impugnazione è rivolta contro una sentenza non ancora passata in giudicato, nell'altro contro una sentenza già passata in giudicato (Picardi, 429).

Nel disegno codicistico l'impugnazione per revocazione poteva essere esclusivamente rivolta contro sentenze: ossia contro il tipico provvedimento conclusivo del giudizio di cognizione ordinaria su diritti o status. In particolare, l'impugnazione in questione, ai sensi degli artt. 395 e 396 c.p.c. poteva e può essere esperita di regola contro le sentenze d'appello ovvero pronunciate in un unico grado; poteva e può essere impiegata contro le sentenze di primo grado solo ove sia scaduto il termine per l'appello e si tratti di revocazione straordinaria (nn. 1, 2, 3 e 6): e cioè la revocazione non può mai essere rivolta contro la sentenza ancora suscettibile di appello, giacché tale mezzo di impugnazione, per la sua latitudine onnicomprensiva, consente in tal caso di far valere anche i vizi altrimenti destinati a inalvearsi nell'impugnazione per revocazione (Cass. civ., n. 3104/2001).

Tale disegno si è però progressivamente evoluto e modificato, di pari passo con il dilatarsi delle disposizioni che hanno previsto la decisione della controversia su diritti o status non più con sentenza, ma con ordinanza, ed anche con decreto: basterà per tutti menzionare il c.d. procedimento sommario di cognizione di cui agli artt. 702-bis ss. c.p.c.. In questa prospettiva, già l'impugnazione per revocazione è stata ammessa, entro determinati limiti, contro l'ordinanza di convalida di sfratto per finita locazione e morosità (Corte cost., n. 558/1989; Corte cost., n. 51/1995). Inoltre gli artt. 391-bis e ter c.p.c. hanno esteso l'impugnazione per revocazione (per errore revocatorio nel caso di cui al n. 4 dell'art. 395, nonché nelle ipotesi di cui ai nn. 1, 2, 3 e 6) anche alle decisioni pronunciate dalla Corte di cassazione, le quali hanno ormai di regola veste di ordinanza e non di sentenza. La revocazione dei lodi arbitrali è infine disciplinata dagli artt. 827 e 831 c.p.c..

In tale quadro la Corte costituzionale ha constatato la sopravvenuta inattualità del detto disegno, giungendo ad affermare che, ormai, nell'ottica dell'interpretazione costituzionalmente orientata, ogni provvedimento decisorio su diritti o status, abbia o no esso forma di sentenza, è impugnabile per revocazione alle condizioni di legge (Corte cost., 5 maggio 2021, n. 89). Nella specie si trattava dell'impugnazione per revocazione di un'ordinanza ex art. 702-bis c.p.c. pronunciata su domanda di un avvocato di pagamento del proprio compenso per prestazioni professionali (il giudice aveva respinto la domanda perché non prodotti gli atti dei giudizi nei quali l'attività era stata spiegata, atti che, invece, erano stati incontestabilmente prodotti), domanda che segue il «sommario semplificato» di cui all'art. 14 del decreto «semplificazione riti», d.lgs. 150/2011, e dunque si conclude con ordinanza non impugnabile. In definitiva, per la Corte costituzionale, «la revocazione per errore di fatto può essere esperita contro ogni atto giurisdizionale riconducibile nel paradigma del provvedimento decisorio innanzi delineato»: i.e. non solo nei casi in cui il procedimento su diritti o status si concluda con ordinanza non appellabile, ma anche in quelli in cui si concluda con decreto, come, ad esempio, nel caso dell'opposizione allo stato passivo, che si decide con decreto impugnabile solo per cassazione.

Termini per la revocazione

Quanto ai termini per la proposizione dell'impugnazione per revocazione contro le decisioni di merito, occorre far riferimento alla disciplina degli artt. 325, 326 e 327 c.p.c.. L'art. 325 c.p.c. stabilisce che la revocazione si propone nel normale termine «breve» di trenta giorni. L'art. 326 c.p.c. fissa poi il dies a quo per la decorrenza del menzionato termine «breve», che prende il suo corso, per la revocazione «ordinaria» (nn. 4 e 5 dell'art. 395 c.p.c.), dalla data di notificazione della sentenza. Per la revocazione «straordinaria» (nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395 c.p.c.), nonché per l'ipotesi della revocazione proponibile dal pubblico ministero, la stessa norma stabilisce che il termine di trenta giorni decorre dalla data in cui è stato scoperto il dolo o la falsità o è stato recuperato il documento o è passata in giudicato la sentenza che ha accertato il dolo del giudice. L'art. 327 c.p.c. dispone infine che, in alternativa al termine «breve», decorrente dalla notificazione della sentenza, trova applicazione, per la revocazione «ordinaria», il termine «lungo», fissato in sei mesi, dalla pubblicazione della sentenza.

Non è dunque prevista l'applicazione del termine «lungo» in caso di revocazione «straordinaria». È tuttavia al riguardo necessario un chiarimento. Intanto il termine «breve» per la revocazione «straordinaria» prende il suo corso, in quanto sia già spirato il termine «lungo» decorrente dalla pubblicazione della sentenza. In altri termini, per il decorso del termine «breve», in pendenza di quello «lungo», occorre che la sentenza revocanda sia stata notificata (Andrioli, 374). In definitiva, qualora la scoperta tale da legittimare la revocazione straordinaria abbia luogo prima dello spirare del termine «lungo» e prima della notificazione della sentenza, il termine di trenta giorni per la proposizione della revocazione inizia il suo corso dalla notificazione della sentenza, applicandosi altrimenti il termine lungo di cui all'art. 327 c.p.c..

Bisogna inoltre ricordare che secondo la S.C. il termine breve per l'impugnazione decorre non soltanto dalla notifica della sentenza, ma anche dalla notifica dell' impugnazione. Sicché la notifica del ricorso per cassazione fa decorrere il termine breve per proporre anche l'impugnazione per revocazione. Si legge ad esempio in una pronuncia della S.C. che «secondo la pacifica giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la notifica di una impugnazione avverso una sentenza equivale (sia per la parte notificante che per la parte destinataria) alla notificazione della sentenza stessa ai fini della decorrenza del termine breve per proporre altra impugnazione» (Cass. civ. n. 3294/2009). Naturalmente il principio che precede ha rilievo essenzialmente per la revocazione «ordinaria».

Le sentenze di primo grado non sono di regola suscettibili di impugnazione per revocazione, dal momento che, essendo soggette ad appello, i vizi revocatori da cui esse siano eventualmente affette possono essere denunciati e se del caso emendati mediante il rimedio dell'appello, che, consentendo di censurare qualunque profilo di ingiustizia o illegittimità della sentenza, assorbe il rimedio revocatorio (Liebman, 370).

Eguali conclusioni ha raggiunto la giurisprudenza (Cass. civ., n. 3104/2001).

L'art. 396 c.p.c. è posto dunque allo scopo di consentire il ricorso alla revocazione (nei soli limiti della revocazione «straordinaria») quando in concreto l'impugnazione in appello non è più possibile, né lo sarebbe stata prima ancora della scadenza dei relativi termini. Per questo la norma ammette la revocazione delle sentenze di primo grado alla duplice condizione che sia scaduto il termine per proporre l'appello e che «la scoperta del dolo o della falsità o il recupero dei documenti o la pronuncia di cui al n. 6» siano avvenuti dopo il decorso del termine. Il ricorso per revocazione ex art. 395 non può quindi avere ad oggetto la sentenza di primo grado quando vi sia già pronuncia, pur solo in rito, del giudice di secondo grado, perché il sistema delineato dagli artt. 395 e 396 esclude il rimedio revocatorio contro la sentenza di primo grado tempestivamente appellata (Cass. civ., n. 19233/2015). Viceversa, è esclusa la revocazione ordinaria delle sentenze di primo grado, dal momento che i vizi di cui ai nn. 4 e 5 dell'art. 395 (errore di fatto e contrarietà a precedente giudicato) emergono dalla stessa sentenza e, così, possono, e pertanto devono, essere denunciati entro l'ordinario termine di impugnazione, cioè, mediante appello (Cass. civ., n. 4689/1993).

L'accertamento dell'avvenuta scadenza dei termini per la proposizione dell'appello, ai fini della verifica di sussistenza della condizione di ammissibilità dell'istanza di revocazione straordinaria ex art. 396, comma 1, riguarda questione di natura processuale e, pertanto, non può formare oggetto di cosa giudicata in senso sostanziale, essendo destinato ad operare soltanto con effetti limitati al processo in cui è intervenuto; ne deriva che il giudice dell'appello, successivamente adito, ben può procedere allo scrutinio di ammissibilità del gravame e ad autonomo accertamento della sussistenza delle condizioni che, ai sensi dell'art. 327, comma 2, consentono tale impugnazione pur dopo la scadenza del termine annuale previsto dal primo comma della medesima norma, dovendosi escludere qualsiasi preclusione derivante dalla sentenza resa dal giudice della revocazione (Cass. civ., sez. un., n. 6737/2002).

Il comma 2 dell'art. 396 c.p.c. precisa che, qualora i fatti da cui prende corso la decorrenza del termine per la proposizione della revocazione straordinaria abbiano a verificarsi durante il corso del termine per proporre l'appello, detto termine è prorogato in modo da raggiungere i trenta giorni da esso.

Dolo di una delle parti in danno dell'altra

La formulazione della norma, richiedendo il dolo di una delle parti in danno dell'altra, nega rilievo al dolo processuale bilaterale (Andrioli, 623). Il dolo revocatorio ricorre in particolare quando la parte pone in essere artifici e raggiri soggettivamente indirizzati ed oggettivamente idonei a pregiudicare la difesa della controparte (Mandrioli, 555; Liebman, 1991, 371).

Anche la S.C. afferma che il dolo processuale di una delle parti in danno dell'altra in tanto può costituire motivo di revocazione della sentenza, ai sensi dell'art. 395, n. 1, c.p.c., in quanto consista in un'attività deliberatamente fraudolenta, concretantesi in artifici o raggiri tali da paralizzare o sviare la difesa avversaria ed impedire al giudice l'accertamento della verità, facendo apparire una situazione diversa da quella reale. Di conseguenza, non sono idonei a realizzare la fattispecie descritta la semplice allegazione di fatti non veritieri favorevoli alla propria tesi, il silenzio su fatti decisivi della controversia o la mancata produzione di documenti, che possono configurare comportamenti censurabili sotto il diverso profilo della lealtà e correttezza processuale, ma non pregiudicano il diritto di difesa della controparte, la quale resta pienamente libera di avvalersi dei mezzi offerti dall'ordinamento al fine di pervenire all'accertamento della verità (Cass. civ., n. 23866/2008; Cass. civ., n. 4936/2010; Cass. civ., n. 3488/2013; Cass. civ., n. 12875/2014).

Talora è stato ritenuto che i caratteri del dolo revocatorio possano essere avvisati anche nel mendacio o nel silenzio su fatti decisivi della causa, specie quando il comportamento processuale attuativo dell'iniziale disegno fraudolento sia tale da impedire alla controparte un'efficace attività difensiva o, comunque, da pregiudicare l'esito del procedimento (Cass. civ., n. 12720/2002).

Nell'ipotesi di revocazione di sentenza per dolo di una parte in danno dell'altra, ex art. 395, comma 1, n. 1, c.p.c., il termine perentorio per proporla, di trenta giorni, decorre, ai sensi dell'art. 326 c.p.c., dalla scoperta del dolo, benché debba trattarsi di scoperta effettiva e completa, riconoscibile solo quando si sia acquisita la ragionevole certezza - non essendo sufficiente il mero sospetto - che il dolo vi sia stato ed abbia ingannato il giudice, fino a determinarne statuizioni diverse da quelle che sarebbero state adottate a conclusione di un dibattito corretto. (Cass. civ., n.2989/2016, che ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto inammissibile la revocazione facendone decorrere il termine di proposizione non dal momento del rinvio a giudizio dell'altra parte, ma già dalla data di presentazione della denuncia-querela, con l'esposizione dei medesimi fatti dedotti nella citazione per revocazione, in quanto erano ormai acquisiti tutti gli elementi comprovanti la condotta fraudolenta in thesi posta in essere ai suoi danni).

Prove dichiarate false

Il motivo di revocazione in discorso non ricorre ove venga denunciata la falsità di atti che non abbiano natura istruttoria (Andrioli, 625).

Anche in giurisprudenza si è affermato che l'ipotesi di falsità delle prove configurata dall'art. 395, n. 2, c.p.c. non ricorre in ordine alle attività meramente processuali, anche se preordinate all'istruttoria del processo; dette attività, anche se viziate da falsità, non incidono sulla veridicità delle prove sulle quali si e giudicato e possono trovare il loro correttivo nell'ambito del processo, in cui sono state poste in essere, mediante le eccezioni di nullità ed i normali mezzi di impugnazione (Cass. civ., n. 448/1975 concernente denuncia di falsità della sottoscrizione apposta, da parte del procuratore legale del convenuto, sulla ricevuta di ritorno relativa alla notificazione, effettuata a mezzo del servizio postale, del ricorso e del decreto del giudice delegato per l'assunzione di una prova testimoniale, poi raccolta in assenza del convenuto stesso; per l'ipotesi di falsità della relata di notifica dell'atto introduttivo del giudizio). Il concetto di «prova», ai fini dell'ipotesi di revocazione prevista dall'art. 395, n. 2, va dunque inteso in senso strettamente strumentale rispetto alle domande ed alle eccezioni proposte dalle parti e cioè nel senso di mezzo di controllo della veridicità dei fatti posti a fondamento delle contrapposte pretese (Cass. civ., n. 1957/1983 concernente la falsità della relata di notifica dell'atto introduttivo del giudizio).

Vale rammentare inoltre che, ai sensi dell'art. 2738 c.c., tra le prove cui si riferisce la norma non può essere compreso il giuramento decisorio, la cui falsità consente di agire esclusivamente per il risarcimento dei danni in caso di condanna per falso giuramento ovvero a seguito di cognizione del giudice civile quando il reato è estinto.

Laddove richiede come presupposto di ammissibilità della domanda di revocazione la falsità della prova accertata in un precedente giudizio, la disposizione in esame si riferisce alla prova intesa in senso lato, come qualsiasi mezzo o strumento predisposto dalla legge perché il giudice possa, attraverso un'attività percettiva o induttiva, formarsi un convincimento circa l'esistenza o l'inesistenza dei fatti rilevanti per la decisione della causa; ne consegue che tra le prove la cui falsità è rilevante in questa sede sono da ritenersi incluse, oltre a tutte le prove tecniche (con esclusione del solo giuramento) anche la consulenza tecnica d'ufficio e la perizia svolta nel processo penale (Cass. n. 3947/2006). L'accertamento della falsità, peraltro, non è integrata da una dichiarazione in tal senso dello stesso consulente (Cass. civ., n. 1513/1973).

Anche la dottrina ritiene che tra le prove in discorso debba ricomprendersi la consulenza tecnica (Liebman, 372).

Laddove discorre di prove riconosciute o dichiarate false dopo la sentenza, ovvero che la parte soccombente ignorava essere state riconosciute o dichiarate tali in precedenza la norma richiede che la falsità risulti da una sentenza penale o civile, passata in giudicato. Non è idonea a giustificare la revocazione la falsità desumibile dal contenuto di una deposizione testimoniale, o dalla confessione giudiziale resa dalla parte nel corso del giudizio (Cass. civ., n. 2896/2009; Cass. civ., n. 7576/1994). Per l'accertamento, in sede civile, della falsità di una prova, al fine di poter proporre sulla base di esso azione di revocazione ex art. 395, n. 2, la dichiarazione giudiziale di falsità potrà ottenersi col mezzo speciale della querela di falso tutte le volte in cui l'impugnativa sia rivolta contro un documento avente fede privilegiata, e in tutti gli altri casi mediante la proposizione di un'azione di mero accertamento, in quanto la regola secondo la quale le azioni di mero accertamento possono avere ad oggetto solo i diritti e non anche i fatti subisce eccezione nei casi espressamente previsti dalla legge, tra i quali rientra l'autonomo giudizio di falsità della prova, propedeutico alla proposizione della domanda di revocazione ai sensi della disposizione di cui si discorre (Cass. civ., n. 3947/2006).

L'art. 395 c.p.c., indicando quale presupposto dell'istanza di revocazione che si sia giudicato su prove dichiarate false, postula che tale dichiarazione sia avvenuta con sentenza passata in giudicato (in sede civile o penale) anteriormente alla proposizione dell'istanza di revocazione, con la conseguenza che è inammissibile l'istanza di revocazione basata sulla falsità di prove da accertare nello stesso giudizio di revocazione. Ai fini dell'ammissibilità dell'istanza di revocazione è necessario, altresì, che il giudicato (civile o penale) sul falso si sia formato in un giudizio, al quale abbiano partecipato tutte le parti del giudizio in cui è stata emessa la sentenza assoggettata a revocazione, restando esclusa, inoltre, la possibilità che detto giudicato possa desumersi se non per via diretta e principale e quindi in via incidentale (Cass. civ., n. 3947/2006). Ai fini della proponibilità dell'impugnazione per revocazione, inoltre, il riconoscimento della falsità della prova è solo quello proveniente dalla parte a favore della quale la prova è stata utilizzata, mentre è irrilevante l'accertamento della falsità compiuto in giudizi vertenti tra terzi (Cass. civ., n. 156/2015).

Il decreto di archiviazione emesso dal giudice penale ex art. 409 c.p.p., per la sua natura di atto giudiziale non definitivo, non integra accertamento della falsità di una prova che possa dare luogo al giudizio di revocazione ex art. 395, n. 2, c.p.c. (Cass. n. 156/2015; Cass. n. 9834/2002). Si esclude parimenti che abbia efficacia in tal senso la sentenza penale di proscioglimento istruttorio (Cass. civ., n. 4527/1982), e la sentenza penale dibattimentale di primo grado, di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, impugnata dal p.m. (Cass. civ., n. 12188/2002).

La falsità è rilevante ancorché riconosciuta o dichiarata prima della sentenza revocanda, ove la parte ne abbia ignorato senza sua colpa il riconoscimento o la dichiarazione (Cass. civ., n. 14821/2005, che si sofferma sull'onere della prova che incombe sulla parte con riguardo alla mancata conoscenza anteriore).

La falsità delle prove deve aver concorso alla formazione del convincimento del giudice. Occorre cioè l'esistenza di un rapporto di causalità tra la decisione impugnata per revocazione e la dedotta falsità delle prove (Cass. civ., n. 4237/1982).

Documenti decisivi

Nel menzionare i documenti decisivi, la norma fa riferimento ad una nozione ampia di documento, in quanto potenzialmente idoneo ad incidere sulla decisione.

La categoria di «documenti», rilevante ai sensi e per gli effetti dell'art. 395, n. 3, si identifica non con quella delle scritture private, direttamente rappresentative dei fatti dedotti in causa, bensì con quella ampia e generica elaborata in sede di teoria generale del diritto, che fa riferimento a qualsiasi oggetto idoneo e destinato a fissare in qualsiasi forma, anche non grafica, la percezione di un fatto storico al fine di rappresentarlo in avvenire, e che nel capo II del titolo II e del libro VI del codice civile, intitolato alla «prova documentale», trova compiuta regolamentazione (Cass. civ., n. 1838/1990).

Decisivo è il documento da cui emergano fatti che, se tempestivamente offerti allo scrutinio del giudice, avrebbero probabilmente condotto ad una diversa decisione (Liebman, 372).

Anche la S.C. osserva che il requisito della decisività dei nuovi documenti rinvenuti dopo la sentenza, richiesto per l'impugnazione per revocazione a norma dell'art. 395, n. 3, implica l'idoneità di tali documenti a provocare una decisione diversa (Cass. civ., sez. un., n. 5990/1984). I documenti devono dunque concernere direttamente i fatti di causa, sicché non rilevano i documenti che si limitano ad offrire semplici indizi utilizzabili solo per una revisione del convincimento espresso dalla sentenza revocanda in esito ad un riesame complessivo del precedente quadro probatorio coordinato con il nuovo dato acquisito (Cass. civ., n. 8202/2004). In particolare, ai fini della fattispecie revocatoria di cui all'art. 395, n. 3, c.p.c. il requisito della decisività del documento va escluso nel caso in cui questo non sia, per sua natura, destinato a costituire la prova di un determinato fatto, ma rappresenti soltanto un mezzo di conoscenza di un fatto decisivo, prima ignorato e del quale l'interessato poteva procurarsi aliunde la conoscenza stessa (Cass. civ., n. 27832/2011). Ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione per revocazione straordinaria, ai sensi dell'art. 395, n. 3, c.p.c. è necessario che la parte indichi nell'atto di impugnazione sia le ragioni che hanno impedito all'istante di produrre i documenti rinvenuti in ritardo sia quelle relative alla decisività dei documenti stessi, incombendo sulla parte che si sia trovata nell'impossibilità di produrre i documenti asseritamente decisivi nel giudizio di merito, l'onere di provare che l'ignoranza dell'esistenza del documento o del luogo ove esso si trovava non è dipesa da colpa o negligenza, ma dal fatto dell'avversario o da causa di forza maggiore (Cass. civ., n. 22159/2014).

Occorre altresì che il documento decisivo preesista alla decisione impugnata, non essendo sufficiente che anteriore alla decisione sia il fatto rappresentato dal documento medesimo (Cass. civ., n. 4610/1996). L'ipotesi di revocazione ora in esame presuppone dunque che un documento preesistente alla decisione impugnata, che la parte non abbia potuto a suo tempo produrre per causa di forza maggiore o per fatto dell'avversario, sia stato recuperato solo successivamente a tale decisione, atteso l'uso dell'espressione «sono stati trovati» contenuta nel n. 3) della disposizione in esame, alla quale fa riscontro il termine «recupero» adottato nei successivi artt. 396 e 398, mentre è irrilevante che il documento faccia riferimento a fatti antecedenti alla sentenza stessa e sia stato recuperato solo successivamente a tale decisione; ne consegue che detta ipotesi di revocazione non può essere utilmente invocata facendo riferimento a un documento formato dopo la decisione (Cass. civ., n. 3362/2015; Cass. civ,. n. 20587/2015).

L'impedimento alla produzione deve discendere da cause di forza maggiore o da fatto dell'avversario. La forza maggiore si concreta nell'ignoranza assoluta ed incolpevole del documento, requisito insussistente ove il documento, nella disponibilità della parte e da questa consegnato al difensore, non sia stato prodotto in giudizio per strategia difensiva, insuscettibile di trasformarsi in forza maggiore neppure per il decesso del difensore, avvenuto durante il termine per l'appello (Cass. civ., n. 12000/2014). È quindi inammissibile l'impugnazione per revocazione quando la parte abbia recuperato tardivamente il documento decisivo per fatto imputabile a sua negligenza (Cass. civ., n. 15242/2012).

Sul piano dell'onere probatorio, ai fini dell'ammissibilità dell'impugnazione, è necessario che la parte si sia trovata nell'impossibilità di produrre il documento asseritamente decisivo nel giudizio di merito, incombendo sulla stessa parte, in quanto attrice nel relativo giudizio, l'onere di dimostrare che l'ignoranza dell'esistenza del documento o del luogo ove esso si trovava fino al momento dell'assegnazione della causa a sentenza non era dipeso da colpa o negligenza, ma dal fatto dell'avversario o da causa di forza maggiore. Ne consegue che, nell'ipotesi di ignoranza dell'esistenza di un documento, l'onere della parte è soddisfatto dalla dimostrazione di una situazione di fatto tale da giustificarne la mancata conoscenza, mentre in quella di ignoranza soltanto del luogo di conservazione l'ammissibilità dell'impugnazione è subordinata alla prova di una diligente ricerca del documento e, nel caso di un suo pregresso possesso, dell'essersi verificato lo smarrimento per cause eccedenti la possibilità di controllo della parte (Cass. civ., n. 735/2008).

Il termine per proporre la revocazione decorre dal momento in cui la parte a avuto conoscenza del documento, per cui anche la data in questione costituisce oggetto di uno specifico onere probatorio (Cass. civ., n. 9369/2006; Cass. civ., n. 11947/1999). L'impugnazione per revocazione correlata, a norma dell'art. 395, n. 3, al ritrovamento di documenti non potuti produrre nel giudizio conclusosi con la pronuncia della sentenza impugnata, deve essere proposta a pena di inammissibilità, a norma degli artt. 325 e 326, entro trenta giorni dalla data della scoperta dei documenti medesimi e l'onere della prova dell'osservanza del termine, e quindi della tempestività e dell'ammissibilità dell'impugnazione, incombe alla parte che questa abbia proposto, la quale deve indicare in citazione, a pena d'inammissibilità della revocazione, le prove di tali circostanze, nonché del giorno della scoperta o del ritrovamento del documento (Cass. civ., n. 9652/2016).

Errore di fatto

In tema di revocazione per errore di fatto, rammentata la distinzione (per la quale v. Cass. civ., n. 17402/2014; Cass. civ., n. 8472/2016) tra giudizio di fatto (tutto ciò che attiene all'accertamento della verità di «fatti bruti», fatti, dunque, accaduti nel mondo fenomenico, ai quali si addice per l'appunto il predicato di «vero» o «falso»), e giudizio di diritto (tutto quanto attiene all'applicazione di norme e, così, all'individuazione della norma applicabile al caso concreto; alla sua interpretazione; alla sussunzione dei fatti, come ricostruiti, entro la fattispecie astratta; all'individuazione delle conseguenze da quella norma previste), deve in generale osservarsi che l'errore revocatorio ricorre in presenza di una falsa percezione della realtà: di un errore, cioè, obbiettivamente ed immediatamente percepibile, che attiene all'accertamento o alla ricostruzione della verità di specifici dati empirici, idonei a dar conto di un accadimento esterno al processo, al quale la parte interessata intende ricollegare effetti giuridici a sé favorevoli, all'esito della sua sussunzione entro una fattispecie generale ed astratta determinata.

L'errore revocatorio deve, allora, apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive e, meno che mai, della ricognizione dell'attività ermeneutica svolta (Cass. civ., sez. un., n. 561/2000; Cass. civ., n. 4295/2005; Cass. civ., n. 23856/2008; Cass. civ.,, sez. un., n. 4413/2016). Detto errore non può perciò mai consistere in un'inesatta valutazione delle risultanze processuali (integrando essa, semmai, un vizio motivazionale), giacché la valutazione implica di per sé una ponderazione tra più possibili letture, e dunque esclude in radice la configurabilità dell'errore in discorso.

Ai sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c., l'errore revocatorio, il quale ricorre quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l'inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, si svela nel contrasto - tale da presentarsi in termini di esclusione reciproca - tra la rappresentazione di un fatto (o di un complesso di fatti) univocamente emergente dagli atti e dai documenti e la supposizione del medesimo fatto (o complesso di fatti) posta a base della decisione del giudice: si tratta insomma di una falsa percezione della realtà, obiettivamente ed immediatamente rilevabile, che abbia condotto il giudice, per effetto di una sorta di abbaglio, ad affermare l'esistenza di un fatto decisivo invece incontestabilmente escluso dagli atti di causa, ovvero l'inesistenza di un fatto decisivo, che dagli stessi atti risulti al contrario positivamente accertato (Cass. civ., n. 6669/2015; Cass. civ., n. 321/2015; Cass. civ., n. 17443/2008).

Occorre ancora, alla stregua del dato normativo, che il fatto oggetto dell'errore non sia stato oggetto del dibattito processuale su cui la pronuncia impugnata abbia deciso (Cass. civ., n. 9416/1997; Cass. civ., n. 12194/1993). Il fatto oggetto della supposizione di esistenza o inesistenza non deve cioè avere costituito un punto controverso sul quale la decisione ebbe a pronunciarsi: sicché non è configurabile l'errore revocatorio qualora l'asserita erronea percezione degli atti di causa abbia formato oggetto di discussione e della consequenziale pronuncia a seguito dell'apprezzamento delle risultanze processuali compiuto dal giudice (Cass. civ., 15 dicembre 2011, n. 27094).

È così inammissibile il ricorso per cassazione con cui si denunci l'errore del giudice di merito per avere ignorato un documento acquisito agli atti del processo e menzionato dalle parti, non corrispondendo tale errore ad alcuno dei motivi di ricorso ai sensi dell'art. 360; l'errore in questione, risolvendosi in una inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento ma in contrasto con le risultanze degli atti del processo, può essere invece denunciato con il mezzo della revocazione, ai sensi dell'art. 395, n. 4, c.p.c. (Cass. civ., n. 4056/2009; Cass. civ., n. 16659/2005; Cass. civ., n. 20240/2015).

Il configurarsi del sopravvenire della conoscenza di un fatto, quale dies a quo per l'impugnazione, mentre è caratteristico delle ipotesi della cosiddetta «revocazione straordinaria» (nn. 1, 2, 3 e 6 dell'art. 395), è invece del tutto estraneo alle ipotesi della cosiddetta «revocazione ordinaria» (nn. 4 e 5), nelle quali il dies a quo si identifica, invece, in quello della notificazione della sentenza, o, in mancanza, in quello della pubblicazione della stessa, e determina - corrispondentemente - il decorrere del termine breve, o del termine annuale per l'impugnazione (Cass. civ., n. 5103/1997).

L'errore di fatto deve essere decisivo. Nella fase rescindente del giudizio di revocazione, il giudice, verificato l'errore di fatto (sostanziale o processuale) esposto ai sensi del n. 4 dell'art. 395 c.p.c., deve valutarne la decisività alla stregua del solo contenuto della sentenza impugnata, operando un ragionamento di tipo controfattuale che, sostituita mentalmente l'affermazione errata con quella esatta, provi la resistenza della decisione stessa; ove tale accertamento dia esito negativo, nel senso che la sentenza impugnata risulti, in tal modo, priva della sua base logico-giuridica, il giudice deve procedere alla fase rescissoria attraverso un rinnovato esame del merito della controversia, che tenga conto dell'effettuato emendamento (n. 6881 del 24/03/2014).

Le prescrizioni in tema di distanze tra costruzioni contenute negli strumenti urbanistici locali hanno valore di norme giuridiche, sicché l'erronea percezione del contenuto di documenti che le riproducono costituisce errore di diritto, inqualificabile come vizio revocatorio ex art. 395, n. 4 (Cass. n. 17847/2016).

Contraddittorietà con un precedente giudicato

Affinché la sentenza possa considerarsi contraria ad altra precedente avente autorità di giudicato, occorre che tra i due giudizi vi sia identità di soggetti e di oggetto, tale che tra le due vicende sussista una ontologica e strutturale concordanza degli estremi sui quali deve essere espresso il secondo giudizio, rispetto agli elementi distintivi della decisione emessa per prima, nel senso che la precedente sentenza deve avere ad oggetto il medesimo fatto o un fatto ad esso antitetico, non anche un fatto costituente un possibile antecedente logico, restando poi la contrarietà con la sentenza avente autorità di cosa giudicata ipotizzabile solo in relazione all'oggetto degli accertamenti in essa racchiusi, e risultando l'apprezzamento del giudice della revocazione al riguardo sottratto al sindacato di legittimità se sorretto da motivazione immune da vizi logici e giuridici (

Cass. civ., n. 12348/2009

, la quale ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la possibile esistenza di un contrasto di giudicati tra l'actio negatoria servitutis promossa in relazione ad una striscia di terreno e l'azione di accertamento della proprietà esclusiva della medesima striscia introdotta in altra sede dal convenuto nel primo giudizio).

La revocazione non è ammessa se vi sia stata pronuncia sull'eccezione di giudicato (

Cass. civ., n. 2131/1996

).

Dolo del giudice

La revocazione richiede in tale ipotesi che il dolo sia stato accertato con sentenza passata in giudicato e che esso consista in un intento fraudolento, ovvero in una collusione che hanno falsato la corretta formazione della decisione, costituendo causa diretta e determinante del provvedimento ingiusto (Cass. civ., n. 1409/2004, concernente revocazione di lodo arbitrale).

In virtù dei principi costituzionali del giusto processo e dell'effettività della tutela giurisdizionale, la previsione di cui all'art. 395, n. 6, c.p.c., deve essere interpretata nel senso di non inibire alla parte, vittima di una sentenza pronunciata da giudice corrotto, la possibilità di agire direttamente per il risarcimento del danno ex art. 2043 c.c., allorché ricorra una situazione di oggettiva carenza di interesse ad avvalersi dell'impugnazione straordinaria, in ragione sia dell'impossibilità di soddisfare, attraverso l'eventuale pronuncia resa all'esito della fase rescissoria della revocazione, le pretese già in precedenza azionate in giudizio, sia della sopravvenienza di un fatto - nella specie, la conclusione di un contratto di transazione, stipulato nell'ignoranza della vicenda corruttiva - che esplichi effetto preclusivo in ordine alla attitudine della sentenza, frutto di corruzione, ad assumere autorità di cosa giudicata (Cass. civ., n. 21255/2013).

Riferimenti
  • Andrioli, Commento al codice di procedura civile, II, 3a ed., Napoli, 1960;
  • Calamandrei, voce Revocazione, in Enciclopedia Italiana, Roma, 1936;
  • Consolo-Luiso-Sassani, Commentario alla riforma del processo civile, Milano, 1996;
  • Liebman, Sulla rilevabilità d'ufficio dell'eccezione di cosa giudicata, in Efficacia e autorità della sentenza, Milano, 1962, 175;
  • Liebman, Manuale di diritto processuale civile, II, Milano, 1984;
  • Mandrioli, Corso di diritto processuale civile, II, Torino, 1991;
  • Picardi, Manuale del processo civile, Milano, 2013.
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